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E’ noto che, nell’ambito degli interventi alluvionali adottati dal governo per il raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica, i pensionati pubblici e privati hanno costituito un bersaglio privilegiato (per non dire abusato). In particolare, vengono all’attenzione due misure alquanto odiose: da un lato, quella di cui all’art. 18 comma 22 bis del decreto legge 6 Luglio 2011 n. 98 che prevede, a decorrere dal 1 agosto 2011 sino al 31 dicembre 2014, in relazione ai trattamenti pensionistici corrisposti da enti gestori di forme di previdenza obbligatorie di ammontare superiore a euro 90.000 lordi annui, un contributo di perequazione pari al 5% della parte eccedente il predetto importo fino a euro 150.000, nonché pari al 10% della parte eccedente i 150.000 euro; dall’altro, il blocco della perequazione in relazione agli anni 2012-2013 per i trattamenti pensionistici di importo complessivo superiore a tre volte il trattamento minimo INPS (euro 1.405,05), sancito dall’art. 24 comma 25 del decreto legge 6 dicembre 2011 n. 201 (convertito nella legge 22 dicembre 2011 n. 214).
Ora, il ticket del 5%, pur essendo ancora formalmente in vigore, risulta nella sostanza già bocciato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 241/2012. Lungi dall’essere un fulmine a ciel sereno, tale pronuncia si pone su di una linea di continuità con un (di poco) precedente dictum (sentenza n. 223/2012), mediante il quale la Corte Costituzionale, pur riconoscendo, che “l’eccezionalità della situazione economica che lo Stato deve affrontare è …suscettibile… di consentire al legislatore anche il ricorso a strumenti eccezionali nel difficile compito di contemperare il soddisfacimento degli interessi finanziari e di garantire i servizi e la protezione di cui tutti i cittadini necessitano”, ha tuttavia lanciato il monito che “è compito dello Stato garantire, anche in queste condizioni il rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale, il quale certo non è indifferente alla realtà economica e finanziaria ma con altrettanta certezza non può consentire deroghe al principio di uguaglianza sul quale è fondato l’ordinamento Costituzionale”. Facendo propria tale premessa, la Corte Costituzionale ha riconosciuto la natura tributaria del ticket del 5%, in quanto integrante una decurtazione patrimoniale definitiva del trattamento pensionistico con acquisizione al bilancio statale del relativo ammontare. E, in ragione di ciò ha sottolineato come esso risulti porsi in evidente contrasto con gli articoli 3 e 53 della Costituzione, non andando a colpire l’universalità dei soggetti con uguale capacità contributiva, ma finendo per gravare in modo del tutto irragionevole soltanto su taluni, ossia i pensionati, costituenti tra l’altro la parte più debole e vulnerabile (anche perché non contrattualizzata) dei cittadini.
Se oggi tale contributo deve ritenersi ancora in vigore è soltanto perché la Corte Costituzionale non ha potuto abrogare la norma costitutiva del medesimo in quanto non ha formato oggetto di specifica impugnazione da parte del remittente. Appare tuttavia del tutto verosimile reputare che, una volta portata la giusta norma all’attenzione della Corte Costituzionale, quest’ultima non potrà che dichiararne l’illegittimità, traendo le dovute conseguenze del ragionamento svolto nella sentenza n. 241/2012.
Altrettanto vessatorio, anche se in modo più subdolo, si rivela il blocco della perequazione in relazione agli anni 2012-2013. E’ vero che, in una recente decisione (n. 316 del 2010), incentrata sul blocco (riconosciuto legittimo) delle perequazioni per l’anno 2008 in ordine ai trattamenti superiori otto volte a quello minimo sancito dall’art. 1, comma 19 della l. 24 dicembre 2007, n. 247, il Giudice delle leggi ha affermato che dal dettato costituzionale, e in particolare dal disposto dell’art. 38 Cost., non può farsi discendere come conseguenza ineluttabile quella dell’adeguamento con cadenza annuale di tutti i trattamenti pensionistici: e ciò “soprattutto ove si consideri che le pensioni incise dalla norma impugnata, per il loro importo elevato, presentano margini di resistenza all’erosione determinata dal fenomeno inflattivo”.
Ma è altrettanto indiscutibile che, nella medesima pronuncia, la Corte Costituzionale non ha potuto fare a meno di richiamare l’attenzione sul rischio che “la frequente reiterazione di misure intese a paralizzare il meccanismo perequativo esponga il sistema di evidenti tensioni con gli invalicabili principi di ragionevolezza e proporzionalità, perché le pensioni, sia pure di maggiore consistenza, potrebbero non essere sufficientemente difese in relazione ai mutamenti di acquisto della moneta”. E proprio alla luce di ciò, non può sfuggire come il pericolo appena paventato si riveli più che concreto rispetto a quanto previsto dal già ricordato art. 24 comma 25 del decreto legge 6 dicembre 2011 n. 201l. Basti al riguardo osservare che il blocco per gli anni 2012 e 2013 non soltanto interviene a distanza di neppure cinque anni da quello precedente, ma concerne trattamenti di importo più contenuto (in quanto superiore soltanto tre volte a quello minimo). Se poi si considera da un lato che il ricorso allo strumento in discorso non appare oggi sorretto da precise ragioni di carattere solidaristico (come invece accadde nel caso precedente, allorquando il blocco della perequazione servì a compensare l’eliminazione dell’innalzamento repentino a sessanta anni dell’età minima prevista per l’accesso alla pensione di anzianità), dall’altro che i soggetti interessati devono comunque fare i conti con l’inasprimento della pressione fiscale, il cui peso è stato portato al limite (o forse già oltre quello) della tollerabilità, non sembra pertanto azzardato ipotizzare l’illegittimità costituzionale anche dell’art. 24 comma 25 del decreto legge 6 dicembre 2011 n. 201 per violazione degli articoli 36 e 38 Cost., nonché per contrarietà al principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost.