Giorgio Santerini è un giornalista di lungo corso, nonché un politico sagace. Forse molti giovani giornalisti non lo conoscono, eppure Santerini è stato anche uno tra i più grandi sindacalisti della categoria: da quando entrò nel Comitato di redazione del Corriere della Sera a quando fondò - insieme a Walter Tobagi e a un gruppo di colleghi riformisti - la corrente di Stampa Democratica; da quando diventò Presidente dell’Associazione Lombarda Giornalisti – proprio dopo l’assassinio di Tobagi - a quando conquistò la maggioranza della Federazione Nazionale della Stampa Italiana diventandone in seguito Segretario, fino al 1996. Sono ‘santeriniani’ alcuni contratti nazionali di lavoro firmati dalla Fnsi negli anni ’80 e ’90 e dei loro effetti (economici e normativi) beneficiano tuttora decine di migliaia di giornalisti italiani: compresi i più giovani, se hanno la fortuna di avere oggi un contratto.
Ora, compiute le sue prime 74 primavere, Giorgio Santerini pubblica un nuovo libro intitolato “Freddocuore” (SE editore, 19 euro), un racconto che affonda le radici negli anni di Tangentopoli che segnarono la fine della ‘Prima Repubblica’ che l’autore ben conosce. Infatti il protagonista del libro è un politico corrotto, gravemente malato, che in prima persona si racconta, in un momento di estrema difficoltà: “Avviene quando i farmaci della pre-anestesia cominciano a dare i loro effetti, nella lunga attesa prima di entrare in sala operatoria”, spiega Santerini, che tratteggia in “Freddocuore” un uomo colto nella sua solitudine più assoluta. Si tratta quasi di una visione complementare a quella dei suoi libri precedenti, in cui il giornalista-scrittore esplorava i confini tra malaffare, economia e politica: s’intitolavano “Il delfino del cotone” (sul bancarottiere Felice Riva) e “L’orfano di Stalin” (su un non meglio identificato ‘uomo dei soldi’ del vecchio Pci).
Chiedo a Giorgio Santerini: come mai questa scelta di affidare il racconto di “Freddocuore” a un uomo malato, e proprio nel momento della pre-anestesia?
Perché si tratta del tempo nel quale chiunque si trovi in quella condizione percepisce il peso del “non ritorno”. Quando si è arrivati lì, insomma, non esiste più niente d’altro: la libertà cessa di esistere e matura, progressivamente, uno stato di prigionia sia materiale che psicologica. Il protagonista di “Freddocuore” è incastrato dentro questa dimensione e però qui nasce la sua disperata lotta contro l’alterazione dei farmaci che spingono fatalmente verso la perdita del controllo di sé.
Il protagonista è un politico, che in “Freddocuore” è senza nome… Può essere un uomo sia della Prima che della Seconda Repubblica?
Non è importante il tempo in cui si svolge il racconto: è un monologo-riproduzione di quest’uomo senza carta d’identità che ripercorre a strappi la propria esistenza. Si analizza, si misura col proprio passato. Lo rivive. A tratti lo cancella. Si ritrova e si perde. E’ stato un parlamentare, ha lottato per il potere, lo ha avuto, lo ha perso. E’ parte di un vasto processo di corruzione, ne è stato attore. Ma insieme con questi brandelli di biografie, si sviluppa anche il feroce desiderio di fuggire dall’ospedale in cui si trova. Di rinunciare per sempre alle terapie che si sono mostrate inefficaci.
Quindi è la malattia, insieme alla politica corrotta vissuta in passato dal protagonista, la chiave di lettura di “Freddocuore”?
Il racconto si sviluppa su questo doppio budello: da una parte il sogno di liberarsi, di scendere dal lettino, di scomparire dimenticando tutto quello che sta alle spalle. Ma dall’altra la forza del passato preme, ritorna. E le parole sono un laser che penetra nei capitoli oscuri dell’ex parlamentare, nelle sue azioni, nell’immoralità convissuta.
In definitiva, un libro duro ed emozionante. Ma qual è il senso di questo racconto?
E’ un crogiuolo di parole, emozioni richiamate da flash-back che seguono la tecnica consolidata della cinematografia, soprattutto francese. I ricordi sono lampi, sussulti: ma il protagonista sa che la sua condizione di malato, che ha ripetuto troppe volte le stesse cure, è talmente grave da rendere difficilmente possibile una qualsiasi speranza di guarigione. E il sogno della fuga è la misura di questa percezione dell’impossibile: non c’è nulla da aspettare se non la ripetizione di tutto ciò che è già accaduto. E’ quella che il personaggio senza nome definisce la “malattia ospedaliera”, qualcosa che va al di là di ogni idea immaginabile: si sopravvive solo nella ripetizione dei gesti fra i muri del nosocomio.