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Stampa

I doveri del giornalista connessi all’esercizio del diritto di cronaca e di critica

Indice
1. Premessa. Il rispetto della dignità della persona umana fondamento della nostra Costituzione. L’interesse dello Stato all'integrità morale della persona. Il concetto (giuridico) di giornalismo.
2. I padri costituenti e i limiti del diritto di cronaca nella legge sulla stampa del 1948.
3. Diritto di cronaca, diritto dei cittadini all’informazione e Corte costituzionale.
4. La professione giornalistica, come quella degli avvocati e dei medici, è nella Costituzione.
5. Il “decalogo” della Cassazione sui limiti del diritto di cronaca.
6. Il diritto di cronaca (e di critica) ancorato a “notizie vere”.
7. Diffamazione e responsabilità civile di editore, direttore e articolista.
8. Quando scatta l’interdizione della professione.
9. Il ruolo moderno dell’Ordine posto a tutela degli interessi della collettività.
10) Diffamazione, quotidiani e tribunale competente: da Monza una sentenza che declassa il giudice del luogo dove il giornale viene stampato
11. Diffamazione online: Cassazione ribalta le regole. Competente il tribunale in cui risiede il presunto danneggiato.

ricerca di Franco Abruzzo*


1. Premessa. Il rispetto della dignità della persona umana fondamento della nostra Costituzione. L’interesse della Repubblica all'integrità morale della persona. Il concetto (giuridico) di giornalismo.


“In tema di diritti della personalità umana, esiste un vero e proprio diritto soggettivo perfetto alla reputazione personale anche al di fuori delle ipotesi espressamente previste dalla legge ordinaria, che va inquadrato nel sistema di tutela costituzionale della persona umana, traendo nella Costituzione il suo fondamento normativo (Corte costituzionale 184/1986, 479/87), in particolare nell'articolo 2 (oltre che nell'articolo 3, che fa riferimento alla dignità sociale) e nel riconoscimento dei diritti inviolabili della persona. L'articolo 2 della Costituzione, nell'affermare la rilevanza costituzionale della persona umana in tutti i suoi aspetti, comporta che l'interprete, nella ricerca degli spazi di tutela della persona, è legittimato a costruire tutte le posizioni soggettive idonee a dare garanzia, sul terreno dell'ordinamento positivo, ad ogni proiezione della persona nella realtà sociale, entro i limiti in cui si ponga come conseguenza della tutela dei diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali nelle quali si esplica la sua personalità L'espresso riferimento alla persona come singolo rappresenta certamente valido fondamento normativo per dare consistenza di diritto alla reputazione del soggetto, in correlazione anche all'obiettivo primario di tutela "del pieno sviluppo della persona umana", di cui al successivo articolo 3 (cpv.) della Costituzione (implicitamente su questo punto Corte cost. 3 febbraio 1994, n. 13). Infatti, nell'ambito dei diritti della personalità umana, con fondamento costituzionale, il diritto all'immagine, al nome, all'onore, alla reputazione, alla riservatezza non sono che singoli aspetti della rilevanza costituzionale che la persona, nella sua unitarietà, ha acquistato nel sistema della Costituzione. Trattasi quindi di diritti omogenei essendo unico il bene protetto”. (Cass. civ. Sez.III 10-05-2001, n. 6507; Cancani c. Paglierini; FONTI Diritto e Giustizia, 2001, f. 22, 15 nota di Rossetti).


“Oggetto della tutela penale del delitto di diffamazione è l'interesse dello Stato (della Repubblica, dopo le modifiche al Titolo V della Costituzione, ndr) all'integrità morale della persona: il bene giuridico specifico è dato dalla reputazione dell'uomo, dalla stima diffusa nell'ambiente sociale, dall'opinione che gli altri hanno del suo onore e decoro. Intendendo la previsione legislativa punire l'attacco all'altrui personalità morale, è fondamentale accertare quando l'interesse alla protezione del bene giuridico debba prevalere sulla libertà individuale di espressione del pensiero”. (Cass. pen. Sez. V 28-02-1995, n. 3247; Lambertini-Padovani e altri: FONTI Cass. Pen., 1995, 2535 nota di Iacoviello; Giust. Pen., 1995, II, 551)


Da queste due sentenze emerge nitidamente un grande principio:  il diritto di cronaca e di critica arretra di fronte alla tutela della dignità della persona, che a sua volta è un diritto inviolabile dell’uomo e  in  quanto tale tutelato dall’articolo 2 della Costituzione. Le offese (attraverso i giornali) all’identità, alla reputazione, all’onore, all’immagine e alla riservatezza di una persona sono sanzionati penalmente con il terzo comma dell’articolo 595 Cp (diffamazione a mezzo stampa) e con l’articolo 13 (diffamazione a mezzo stampa con l’attribuzione di un fatto determinato) della legge n. 47/1948 sulla stampa. Anche la violazione della privacy può far scattare il reato di diffamazione a mezzo stampa: «Integra il reato di diffamazione la pubblicazione di notizie pur vere sulla salute di un soggetto (nel casi di specie: tossicodipendenza e sieropositività) nonché la pubblicazione della sua fotografia in quanto si tratta di dati personali e attinenti alla sfera della riservatezza rispetto ai quali difettano i requisiti scriminanti sia dell’interesse pubblico che della continenza» (Trib. Bolzano 18 marzo 1998; Riviste: Dir. Informazione e Informatica, 1998, 616).  In base all’articolo 13 della legge sulla stampa, “nel caso di diffamazione commessa col mezzo della stampa, consistente nell’attribuzione di un fatto determinato, si applica la pena della reclusione da uno a sei anni e quella della multa non inferiore a lire cinquecentomila”, mentre in base all’articolo 595 (diffamazione) del  Cp, “se l'offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a lire un milione”. Anche la registrazione delle testate (con gli articoli 3 e 5 della legge sulla stampa  n. 47/1948), - rendendo obbligatorio il ricorso a un direttore responsabile, a un editore, a un proprietario e a uno stampatore – è finalizzato alla tutela dei diritti dei cittadini  vittime dei delitti commessi con il mezzo della stampa. “E’ manifestamente infondata, in riferimento all'art. 3 cost., la questione di legittimità costituzionale degli art. 57 Cp e 3 legge 8 febbraio 1948 n. 47 in quanto rendono responsabile il direttore di pubblicazioni per l'omesso controllo necessario ad impedire la pubblicazione di un articolo diffamatorio, essendo stata dichiarata infondata identica questione con la sentenza n. 198 del 1982 e non contenendo l'ordinanza di rimessione motivi che possano indurre a modificare la precedente decisione” (Corte cost., Ord., 16-05-1983, n. 139; Oriani; FONTI Giur. Costit., 1983, I, 817).


Della normativa sull’informazione fa parte anche il  “Testo unico sulla privacy” (Dlgs n. 196/2003, che ha assorbito la legge n. 675/1996 sulla tutela dei dati personali), che così affianca, per quanto riguarda i doveri dei redattori multimediali,  la legge sull’ordinamento della professione giornalistica, la legge sulla stampa, il Contratto nazionale di lavoro giornalistico, il Dlgs sulla pubblicità ingannevole e comparativa, la legge sul diritto d’autore, le leggi sull’editoria, le leggi sul sistema radiotelevisivo pubblico e privato,  la legge sulla disciplina delle attività di informazione e di comunicazione delle pubbliche amministrazioni. Al centro di questo “sistema” è la persona umana. La persona umana è il cuore della nostra Costituzione repubblicana: “....il rispetto della persona umana, valore che anima l’articolo 2 della Costituzione.... Quello della dignità della persona umana è, infatti, valore costituzionale che permea di sé il diritto positivo e deve dunque incidere sull’interpretazione di quella parte della disposizione in esame che evoca il comune sentimento della morale(sentenza n. 293/2000 della Corte costituzionale). E’ spiegabile il forte richiamo alla dignità della persona umana operato dalla Corte costituzionale ove si legga l’articolo 3 della carta fondamentale: "Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge". Emerge così che il principio della dignità sia proclamato (addirittura!) prima di quello dell’eguaglianza. Anche l'articolo 41 è  su questa linea: "L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana". Se ne deduce che quello del rispetto della dignità della persona umana sia il pilastro fondamentale della carta dei “valori” della Repubblica democratica.


Con la legge sulla privacy, il nostro ordinamento compie un salto di qualità di grande profilo.  Cresce la tutela dei diritti della persona. L’articolo 2 del  Dlgs n. 196/2003  afferma che “il presente testo unico, di seguito denominato «codice», garantisce che il trattamento dei dati personali si svolga nel rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali, nonché della dignità dell'interessato, con particolare riferimento alla riservatezza, all'identità personale e al diritto alla protezione dei dati personali”. Ma anche la legge sull’ordinamento della professione giornalistica (n. 69/1963)  assegna un ruolo centralissimo alla persona umana, quando afferma (all’articolo 2) che “è diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà d’informazione e di critica, limitata dall’osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui ed è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede”.  La libertà d’informazione e di critica, insopprimibile, quindi, sulla scia dell’articolo 2 della Costituzione, ha due confini invalicabili: il rispetto della dignità della  persona e quello della verità sostanziale dei fatti. Il diritto di cronaca, infatti, non è un diritto sciolto dal rispetto degli altri diritti primari costituzionalmente protetti (onore, decoro e dignità della persona, riservatezza e identità personale). A tal riguardo vanno richiamate anche le disposizioni contenute nell'articolo 10 (II comma) della Convenzione  europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (recepita nella legge n. 848/1955), quale fonte di norme integrative del diritto sostanziale italiano, le quali, a fronte del diritto del singolo alla libertà di espressione,  subordinano l'esercizio del suddetto diritto a restrizioni e sanzioni "per la protezione della reputazione o dei diritti di altri". Questo articolo 10 richiama in sostanza gli articoli 11, 12 e 13 della legge sulla stampa n. 47/1948, che puniscono i giornalisti riconosciuti colpevoli del reato di diffamazione commesso con il mezzo della stampa e con l’attribuzione di un fatto determinato. L’articolo 8 della Convenzione europea  afferma, inoltre, che “ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare”. L’articolo 16 della Convenzione Onu del 1989 sui diritti del fanciullo (legge italiana  n. 176/1991)  afferma che “nessun fanciullo può essere sottoposto ad interferenze arbitrarie  o illegali nella sua vita privata” (sono le parole precise dell’articolo 12 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo).


L’ordinamento italiano, quindi, partendo dall’articolo 2 della Costituzione, che cala nel diritto positivo i diritti  inviolabili dell’uomo, - e disegnando un arco che abbraccia la  Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, la Convenzione Onu sui diritti del fanciullo, la legge sulla stampa, la legge sulla privacy e la legge sulla professione giornalistica -, forma un ampio reticolo di norme che rendono intangibile la tutela della vita privata e dell’onore dei cittadini. “Il rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali, nonché della dignità dell'interessato, con particolare riferimento alla riservatezza, all'identità personale e al diritto alla protezione dei dati personali”  è il valore sommo che il Dlgs n. 196/2003, come afferma il richiamato articolo 2, intende proteggere nel processo di trattamento dei dati personali. Si può dire, quindi, con i giudici supremi (Cass. pen., sez. III, 7 ottobre 1998, n. 12744),  che nel  nostro  ordinamento  il diritto di cronaca e di critica, quale esercizio  del  democratico principio di libertà di manifestazione del  pensiero,  trova  un  limite  invalicabile nel rispetto di altri diritti  fondamentali, parimenti sanciti dalla Costituzione in quanto attinenti  alla  pari dignità sociale di tutti i cittadini,  nonché nella salvaguardia dei diritti inviolabili d'ogni persona, sia come singolo, sia come membro delle  più  diverse  formazioni  sociali  nelle  quali  si forma e si sviluppa  la  personalità  d'ognuno,  diritti inviolabili tra i quali vanno  annoverati,  senza  alcun  dubbio,  il diritto all'onore, alla reputazione,  al  decoro, all’identità personale  e  alla riservatezza. Secondo la Corte costituzionale (che sul punto si è pronunciata con chiarezza con la sentenza n. 86/1974) l’onore (comprensivo del decoro e della reputazione) è tra i beni protetti e garantiti dalla carta fondamentale, “in particolare tra quelli inviolabili, in quanto essenzialmente connessi con la persona umana”.


Va sottolineata l’importanza dell’articolo  11 del Dlgs n. 196/2003, che completa il quadro dei doveri richiesti al giornalista dall’articolo 2 della legge professionale n. 69/1963. Questo articolo 11  vuole che i dati  personali (=notizie)  debbano essere:


a) trattati in modo lecito e secondo correttezza;


b) raccolti e registrati per scopi determinati, espliciti e legittimi, ed utilizzati in altre operazioni del trattamento in termini compatibili con tali scopi;


c) esatti e, se necessario, aggiornati;


d) pertinenti, completi e non eccedenti rispetto alle finalità per le quali sono raccolti o successivamente trattati;


e) conservati in una forma che consenta l'identificazione dell'interessato per un periodo di tempo non superiore a quello necessario agli scopi per i quali essi sono stati raccolti o successivamente trattati.


Dietro le notizie, quindi, c’è un professionista impegnato nella raccolta e nella elaborazione delle stesse secondo regole deontologiche precise.  La deontologia, quindi, è il cuore dell’agire del professionista, che opera nei mass media. L’etica, si legge nello Zingarelli, è l’insieme delle norme di condotta pubblica e privata  che una persona o un gruppo di persone scelgono  e seguono nella vita o in un’attività. La deontologia, scrive sempre Nicola Zingarelli, è, invece, il complesso dei doveri  inerenti a particolari categorie professionali. Etica e deontologia esprimono concetti che condizionano la vita dei professionisti e, quindi, anche dei  giornalisti.


Le regole deontologiche dei giornalisti sono racchiuse nell’articolo 2 della legge n. 69/1963. Queste regole garantiscono l'autonomia della professione (così l’articolo 1 del Cnlg). E’ inconcepibile, infatti, una professione senza deontologia. Va detto anche che la deontologia non è un optional. Dalla legge professionale si ricava che il giornalismo è da concepire come informazione critica e che non può essere confuso con il messaggio pubblicitario esplicito o indiretto. La cornice legislativa conferisce, quindi, al giornalista il massimo grado di libertà.


La legge professionale fissa le regole che i giornalisti sono tenuti a osservare, tra le quali quella che impegna giornalisti ed editori a promuovere la fiducia tra la stampa e i lettori. Senza quella legge, i giornalisti si ridurrebbero a essere degli impiegati di redazione  senza deontologia.


Gli articoli  2 e 48 della legge professionale n. 69/1963  impegnano il giornalista a essere e ad apparire corretto. I principi, ricavati dagli articoli 2 e 48,  “formano” la deontologia professionale vivente dei giornalisti:


1)  la libertà di informazione e di critica (valori che fanno definire il giornalismo informazione critica) come diritto insopprimibile dei giornalisti;


2)  la tutela della dignità della persona umana e  il rispetto della verità sostanziale dei fatti principi da intendere come limiti alle libertà di informazione e di critica.


3) l'esercizio delle libertà di informazione e di critica ancorato ai doveri imposti dalla buona fede e dalla lealtà;


4)  il dovere di rettificare le notizie inesatte (La rettifica è, per il giornalista, un dovere  e un obbligo giuridico: “Il  diritto  alla  rettifica  delle  notizie  pubblicate  costituisce fondamentale  diritto  della persona a tutelare la propria immagine e dignità  Pertanto  la rettifica va pubblicata conformemente a quanto richiesto,  senza  che  né  il  direttore  del giornale né il giudice abbiano  facoltà  di  modificarne  il testo, o anche di sindacarne il contenuto sotto il profilo della veridicità” (Trib. S. Maria Capua V., 22 gennaio 1999; Parti in causa Corriere Caserta c. Credito it.; Riviste Foro Napol., 1999, 37; “L'istituto della rettifica disciplinato dall'art. 42, legge 416/1981 riconosce a chi soggettivamente si ritenga leso da un'informazione non rispondente a realtà il diritto di ottenere la pubblicazione della , garantendo così una dialettica nell'ambito del sistema d'informazione; è pertanto superfluo il vaglio dell'esattezza della notizia originaria”(Pret. Milano 26-05-1986; Soc. Biscardo c. Soc. ed. Il Corriere della Sera; FONTI Dir. Informazione e Informatica, 1986, 940 nota di ZENO ZENCOVICH). L’articolo 4 del Codice sulla priovacy del 3 agosto 1998 arricchisce il quadro di doveri del giornalista, che è chiamato a rettificare errori ed inesattezze “senza ritardo”);


5)  il dovere di riparare gli eventuali errori;


6) il rispetto del segreto professionale sulla fonte delle notizie, quando ciò sia richiesto dal carattere fiduciario di esse;


7) il dovere di promuovere la fiducia tra la stampa e i lettori;


8) il mantenimento del decoro e della dignità professionali;


9) il rispetto della propria reputazione;


10)  il rispetto della dignità dell'Ordine professionale;


11)  il dovere di promozione dello spirito di collaborazione tra i colleghi;


12)             il dovere di promozione della cooperazione tra giornalisti ed editori.


 


Il potere disciplinare sugli iscritti spetta ai Consigli degli Ordini. I Consigli sono giudici amministrativi disciplinari. Due massime giurisprudenziali fissano i doveri dei giornalisti:


L’obbligo di comportarsi in modo conforme alla dignità professionale. “In assenza di tipizzazione dei comportamenti illeciti sul piano disciplinare, la rilevanza deontologica dei comportamenti del giornalista va teleologicamente valutata in rapporto all'obbligo di comportarsi in modo conforme al decoro ed alla dignità professionale e tale da non compromettere la propria reputazione o la dignità dell'Ordine sancito dall'art. 48 1. n. 69 del 1963 nonché al dovere di lealtà e buona fede ed all'obbligo di promuovere lo spirito di collaborazione tra colleghi, la cooperazione tra giornalisti ed editori e la fiducia tra la stampa ed i lettori sanciti dall'art. 2 della legge medesima” (App. Milano, 18 luglio 1996; Foro It., 1997, I, 919).


Il giornalista deve essere e deve apparire corretto con l'osservanza dei doveri di lealtà e di buona fede.  “Oltre all'obbligo del rispetto della verità sostanziale dei fatti con l'osservanza dei doveri di lealtà e di buona fede, il giornalista, nel suo comportamento oltre ad essere, deve anche apparire conforme a tale regola, perché su di essa si fonda il rapporto di fiducia tra i lettori e la stampa” (App. Milano, 18 luglio 1996; Riviste: Foro Padano, 1996, I, 330, n. Brovelli;  Foro It., 1997, I, 938)


Interessante è questa massima, che richiama i doveri del cronista così come delineati dalla legge professionale. In sostanza  la buona fede  deve essere esclusa quando il giornalista abbia agito con negligenza:


“Nel campo degli illeciti a mezzo stampa, la buona fede del giornalista, necessaria ad integrare l'esimente della verità putativa, richiede non solo la verosimiglianza della notizia, oggettivamente falsa, ma anche il controllo della fonte di provenienza e della sua attendibilità; accertamento - quest'ultimo - che il giornalista, agli effetti dell'esimente in questione, non deve mai omettere, neppure per il convincimento, proprio o della pubblica opinione, della verità della notizia o per l'esigenza della speditezza dell'informazione. La buona fede del giornalista deve essere, tuttavia, esclusa allorquando, nel controllo della notizia (doveroso anche ai sensi del comma 1 dell'art. 2 l. 3 febbraio 1963 n. 69, sul relativo ordinamento professionale, che impone al giornalista l'obbligo inderogabile di rispettare la verità sostanziale dei fatti, nonché i doveri di lealtà e buona fede), egli abbia agito con negligenza (ovvero imperizia o imprudenza). L'indagine a ciò relativa comporta accertamenti di fatto e, pertanto, è rimessa al giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità, se adeguatamente motivata ed immune da vizi logici e giuridici”. (Cass. civ. Sez.III 20-08-1997, n. 7747; Gibilisco c. Soc. Terme di Crodo; FONTI Mass. Giur. It., 1997).


Anche il rispetto della verità sostanziale dei fatti è un caposaldo della deontologia dei giornalisti come emerge da quest’altra massima:


“Affinché la divulgazione a mezzo stampa di notizie lesive dell'onore possa considerarsi lecito esercizio del diritto di cronaca, devono ricorrere le seguenti condizioni: la verità oggettiva della notizia pubblicata; l'interesse pubblico alla conoscenza del fatto (cosiddetta: pertinenza) e la correttezza formale dell'esposizione (cosiddetta: continenza). La condizione della verità della notizia comporta, come inevitabile corollario, l'obbligo del giornalista, non solo di controllare l'attendibilità della fonte (non sussistendo fonti informative privilegiate), ma anche di accertare e di rispettare la verità sostanziale dei fatti oggetto della notizia (non scalfita peraltro da inesattezze secondarie o marginali, inidonee a determinarne o ad aggravarne la valenza diffamatoria); con la conseguenza che, solo se tale obbligo sia stato scrupolosamente osservato, potrà essere utilmente invocata l'esimente dell'esercizio del diritto di cronaca, restando peraltro escluso che, ove le suddette condizioni non ricorrano, l'equilibrio generale dell'articolo giornalistico escluda la natura diffamatoria dei fatti riferiti, potendo eventualmente comportare una minore gravità della diffamazione ed incidere quindi sulla liquidazione del danno”. (Cass. civ. Sez. III 04-07-1997, n. 6041; Soc. Il Messaggero c. Vitalone; FONTI Mass. Giur. It., 1997).


 


Il principio della tutela della personalità altrui è racchiuso in queste massime:


“Non è precluso dall'art. 21 cost. il provvedimento d'urgenza a carattere inibitorio, inteso a far cessare temporaneamente o a contenere il pregiudizio, che potrebbe derivare da una pubblicazione non ancora edita ai diritti altrui, soprattutto quando si tratta della tutela di diritti della personalità”. (Pret. Roma 03-07-1987; Marzotto c. Soc. Rizzoli periodici; FONTI Foro It., 1988, I, 3464).


“Per aversi prestazione giornalistica o pubblicistica, il contenuto del mezzo espressivo adoperato (giornale, radio, televisione ecc.) deve riassumere i requisiti dell'informazione dell'opinione come oggetto di comunicazione e di conoscenza interpersonale; deve, quindi, avere contenuto di libera formazione e valutazione dei fatti e dei concetti esposti, rispondere a verità sostanziale nei limiti della buona fede e della lealtà, avere come limite il rispetto delle opere poste a tutela della personalità altrui ed essere destinata ad un numero indeterminato di lettori e di ascoltatori”. (Cass. civ. 03-06-1985, n. 3309;  rai-Tv c. De Monte Major; FONTI Mass. Giur. It., 1985).


Il comportamento tenuto dal giornalista estensore nonché dal direttore della testata che ha pubblicato un articolo in cui vengono riportate le generalità e le foto di un minore, è idoneo a violare le norme di legge dettate a tutela della personalità altrui ("sub specie" di lesione della normativa a tutela dei minori, come approvata dalla convenzione di New York e recepita nel nostro ordinamento con l. 27 maggio 1991 n. 176) nonché ad essere valutato come non conforme al decoro ed alla dignità professionali così da compromettere anche la dignità dell'Ordine ("sub specie" di violazione di precisi intendimenti fatti propri dalla categoria con la sottoscrizione delle carte di autoregolamentazione). (Trib. Milano 12-07-2001; FONTI Giur. milanese, 2002, 33)


 


Le carte di autoregolamentazione costituiscono un'esemplificazione del contenuto "in bianco" delle norme deontologiche professionali.


Le prescrizioni contenute nelle carte di autoregolamentazione (Carta di Treviso e Carta dei doveri del giornalista) devono essere ritenute idonee a costituire un'esemplificazione del contenuto "in bianco" delle norme regolamentari di cui agli art. 2 e 48 l. n. 69 del 1963. (Trib. Milano 12-07-2001; FONTI Giur. milanese, 2002, 33).


 


Il diritto insopprimibile dei giornalisti. L’articolo 2 della legge professionale riconosce che “è diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà di informazione e di critica, limitata dall'osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui ed è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti, osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede”. Il tribunale di Roma da questo principio ha tratto il corollario che “è dovere insopprimibile del giornalista, anche se collegato ad organi di stampa di partiti politici, esercitare con assoluta correttezza il diritto di cronaca”:


E’ dovere primario ed insopprimibile del giornalista, anche se collegato ad organi di stampa di partiti politici, esercitare con assoluta correttezza il diritto di cronaca, nel senso di riportare le notizie in maniera assolutamente fedele, spogliandosi, in tale fase, della propensione verso determinate ideologie, di qualunque natura siano; al giornalista è consentito soltanto nella fase in cui proceda a commentare la notizia, esercitando il diritto di critica, d'esprimere le proprie convinzioni personali, in forma anche polemica ed aspra, purché non venga offesa la reputazione altrui (nella specie: è stato ritenuto diffamatorio un articolo nel quale il giornalista riferiva opinioni critiche e lesive della reputazione relative all'atteggiamento del partito radicale nel dibattito sul referendum abrogativo della l. n. 194 del 1978). (Trib. Roma 27-02-1982; Sica; FONTI Giur. It., 1983, II, 140)


 


Il corretto esercizio del diritto di cronaca è fondamentale e deve essere inderogabilmente salvaguardato al fine di garantire lo sviluppo democratico della società; se l'informazione giornalistica è corretta, il lettore è in grado di formarsi convincimenti personali e quindi di valutare l'esattezza del commento; in caso contrario, le sue opinioni si fonderanno su premesse false e quindi finirà con il formarsi opinioni a loro volta false; tale dovere primario e insopprimibile è a carico anche del giornalista dipendente di organi di stampa ufficiali di partiti tenuto egualmente a fornire informazioni assolutamente corrette, cioè vere e complete; solo nella fase successiva del commento possono essere espresse le proprie convinzioni personali, anche in forma polemica ed aspra. (Trib. Roma 13-02-1982; De Rosas; FONTI Giur. di Merito, 1982, 1244 nota di Zeno-Zencovich).


 


Non esiste il concetto giuridico di giornalismo, ma viene estrapolato dagli articoli 2 e 32 della legge professionale n. 69/1963.


Non esiste il concetto giuridico di giornalismo. Il concetto, abitualmente estrapolato dall’articolo 2 della legge professionale n. 69/1963 dedicato alla deontologia della categoria, si riassume nella frase “giornalismo=informazione critica”. Il primo comma dell’articolo 2, infatti, dice: “È diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà d’informazione e di critica.....”. La dottrina e la giurisprudenza legano inoltre il giornalismo all’attualità sulla base dell’articolo 32 della legge professionale e dell’articolo 44 del Regolamento di esecuzione della stessa legge i quali prescrivono, infatti, per la prova scritta dell’esame di idoneità professionale, la “redazione di un articolo su argomenti di attualità”. L’attualità, quindi,  è una connotazione centrale e qualificante della professione giornalistica. Concludendo possiamo affermare che  il giornalismo è informazione critica legata all’attualità.


Il giornalismo è tradizionalmente definito “l'insieme delle attività e delle tecniche (redazione, pubblicazione, diffusione, ecc.) dirette a diffondere e a commentare notizie tramite il giornale o pubblicazioni periodiche”; estensivamente indica anche "la professione del giornalista" e "la categoria dei giornalisti o il complesso dei giornali".


 


Il  vuoto legislativo sul concetto di giornalismo è stato, però, riempito da alcune sentenze della Corte di  Cassazione:


a) La nozione dell'attività giornalistica, in mancanza di una esplicita definizione da parte della legge professionale 3 febbraio 1963, n. 69 o della disciplina collettiva, non può che trarsi da canoni di comune esperienza, presupposti tanto dalla legge quanto dalle fonti collettive, con la conseguenza che per attività giornalistica è da intendere l'attività, contraddistinta dall'elemento della creatività, di colui che, con opera tipicamente (anche se non esclusivamente) intellettuale, provvede alla raccolta, elaborazione o commento delle notizie destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale attraverso gli organi d'informazione, mediando tra il fatto di cui acquisisce la conoscenza e la diffusione di esso attraverso un messaggio (scritto, verbale, grafico o visivo) necessariamente influenzato dalla personale sensibilità e dalla particolare formazione culturale e ideologica (Cass. civ., 23 novembre 1983, n. 7007; Riviste: Mass. 1983).


b) E' di natura giornalistica la prestazione di lavoro intellettuale volta alla raccolta, al commento e all'elaborazione di notizie destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale (che può indifferentemente avvenire mediante l'apporto di espressioni letterali, o con l'esplicazione di espressioni grafiche, o ancora mediante la collocazione del messaggio) attraverso gli organi di informazione.
(Cass. 1/2/96 n. 889, pres. Mollica, est. De Rosa, in D&L 1996, 687, nota Chiusolo, Il giornalista grafico e l'iscrizione all'Albo dei giornalisti).


c) Per attività giornalistica deve intendersi la prestazione di lavoro intellettuale volta alla raccolta, al commento e alla elaborazione di notizie destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale attraverso gli organi di informazione; il giornalista si pone pertanto come mediatore intellettuale tra il fatto e la diffusione della conoscenza di esso...... differenziandosi la professione giornalistica da altre professioni intellettuali proprio in ragione di una tempestività di informazione diretta a sollecitare i cittadini a prendere conoscenza e coscienza di tematiche meritevoli, per la  loro novità, della dovuta attenzione e considerazione”  (Cass. Civ., sez. lav., 20  febbraio 1995, n. 1827).


Un aiuto  inquadrare il concetto di attività giornalistica e di giornalista viene anche da sentenze di altri e diversi giudici:           


L'attività giornalistica è caratterizzata dall'elemento della creatività, per cui può essere definito giornalista, con conseguente applicabilità del Ccnl relativo, colui che nel riportare una notizia compia un'opera di mediazione tra la notizia e la sua diffusione (Pret. Torino, 1 agosto 1992; Parti in causa Brunati c. Soc. ed. La Stampa; Riviste: Dir. e pratica lav., 1993, 135).


Il giornalismo, quindi, secondo la Corte di Cassazione, è connotato:


a) dalla raccolta, dal commento e dall'elaborazione di notizie (attuali) destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale;


b) dalla tempestività di informazione diretta a sollecitare i cittadini a prendere conoscenza e coscienza di tematiche meritevoli, per la  loro novità, della dovuta attenzione e considerazione;


c) dagli elementi della "creatività", dell' "intellettualità" e dell' "intermediazione critica" delle notizie.


 


 


2. I padri costituenti e i limiti del diritto di cronaca nella legge sulla stampa del 1948. La storia dell’Italia unita, in tema di libertà di stampa,  parte con l’articolo 28 dello Statuto Albertino, emanato da Carlo Alberto il 4 marzo del 1848. La norma, dalla formulazione generale, stabilisce che “la stampa sarà libera, ma una legge ne reprime gli abusi”. Il virgolettato  traduce sostanzialmente l’articolo 11 della Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo della Francia rivoluzionaria del 1789. E’ una svolta, che nasconde la debolezza legata al carattere flessibile dello Statuto. Le Camere potranno utilizzare una sorta di delega in bianco per “reprimere gli abusi” nell’esercizio della dichiarata libertà. Questa disciplina dovrà fare i conti con le leggi di pubblica sicurezza del 1859, 1865, 1889, che, con vari mezzi, limitavano incisivamente nei fatti quella libertà sancita in via di principio. La storia del settimanale socialista “La Plebe” (nato nel 1868 a Lodi e poi nel 1874 trasferito a Milano come quotidiano)  è segnata dalle angherie prefettizie, che impedivano la pubblicazione o mutilavano il foglio di  Enrico Bignami. In verità tutta la stampa repubblicana e di sinistra era presa di mira dalle autorità di polizia.


Allo Statuto segue il regio decreto n° 695, meglio noto come Editto Albertino sulla Stampa. L’articolo 1 dell’Editto affermava che La manifestazione del pensiero per mezzo della stampa e di qualsivoglia artificio meccanico, atto a riprodurre segni figurativi, è libera: quindi ogni pubblicazione di stampati, incisioni, litografie, oggetti di plastica e simili è permessa con che si osservino le norme seguenti…”.


Sul piano storico merita un cenno la regolamentazione dell’Italia fascista. Il Governo Mussolini  e le Camere stabilirono  (r.d.l. n. 3288 del 1923; r.d.l. n. 1081 del 1924; leggi nn. 2308 e 2309 del 1925; legge n. 2307 del 1925) di sottoporre a riconoscimento prefettizio la nomina del gerente responsabile e di affidare alla stessa autorità il potere di revocare il riconoscimento dopo la commissione di due reati a mezzo stampa nell’arco di un anno, nonché il potere di negare il riconoscimento al gerente subentrante, nell’ipotesi in cui quello revocato avesse subito nello stesso anno due condanne per reati a mezzo stampa, comportanti una pena detentiva non inferiore ai sei mesi. La ragnatela di leggi e decreti aveva come possibile risultato la “paralisi” della pubblicazione del periodico. Mussolini controllava la stampa tramite i direttori, che dovevano ricevere il placet del prefetto per insediarsi. Solo nel secondo dopoguerra si assiste al varo di un primo significativo provvedimento legislativo, che segna una svolta radicale rispetto al passato fascista e che fa da testimone ad un atteggiamento  favorevole alla restituzione alla stampa della sua dimensione di diritto di libertà: si tratta del Rdlgs. n. 561 del 31 maggio 1946 con il quale fu abolito  il sequestro preventivo “della edizione dei giornali o di qualsiasi altra pubblicazione o stampato” ad opera dell’autorità di pubblica sicurezza  e fu limitato il ricorso ad esso ai soli casi di sentenza di condanna irrevocabile per l’accertata commissione di un reato a mezzo stampa (“Non si può procedere al sequestro della edizione dei giornali o di qualsiasi altra pubblicazione o stampato, contemplati nell'Editto sulla stampa 26 marzo 1848 n. 695, se non in virtù di una sentenza irrevocabile dell'autorità giudiziaria”). Quella norma, che richiama l’Editto Albertino, varata alla vigilia del referendum Monarchia-Repubblica del 2 giugno 1946, è ancora in vigore anche se sostanzialmente assorbita nel terzo e quarto  comma dell’articolo 21 della Costituzione.


L’articolo 21 della Costituzione repubblicana proclama che “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”. Gli articoli 3 e 5 della legge n. 47/1948 sulla stampa affermano: 1. che ogni giornale o altro periodico deve avere un direttore responsabile; 2. che nessun giornale o periodico può essere pubblicato se non sia stato registrato presso la cancelleria del tribunale, nella cui circoscrizione la pubblicazione deve effettuarsi.


Ieri la pubblicazione di giornali era “permessa”, mentre oggi “non è soggetta ad autorizzazioni o censure”. In questi due passaggi è riassumibile la differenze tra le due Italie, quella monarchica e quella repubblicana. La novità sta nell’abolizione della autorizzazione prefettizia e la sua sostituzione con un semplice obbligo di registrazione delle testate presso i tribunali. Con l’introduzione dell’istituto della registrazione scomparirono anche le vecchie norme fasciste relative al riconoscimento del direttore responsabile. Per quanto concerne la natura della figura del direttore responsabile le novità maturarono soltanto in seguito alla sentenza n. 3/1956 della Corte costituzionale, con la quale venne concepita la responsabilità legata al mancato esercizio della funzione di controllo  e quindi a un fatto proprio. Quella sentenza ha partorito la legge n. 127/1958 che ha modificato, come detto, l’articolo 57 del Cp.


Concludendo, bisogna porre attenzione alle date. La Costituzione repubblicana è entrata in vigore il 1° gennaio 1948, mentre la legge sulla stampa, varata l’8 febbraio 1948, è stata approvata da quella stessa Assemblea costituente che aveva scritto la Carta fondamentale della  Repubblica. I due eventi sono da raccordare. Si può, quindi, sostenere legittimamente e ragionevolmente che sono da registrare nei tribunali (con un direttore responsabile) tutte le libere manifestazioni del pensiero rivolte al pubblico e  strutturate come “giornale”  (sia esso di carta, radiofonico, televisivo, oppure utilizzante ”ogni altro mezzo di diffusione” che  oggi è  internet). Nel 1848 il Regno sardopiemontese (poi dal 1861 Regno d’Italia) ha ottenuto dal Re Carlo Alberto lo Statuto e l’Editto sulla stampa. Nel 1948 l’Italia democratica ha guadagnato da sé, a conclusione del secondo Risorgimento, la Costituzione e la legge sulla stampa. A distanza di 100 anni la storia si è ripetuta: Carta fondamentale e regolamentazione della stampa camminano di pari passo, anche se nel primo caso si trattava di una elargizione del Sovrano ai sudditi e nel secondo di una conquista dei cittadini italiani secondo il vaticinio di Giuseppe Mazzini, che aveva “sognato” (invano) una Assemblea costituente diventata realtà solo nel giugno del 1946.


I padri costituenti repubblicani del 1946-47, dopo aver scritto la nostra Carta fondamentale, hanno approvato, come riferito,  la legge sulla stampa, la n. 47 dell’8 febbraio del  1948, che punisce gli abusi...della stampa (parliamo della diffamazione) in tre articoli:


11. Responsabile civile - Per i reati commessi col mezzo della stampa sono civilmente responsabili, in solido con gli autori del reato e fra di loro, il proprietario della pubblicazione e l’editore.


12. Riparazione pecuniaria -  Nel caso di diffamazione commessa col mezzo della stampa, la persona offesa può richiedere oltre il risarcimento dei danni ai sensi dell’art. 185 del Cp, una somma a titolo di riparazione. La somma è determinata in relazione alla gravità dell'offesa ed alla diffusione dello stampato  (In tema di diffamazione commessa con il mezzo della stampa, la persona offesa, oltre il risarcimento dei danni ai sensi dell'articolo 185 del c.p.. può richiedere una somma a titolo di riparazione ai sensi dell'articolo 12 della legge 8 febbraio 1948, n. 47. Trattandosi, peraltro, di una sanzione di natura civilistica, la riparazione può essere chiesta anche dinanzi al giudice civile, derivandone altresì che il giudice penale, eventualmente richiesto della sua applicazione, può comunque rimettere la relativa statuizione al giudice civile, allorquando provveda alla condanna generica dell'imputato al risarcimento del danno. - Cass. pen. Sez.V 09-10-2002, n. 38829; Evangelisti e altri; FONTI Guida al Diritto, 2003, 13, 86).


13. Pene per la diffamazione - Nel caso di diffamazione commessa col mezzo della stampa, consistente nell’attribuzione di un fatto determinato, si applica la pena della reclusione da uno a sei anni e quella della multa non inferiore a lire cinquecentomila.


(Nota: in base all’articolo 595 (diffamazione) del  Cp, “se l'offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a lire un milione”).


 La legge sulla stampa, nello spirito del comma VI dell’articolo 21 e dell’articolo 2 della Costituzione, pone, con l’articolo 15, un limite preciso all’esercizio del diritto di cronaca. L’articolo 15 punisce, con la pena della reclusione da tre mesi a tre anni, la pubblicazione di "stampati i quali descrivano o illustrino, con particolari impressionanti o raccapriccianti, avvenimenti realmente verificatisi o anche soltanto immaginari in modo da poter turbare il comune sentimento della morale o l’ordine familiare o da poter provocare il diffondersi di suicidi o delitti". Questo principio vale per tutti i media. L’articolo 15, - esteso al sistema televisivo pubblico e privato dall’articolo 30 (comma 2) della legge n. 223/1990 (o “legge Mammì”) -, è stato ritenuto legittimo dalla Corte costituzionale;  in sostanza il divieto di pubblicazioni a contenuto impressionante o raccapricciante non contrasta con la Costituzione perché è diretto a tutelare la dignità umana:  “Non è fondata, con riferimento agli art. 3, 21 comma 6 e 25 cost., la q.l.c. dell'art. 15 l. 8 febbraio 1948 n. 47 (Disposizioni sulla stampa) - il quale, nel sanzionare penalmente, ai sensi dell'art. 528 c.p., l'utilizzazione di "stampati i quali descrivano o illustrino, con particolari impressionanti o raccapriccianti, avvenimenti realmente verificatisi o anche soltanto immaginari, in modo da poter turbare il comune sentimento della morale e l'ordine familiare o da poter provocare il diffondersi di suicidi o delitti", lederebbe il principio di tassatività e determinatezza della fattispecie, quello della libertà di stampa e i principi di ragionevolezza e eguaglianza, perché non offrirebbe idoneo fondamento giustificativo alla punizione di coloro che diffondano siffatte immagini - in quanto la disposizione impugnata, estesa anche al sistema radiotelevisivo pubblico e privato dall'art. 30comma 2 l. 6 agosto 1990 n. 223, non intende andare al di là del tenore letterale della formula quando vieta gli stampati idonei a "turbare il comune sentimento della morale", vale a dire, non soltanto ciò che è comune alle diverse morali del nostro tempo, ma anche alla pluralità delle concezioni etiche che convivono nella società contemporanea, e cioè il contenuto minimo del rispetto della persona umana, valore che anima l'art. 2 cost., alla luce del quale va letta la previsione incriminatrice denunciata; sicchè, la descrizione dell'elemento materiale del fatto-reato, indubbiamente caratterizzato dal riferimento a concetti elastici, trova nella tutela della dignità umana il suo limite”. (Corte cost. 17-07-2000, n. 293 ; Corvi c. Pres. Cons ; FONTI Giur. Costit., 2000, 2239; Dir. Informazione e Informatica, 2000, 617).


Pubblicare foto “choc” non è diritto di cronaca. Rispondono del reato di pubblicazioni a contenuto impressionante o raccapricciante, previsto dall'art. 15 1. n. 47 del 1948, il direttore di un settimanale e i due giornalisti autori di un art. pubblicato col corredo di fotografie a colori riproducenti le immagini del cadavere di una donna uccisa, cosi come rinvenuto nell'immediatezza dell'omicidio, con particolari impressionanti e raccapriccianti delle tracce sul corpo e sugli indumenti, e delle nudità del corpo medesimo e delle modalità di esecuzione del delitto, tali da turbare il comune sentimento della morale e l'ordine delle famiglie. (Cass. pen. Sez.III 27-04-2001; Corvì e Corvi e altri; FONTI Foro It., 2001, II, 446).


Le finalità di carattere storico non giustificano la pubblicazione di una immagine raccapricciante e impressionante. Nel reato previsto e punito dall'art. 15, legge 47/1948, non ha efficacia esclusiva del dolo né la finalità, o motivazione, della pubblicazione, né il dissenso, pur dichiarato contestualmente alla pubblicazione stessa (nella specie: trattavasi di foto dell'onorevole Moro, nudo all'obitorio, accompagnate da un articolo di commento contro la strage, nel quale venivano evidenziate le finalità di carattere storico della pubblicazione). (Cass. pen. 09-06-1982; Valentini; FONTI Riv. Pen., 1983, 637).


Non integra l'elemento oggettivo del reato previsto e punito dall'articolo 15 della legge sulla stampa n. 47/1948 la trasmissione, durante un telegiornale, di un servizio giornalistico sulle atrocità di un conflitto civile. Non integra l'elemento oggettivo del reato previsto e punito dall'art. 15 l. 8 febbraio 1948 n. 47 la trasmissione, durante un telegiornale, di un servizio giornalistico sulle atrocità di un conflitto civile, avvenuto con modalità obiettivamente percepibili come dotate di intrinseco valore informativo. (Nella specie trattavasi di immagini, tra le quali quelle in primo piano di cadaveri putrefatti, teste mozzate e scheletri impiccati, trasmesse durante il telegiornale delle ore 19,30 dall’emittente televisiva Telemontecarlo, accompagnate da commenti e seguite da una intervista telefonica).


Il comune sentimento della morale, non può ritenersi aggredito dall'attività di informazione che, pur ponendosi, per le scene di violenza documentale, ai confini del limite massimo oltre il quale essa travalica la tutela della dignità personale, tuttavia, proprio per la sua intrinseca natura, non entri in contrasto con esso. (Tribunale di Roma, 25 novembre 2003, in “Il Diritto dell’informazione e dell’informatica”, n. 1/2004).


 


3. Diritto di cronaca, diritto dei cittadini all’informazione e Corte costituzionale.


La tutela più forte e incisiva dell’attività giornalistica viene dalla Corte costituzionale, che ha stabilito via via principi, che il legislatore avrebbe dovuto tradurre in leggi:


“I giornalisti preposti ai servizi di informazione sono tenuti alla maggiore obiettività e (devono essere) posti in grado di adempiere ai loro doveri nel rispetto dei canoni della deontologia professionale” (sentenza 10 luglio 1974 n. 225).


 


“Esiste un interesse generale alla informazione - indirettamente protetto dall’articolo 21 della Costituzione - e questo interesse implica, in un regime di libera democrazia, pluralità di fonti di informazione, libero accesso alle medesime, assenza di ingiustificati ostacoli legali, anche temporanei, alla circolazione delle notizie e delle idee” (sentenza 15 giugno 1972 n. 105).


 


“I grandi mezzi di diffusione del pensiero (nella più lata accezione, comprensiva delle notizie) sono a buon diritto suscettibili di essere considerati nel nostro ordinamento, come in genere nelle democrazie contemporanee, quali servizi oggettivamente pubblici o comunque di pubblico interesse” (sentenza 30 maggio 1977 n. 94).


 


“Ogni persona ha diritto alla libertà di espressione e  questo diritto comprenda la libertà di opinione e la libertà di ricevere  o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere interferenza di pubbliche autorità” afferma l’articolo 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (recepita nella legge 4 agosto 1955 n. 848). L’articolo 10 della Convenzione, mutuato dall’articolo 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, è stato ampliato successivamente dall’articolo 19 del Patto internazionale di New York relativo ai diritti civili e politici (legge dello Stato italiano 25 ottobre 1977 n. 881) il quale stabilisce: “...Ogni individuo ha il diritto della libertà di espressione; tale diritto comprende la libertà di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee di ogni genere, senza riguardo a frontiere, oralmente, per iscritto, attraverso la stampa, in forma artistica o attraverso qualsiasi altro mezzo a sua scelta”.


Si tratta di un crescendo di affermazioni e riconoscimenti che, partendo dalla solenne dichiarazione dell’articolo 21 della nostra Costituzione, passando attraverso le interpretazioni e le applicazioni della legislazione ordinaria e delle sentenze emesse da Corti di giustizia di ogni ordine e grado, tornano all’articolo 21 citato disegnandone con estrema chiarezza i contenuti anche nei confronti della attività dell’Ordine dei giornalisti il quale “organizza coloro che per professione manifestano il pensiero” (sentenza n. 11/1968 della Corte Costituzionale). Non sfugga la rilevanza  dell’inserimento, attraverso leggi ordinarie, della Convenzione europea  per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e del Patto di New York relativo ai diritti civili e politici nell’ordinamento giuridico dello Stato: il diritto di “cercare, ricevere e diffondere  informazioni attraverso la stampa” figura esplicitamente nel nostro ordinamento e amplia la sfera del “diritto di manifestare il pensiero” tutelata dall’articolo 21 della Costituzione.


La Corte costituzionale ha allargato la funzione disciplinare dell'Ordine che “....con i suoi poteri di ente pubblico vigila, nei confronti di tutti e nell'interesse della collettività, sulla rigorosa osservanza di quella dignità professionale che si traduce, anzitutto e soprattutto, nel non abdicare mai alla libertà di informazione e di critica e nel non cedere a sollecitazioni che possano comprometterla”. La Corte di Cassazione ha stabilito a completamento che “la fissazione di norme interne, individuatrici di comportamenti contrari al decoro professionale, ancorché non integranti abusi o mancanze, configura legittimo esercizio dei poteri affidati agli Ordini professionali, con la consequenziale irrogabilità, in caso di inosservanza, di sanzione disciplinare” (Cass. civ., 9 luglio 1991, n. 7543, Mass. 1991).


La sentenza n. 11/1968, la cui portata va opportunamente sottolineata, si inserisce in un filone giurisprudenziale consolidato da parte della Corte Costituzionale e che, sia pure con tappe successive, ha condotto la Corte stessa a riconoscere:


a) la natura "coessenziale" dell'articolo 21 rispetto al regime di libertà garantito dalla Costituzione, cioè il carattere di "cardine" che tale norma riveste rispetto alla forma di "Repubblica democratica" fissata dalla Carta costituzionale (sentenze n. 5/1965; n. 11 e  98/1968; n. 105/1972; n. 94/ 1977).


b) l'esistenza di un vero e proprio "diritto all'informazione", come risvolto passivo della libertà di ­espressione (sentenze n. 105/1972; n. 225/1974; n. 94/1977; n. 112/1993).


c) la rilevanza pubblica o di pubblico interesse della funzione svolta da chi professionalmente sia chiamato a esercitare un'attività d'informazione giornalistica (sentenze n. 11 e 98/1968; n. 2/ 1977).


Da questo concerto di norme e di pronunzie giurisprudenziali si trae la assoluta certezza che le regole deontologiche calate nella legge istitutiva dell’Ordine sono non soltanto il perno della autonomia della professione, ma un preciso baluardo agli attacchi che quotidianamente e da più parti vengono mossi al diritto di ciascun cittadino alla informazione corretta e alla oggettiva conoscenza dei fatti per quello che sono, e non per quello che vengono ad arte fatti apparire utilizzando mezzi di comunicazione dei quali la pubblicità è tra i più noti ed importanti e, a seconda delle forme che assume, dei più subdoli e difficilmente riconoscibili.


La Corte Costituzionale con una serie di decisioni ha, infatti, riconosciuto e affermato non soltanto il principio che i cittadini-utenti hanno diritto di ricevere informazioni, ma che essi hanno diritto a ricevere un'informazione completa, obiettiva, imparziale ed equilibrata. Valori, questi, trasfusi dal legislatore nell’articolo 1 (II comma) della legge n. 223/1990 sul sistema radiotelevisivo pubblico e privato; questa legge, infatti, pone a base del sistema radiotelevisivo pubblico e privato .


Sulla base di queste affermazioni della Corte, sin dalla fine degli anni 70, una dottrina  ha ritenuto di poter riconoscere esistente nel nostro ordinamento un vero e proprio diritto soggettivo ad essere informati. In realtà, fin dal 1972 la Corte Costituzionale ha riconosciuto esistente un “interesse generale all'informazione, anch'esso indirettamente protetto dall'articolo 21 della Costituzione” . Con una successiva sentenza, la Corte nuovamente affermava esistente, e tutelato implicitamente dall'articolo 21 della Costituzione, “un interesse generale della collettività all'informazione ”. 


Le linee-cardine fissate dalle sentenze emesse dal 1960 in poi hanno trovato un’ampia conferma in nella fondamentale sentenza 24 marzo 1993 n. 112, che dice:


“.....la libertà di manifestare il proprio pensiero ...ricomprende tanto il diritto di informare quanto il diritto ad essere informati (v., ad esempio, sentt. nn. 202 del 1976, 148 del 1981, 826 del 1988). L’art. 21....colloca la predetta libertà tra i valori primari, assistiti dalla clausola dell’inviolabilità (art. 2 Cost.), i quali, in ragione del loro contenuto, in linea generale si traducono direttamente e immediatamente in diritti soggettivi dell’individuo di carattere assoluto. Tuttavia, l’attuazione di tali valori fondamentali nei rapporti della vita comporta una serie di relativizzazioni, alcune delle quali derivano da precisi vincoli di ordine costituzionale, altre da particolari fisionomie della realtà nella quale quei valori sono chiamati ad attuarsi. Sotto il primo profilo, questa Corte ha da tempo affermato che il “diritto all'informazione” va determinato e qualificato in riferimento ai principi fondanti della forma di Stato delineata dalla Costituzione, i quali esigono che la nostra democrazia sia basata su una libera opinione pubblica e sia in grado di svilupparsi attraverso la pari concorrenza di tutti alla formazione della volontà generale. Di qui deriva l'imperativo costituzionale che il “diritto all'informazione” garantito dall'art. 21 sia qualificato e caratterizzato:


 a) dal pluralismo delle fonti cui attingere conoscenze e notizie - che comporta, fra l'altro, il vincolo al legislatore di impedire la formazione di posizioni dominanti e di favorire l'accesso nel sistema radiotelevisivo del massimo numero possibile di voci diverse - in modo tale che il cittadino possa essere messo in condizione di compiere le sue valutazioni avendo presenti punti di vista differenti e orientamenti culturali contrastanti;


b) dall'obiettività e dall'imparzialità dei dati forniti;


c) dalla completezza, dalla correttezza e dalla continuità dell'attività di informazione erogata;


d) dal rispetto della dignità umana, dell'ordine pubblico, del buon costume e del libero sviluppo psichico e morale dei minori”.


 


4. La professione giornalistica, come quella degli avvocati e dei medici, è nella Costituzione.


Ormai è maturo il tempo perché i giornalisti, come i magistrati, siano inseriti nella Costituzione. Nella carta fondamentale c’è scritto che i magistrati sono soggetti soltanto alla legge. Nella stessa carta fondamentale va scritto che i giornalisti sono soggetti soltanto alla Costituzione e alla deontologia professionale. Si afferma da più parti che soltanto gli avvocati e i medici sono nella  Costituzione (con riferimento agli articoli 24  e  32, che parlano del diritto di difesa e del diritto alla salute). Il secondo comma dell’articolo 21 della Costituzione afferma che la stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni  o censure. La stampa è fatta, alimentata, progettata e creata dai giornalisti. “L'esperienza dimostra – come ha scritto la Corte costituzionale nella sentenza n. 11/1968 - che il giornalismo, se  si  alimenta   anche   del   contributo  di  chi  ad  esso  non  si  dedica  professionalmente, vive soprattutto attraverso l'opera  quotidiana  del  professionisti. Alla loro libertà si connette, in un unico destino, la libertà della  stampa  periodica,  che  a  sua  volta  è condizione essenziale di quel libero confronto di idee  nel  quale  la  democrazia affonda  le  sue  radici vitali”.


La Costituzione e la Corte costituzionale disegnano, quindi,  una professione giornalistica come professione della libertà. “Quella libertà che  - come ha scritto Mario Borsa -  prima di essere un diritto è un dovere”. Il monito di Mario Borsa, - giornalista liberale,  corrispondente per lunghi anni del “Secolo” da Londra, combattente della libertà negli anni della dittatura fascista e poi direttore del  “Corriere della Sera” nel 1945/1946 -,  recuperato da   Walter Tobagi  con un  saggio pubblicato nel 1976 (su “Problemi dell’informazione”), è questo: “Dite sempre quello che è bene e che vi par tale anche se questo bene non va precisamente a genio ai vostri amici; dite sempre quello che è giusto, anche se ne va della vostra posizione, della vostra quiete, della vostra vita. Siate dunque indipendenti e inchinatevi solo davanti alla libertà, ricordandovi che prima di essere un diritto la libertà è un dovere”.


Il secondo comma dell’articolo 21 va incrociato con il quinto comma  dell’articolo  33 della Costituzione: “È prescritto un esame di Stato ...per l'abilitazione all'esercizio professionale”.  Lo Stato, quindi, deve garantire i cittadini sulla preparazione  dei giornalisti “all’esercizio professionale”. Su questa base il Parlamento ha stabilito (con la legge n. 69/1963) che esiste una professione giornalistica, che è stata poi organizzata, come prescrive l’articolo 2229 del Codice civile,  con l’Ordine (giudice disciplinare e giudice delle iscrizioni) e l’Albo: “Non  spetta  alla  Corte  valutare  l'opportunità  della creazione dell'Ordine,  perché  l'apprezzamento  delle   ragioni   di   pubblico interesse   che   possano   giustificarlo   appartiene  alla  sfera  di discrezionalità riservata al legislatore. Compete,  invece,  alla  Corte accertare  se  la  riserva  della  professione  giornalistica  ai  soli iscritti all'Ordine ed il modo in  cui  la  legge  ha  disciplinato  il regime  dell'albo comportino la violazione del principio costituzionale -  articolo  21  -  che  a  tutti  riconosce  il  "diritto  di  manifestare liberamente  il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione": un diritto, come altre volte  è  stato detto (cfr. sent. n. 9 del 1965), coessenziale  al  regime  di  libertà  garantito dalla   Costituzione,   inconciliabile  con  qualsiasi  disciplina  che direttamente o indirettamente apra la via a pericolosi attentati, e  di fronte  al  quale  non  v'è  pubblico interesse che possa giustificare limitazioni che non siano consentite dalla stessa Carta costituzionale”.


La legge istitutiva dell’Ordine (n. 69/1963), realizzando un proposito espresso fin dal 1944 dal legislatore democratico (art. 1 del D.L.  Lt.  23  ottobre 1944, n. 302), disciplina l'esercizio professionale giornalistico e non l'uso del giornale come mezzo della libera manifestazione del pensiero: essa – come si legge nella sentenza n. 11/1968 della Consulta - non tocca il diritto che a "tutti" l'articolo 21 della Costituzione riconosce: “Questo sarebbe  certo violato  se  solo  gli iscritti all'albo fossero legittimati a scrivere sui giornali, ma è da escludere che una  siffatta  conseguenza  derivi dalla  legge”. Ha scritto ancora la Consulta: “Chi tenga presente il complesso mondo della  stampa  nel  quale  il giornalista  si  trova  ad operare o consideri che il carattere privato delle imprese editoriali ne condiziona le possibilità di  lavoro,  non può  sottovalutare  il rischio al quale è esposto la sua libertà né può negare la necessità di misure e di strumenti a salvaguardarla. Il fatto che il giornalista esplica la  sua attività  divenendo  parte  di  un  rapporto di lavoro subordinato non rivela la superfluità di un apparato che si giustificherebbe  solo  in  presenza  di  una  libera professione,   tale  il  senso  tradizionale.  Quella  circostanza,  al contrario, mette in risalto l'opportunità che  i  giornalisti  vengano associati  in  un  organismo che, nei confronti del contrapposto potere economico del datori  di  lavoro,  possa  contribuire  a  garantire  il rispetto  della  loro  personalità  e,  quindi,  della  loro libertà: compito, questo, che supera di  gran  lunga  la  tutela  sindacale  del diritti  della  categoria  e che perciò può essere assolto solo da un Ordine a struttura democratica che con i suoi poteri di  ente  pubblico vigili,  nei  confronti  di tutti e nell'interesse della collettività, sulla rigorosa osservanza  di  quella  dignità  professionale  che  si traduce, anzitutto e soprattutto, nel non abdicare mai alla libertà di informazione e di critica e nel non cedere a sollecitazioni che possano comprometterla”.  


La Consulta ha superato anche le riserve sul praticantato con questo ragionamento: “La Corte osserva che, se è vero che ove il soggetto interessato non trovi un  giornale  che  lo  assuma come   praticante   egli  non  potrà  mai  intraprendere  la  carriera giornalistica, è altrettanto vero che neppure il giornalista  iscritto può  svolgere  la  sua attività professionale se non trova un editore disposto ad assumerlo: il che dimostra che ci  si  trova  di  fronte  a  conseguenze  che  non derivano dalla legge in esame, ma dalla struttura privatistica delle imprese editoriali, nell'ambito della quale  la  non discriminazione può essere assicurata soltanto dalla concorrenza della molteplicità delle iniziative giornalistiche”. Oggi la presenza di 15 scuole di giornalismo, riconosciute dall’Ordine, hanno attutito di molto le polemiche sull’accesso alla professione.


E’ di importanza strategica per una società democratica il nuovo diritto fondamentale dei cittadini all’informazione (“corretta e completa”), costruito dalla Corte costituzionale (vedi tra le tante la sentenza n. 112/1993) sulla base dell’articolo 21 della Costituzione e dell’articolo 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo. Questo nuovo diritto fondamentale presuppone la presenza e l’attività di giornalisti vincolati a un percorso formativo universitario  (come impongono la direttiva comunitaria n.  89/48/CEE  e il comma 18 dell’articolo 1 della legge n. 4/1999), a una deontologia specifica e a un giudice disciplinare nonché a un esame di Stato, che ne accerti la preparazione come prevede appunto  l’articolo 33 (V comma) della Costituzione.


 


5. Il “decalogo” della Cassazione sui limiti del diritto di cronaca. I limiti del diritto di cronaca  sono stati fissati con la famosa sentenza n. 5259 del 18 ottobre 1984 della prima sezione civile della Corte di Cassazione meglio nota come sentenza-decalogo sulla libertà di stampa e quindi sul diritto di cronaca e di critica. Vengono codificati in una sorta di decalogo i criteri che i giornalisti devono rispettare per non incorrere nei rigori della legge. Chi si ritiene diffamato da un articolo può rivolgersi direttamente al giudice civile senza prima presentare una querela alla Procura della Repubblica nei confronti del giornalista autore dell'articolo contestato e del direttore responsabile della pubblicazione. Questi i principi fissati nella sentenza (Il Foro italiano, anno 1984, Vol. CVII, pagg. 2712-2722):


1) Non è affatto vero che l'esercizio del diritto di stampa (e quindi di cronaca e di critica), garantito dall'articolo 21 della Costituzione, non possa essere censurato se non in sede penale e, quindi, solo se e in quanto costituisca reato.


2) In altre parole può ben esservi un illecito civile che non sia anche penale, mentre il contrario non può mai verificarsi.


3) Il diritto di stampa (cioè la libertà di diffondere attraverso la stampa notizie e commenti), sancito in linea di principio dall’articolo 21 Cost. e regolata fondamentalmente nella legge 8 febbraio 1948 n. 47,  è legittimo quando concorrano le tre seguenti condizioni: a) utilità sociale dell'informazione; b) verità (oggettiva o anche soltanto putativa purché, in quest'ultimo caso, frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca) dei fatti esposti; c) forma "civile" dell'esposizione dei fatti e della loro valutazione”, cioè non eccedente rispetto allo scopo informativo da conseguire, improntata a serena obiettività almeno nel senso di escludere il preconcetto intento denigratorio e, comunque, in ogni caso rispettosa di quel minimo di dignità cui ha sempre diritto anche la più riprovevole delle persone, sì da non essere consentita l’offesa triviale o irridente i più umani sentimenti.


4) La verità dei fatti, cui il giornalista ha il preciso dovere di attenersi, non è rispettata quando, pur essendo veri i singoli fatti riferiti, siano  dolosamente o anche colposamente taciuti altri fatti tanto strettamente ricollegabili ai primi da mutarne completamente il significato.


5) La verità non è più tale se è "mezza verità" (o, comunque, verità incompleta). La verità incompleta deve essere, pertanto, in tutto equiparata alla notizia falsa. 


6) La forma della critica non è civile, non solo quando eccede lo scopo informativo da conseguire o difetta di serenità e di obiettività o, comunque, calpesta quel minimo di dignità cui ogni persona ha sempre diritto, ma anche quando non è improntata a leale chiarezza.


7) Lo sleale difetto di chiarezza sussiste quando il giornalista ricorre a uno dei seguenti subdoli espedienti nei quali sono ravvisabili in sostanza altrettante forme di offese indirette:


a) al sottinteso sapiente, cioè all'uso di determinate espressioni nella consapevolezza che il pubblico dei lettori le intenderà o in maniera diversa o addirittura contraria al loro significato letterale, ma comunque sempre in senso più sfavorevole nei confronti della persona che si vuol mettere in cattiva luce. Il più sottile e insidioso di tali espedienti è il racchiudere determinate parole tra virgolette allo scopo di far intendere ai lettori che esse non solo altro che eufemismi e che sono da interpretarsi in ben altro (e ben noto) senso da quello che avrebbero senza virgolette;


b) agli accostamenti suggestionanti di fatti che si riferiscono alla persona che si vuol mettere in cattiva luce con altri fatti riguardanti altre persone o con giudizi sempre negativi apparentemente espressi in forma generale ed estratta e come tali ineccepibili (come, ad esempio, l'affermazione "il furto è sempre da condannare") ma che, invece, per il contesto in cui sono inseriti, il lettore riferisce inevitabilmente a persone ben determinate.


c) al tono sproporzionatamente scandalizzato e sdegnato (specie nei titoli) o comunque all'artificiosa e sistematica drammatizzazione con cui si riferiscono notizie “neutre”, perché insignificanti o comunque di scarsissimo valore sintomatico al solo scopo di indurre i lettori, specie i più superficiali, a lasciarsi suggestionare dal tono usato fino al punto di recepire ciò che corrisponde non tanto al contenuto letterale della notizia, ma quasi esclusivamente al modo della sua presentazione (classici sono a tal fine l'uso del punto esclamativo o la scelta di aggettivi sempre in senso negativo, ma di significato non facilmente precisabile o comunque sempre legato a valutazioni molto soggettive come, ad esempio, "notevole", “impressionante”, “strano”, “non chiaro”).


d) alle vere e proprie insinuazioni, anche se più o meno velate (la più tipica è certamente quella secondo cui: “non si può escludere che..." riferita a fatti dei quali non si riferisce alcun serio indizio) che ricorrono quando pur senza esporre fatti o esprimere giudizi apertamente si articola il discorso in modo tale che il lettore li prenda egualmente in considerazione denigrando la reputazione di un determinato soggetto.


Questa la massima tratta dalla sentenza n. 5259/1984 della Sezione I civile della Corte di Cassazione (Il Foro italiano, anno 1984, Vol. CVII, pag. 2712): “Perché la divulgazione a mezzo stampa di notizie lesive dell’onore possa considerarsi lecita espressione del diritto di cronaca, e non comporti responsabilità civile per violazione del diritto all’onore, devono ricorrere tre condizioni: 1)utilità sociale dell’informazione; 2) verità oggettiva, o anche soltanto putativa purché frutto di diligente lavoro di ricerca; 3) forma civile dell’esposizione dei fatti e della loro valutazione, che non ecceda lo scopo informativo da conseguire e sia improntata a leale chiarezza, evitando forme di offesa indiretta”.


Con un'altra sentenza del 23 ottobre 1984, emessa a pochi giorni da quella del 18 ottobre, le sezioni unite penali della Cassazione stabiliscono che "l'esercizio legittimo del diritto di cronaca - anche sotto il profilo putativo - non può essere disgiunto dall'uso legittimo delle fonti informative”. Nella nuova sentenza viene sottolineato che non esistono fonti informative privilegiate, tali cioè da svincolare il cronista dall'onere:


1) di esaminare, controllare e verificare i fatti, - oggetto della sua narrazione -, in funzione dell'assolvimento da parte sua dell'obbligo inderogabile di rispettare la verità sostanziale degli stessi;


2) di dare la prova della cura da lui posta negli accertamenti esplicati per vincere ogni dubbio ed incertezza prospettabili in merito a quella verità.


In sostanza occorre che il cronista -  seguendo i suggerimenti della prudenza e i consigli della perizia professionale - eserciti l'insopprimibile diritto di informazione con il rispetto delle norme dettate a tutela della personalità altrui e dell'obbligo inderogabile di salvaguardia della verità sostanziale dei fatti narrati con la lealtà e la buona fede imposte dai doveri che ne qualificano ineludibilmente l'operato. Solo in questo caso il giornalista non è personalmente punibile per diffamazione avendo esercitato legittimamente il diritto di cronaca (articolo 51 Cp). Viceversa può essere condannato se ha violato i canoni sopracitati riferendo fatti discordanti dalla verità.


Principi, questi, ribaditi nel 1997 e nel 2001: “Ai  fini  della configurabilità dell'esimente del diritto di cronaca, anche  sotto  l'aspetto putativo o dell'eccesso colposo, in relazione al  reato  di diffamazione a mezzo stampa, la necessaria correlazione fra  quanto  è  stato  narrato e ciò che è realmente accaduto importa l'inderogabile   necessità  di  un  "assoluto"  rispetto  del  limite interno   della  verità  oggettiva  di  quanto  riferito,  nonché  lo stretto   obbligo   di  rappresentare  gli  avvenimenti  quali  sono, risultando  inaccettabili  i valori sostitutivi di esso, quali quello della  veridicità  o  della  verosimiglianza dei fatti narrati; né il giornalista  può  appagarsi  di notizie rese pubbliche da altre fonti informative  (altri giornali, agenzie e simili) senza esplicare alcun controllo,  perché  in  tal  modo le diverse fonti propalatrici delle notizie  -  attribuendosi  reciproca  credibilità  -  finirebbero per rinvenire l'attendibilità in se stesse” (Cass. pen., sez. V, 23 gennaio 1997, n. 6018; Riviste: Cass. Pen., 1999, 853; Rif. ai codici: CP art. 51, CP art. 595).  “Ai fini dell'esimente ex art. 51 cp, anche sotto il profilo putativo, la necessaria correlazione fra quanto narrato e quanto accaduto nella realtà implica l'assoluto rispetto del limite interno della verità oggettiva di quanto esposto, nonché il rigoroso obbligo di rappresentare gli avvenimenti quali sono, risultando inaccettabili i valori sostitutivi di esso, quale quello della verosimiglianza. Per invocare l'esimente putativa, occorre che il giornalista usi legittimamente le fonti informative mediante l'esame e la verifica dei fatti che ne costituiscono il contenuto, offrendo la prova della cura posta negli accertamenti svolti, per fugare ogni incertezza prospettabile in ordine alla verità sostanziale dei fatti” (Cass. pen. sez. V 17-01-2001, n. 11657; FONTI Massima redazionale, 2002).


 


Obbligo inderogabile del giornalista è il rispetto della verità sostanziale dei fatti, non rilevando le inesattezze che incidono su semplici modalità del narrato, senza modificarne la struttura o (se si tratta di cronaca giudiziaria) se consistono nella errata indicazione del titolo del reato (consumato anziché tentato). (Trib. Messina, 13 dicembre 1988, Pollichieni, Riv. it. dir. proc. pen., 1990, 1210).


 


Affinchè la divulgazione a mezzo stampa di notizie lesive dell'onore possa considerarsi lecito esercizio del diritto di cronaca, deve ricorrere, tra le altre, la condizione della verità oggettiva della notizia pubblicata, la quale comporta, come inevitabile corollario, l'obbligo del giornalista, non solo di controllare l'attendibilità della fonte (non sussistendo fonti informative privilegiate), ma anche di accertare e di rispettare la verità sostanziale dei fatti oggetto della notizia, con la conseguenza che, solo se tale obbligo sia stato scrupolosamente osservato, si potrà utilmente invocare l'esimente dell'esercizio del diritto di cronaca. (Trib. Napoli 30-07-2001; FONTI Riv. giur. Polizia, 2002, 375).


In tema di azione di risarcimento dei danni da diffamazione a mezzo della stampa, qualora il fatto non sia stato ancora valutato in sede penale, presupposto per l'applicabilità della esimente dell'esercizio del diritto di cronaca è la continenza del fatto, intesa in senso sostanziale e formale. Sotto il primo profilo, i fatti narrati devono corrispondere alla verità, sia pure non assoluta, ma soggettiva; sotto il secondo, la esposizione dei fatti deve avvenire in modo misurato, deve, cioè, essere contenuta negli spazi strettamente necessari. Peraltro, quando, come accade frequentemente, la narrazione di determinati fatti sia esposta insieme alle opinioni dell'autore dello scritto, in modo da costituire nel contempo esercizio di cronaca e di critica, la valutazione della continenza non può essere condotta, sulla basedei soli criteri indicati, essenzialmente formali, dovendo, invece, lasciare spazio alla interpretazione soggettiva dei fatti esposti. Infatti, la critica mira non già ad informare, ma a fornire giudizi e valutazioni personali, e, se è vero che, come ogni diritto, anche quello in questione non può essere esercitato se non entro limiti oggettivi fissati dalla logica concettuale e dall'ordinamento positivo, da ciò non può inferirsi che la critica sia sempre vietata quando sia idonea ad offendere la reputazione individuale, richiedendosi, invece, un bilanciamento dell'interesse individuale alla reputazione con quello alla libera manifestazione del pensiero, costituzionalmente garantita. Siffatto bilanciamento è ravvisabile nella pertinenza della critica di cui si tratta all'interesse pubblico, cioè nell'interesse dell'opinione pubblica alla conoscenza del fatto oggetto di critica, interesse che costituisce assieme alla correttezza formale (continenza), requisito per lainvocabilità della esimente dell'esercizio del diritto di critica. (Cass. civ. Sez.III 24-05-2002, n. 7628; Frustagli c. Soc. Poligrafici ed.; FONTI Studium juris, 2002, 1260).


Cronisti tra articoli 51 e 59 Cp. In tema di diffamazione commessa con il mezzo della stampa, nel caso di provata verità della notizia pubblicata, pure avente carattere diffamatorio, deve ritenersi sussistente l’esimente del diritto di cronaca ex articolo 51 Cp. Quando, invece, il fatto narrato risulti obiettivamente inveritiero, non è esclusa l’applicazione della scriminante de qua – sotto il profilo della putatività ex articolo 59, comma 1, del Cp – purché, però, il cronista abbia assolto l’onere di controllare accuratamente la notizia risalendo alla fonte originaria, senza che l’errore circa la verità sia frutto di negligenza, imperizia o comunque colpa non scusabile. (Cass., 21 febbraio 2000, Latella e altro).


 


6. Il diritto di cronaca (e di critica) ancorato a  “notizie vere”. La Cassazione penale (sez. V, 7 aprile 1992), inoltre, ha individuato le cause di non punibilità (scriminante: adempimento di un dovere o esercizio di un diritto):


“Ai fini della configurabilità dell'esimente di cui all'articolo 51 Cp per il reato di diffamazione a mezzo stampa, il diritto di cronaca (e di critica), come ogni diritto, si definisce per mezzo dei suoi stessi limiti, che consentono di precisarne il contenuto e di determinarne l'ambito di esercizio. Tali limiti, secondo il costante insegnamento di questa Corte, sono costituiti:


1) dalla verità del fatto narrato;


2) dalla loro pertinenza, ossia dall'oggettivo interesse che essi fatti rivestono per l'opinione pubblica;


3) dalla correttezza con cui gli stessi vengono riferiti (cosiddetta continenza); essendo estranei all'interesse sociale che giustifica la discriminazione in parola ogni inutile eccesso e ogni aggressione dell'integrità morale della persona.


In ordine al primo requisito va osservato che, prescindendo da ogni controversa opinione filosofica sull'argomento, per "verità", ai fini che qui interessano, deve intendersi la sostanziale corrispondenza (adaequatio) tra fatti come sono accaduti (res gestae) e i fatti come sono narrati (historia rerum gestarum). Solo la verità come correlazione rigorosa tra il fatto e la notizia soddisfa alle esigenze della informazione e riporta l'azione nel campo dell'operatività dell'art. 51 Cp, rendendo non punibile (nel concorso dei requisiti della pertinenza e della continenza) l’eventuale lesione della reputazione altrui.


Il principio della verità, quale presupposto dell'esistenza stessa del diritto di cronaca, oltreché del suo legittimo esercizio, comporta, come suo inevitabile corollario, l'obbligo del giornalista, non solo di controllare l'attendibilità della fonte, ma altresì di accertare le verità della notizia, talché solo se tale obbligo sia stato scrupolosamente adempiuto, l'esimente dell'art. 51 Cp potrà essere utilmente invocata”.


Cass. pen., sez. V, 2 marzo 1990, n. 2785: “Ai fini dell'esercizio del diritto di informazione nella raccolta delle notizie, il giornalista deve usare la maggiore diligenza e cautela possibili onde vagliare la fonte delle notizie e la più accorta pruden­za nell'accoglierle, nulla tralasciando al fine di verificare se i fatti riferiti da terzi o contenuti in scritti di altrui provenienza abbiano corrispondenza nella realtà (Nella specie la corte ha ritenuto che l'autore dell'articolo aveva tenuto un comportamento colpevole, per avere pubblicato lettere contenenti accuse e giudizi lesivi dell'altrui reputazione di un On. senza richiamare l'attenzione del let­tore sulla inaffidabilità dei documenti, in quanto privi di firma leg­gibile e quindi sostanzialmente anonimi e facendoli anzi figurare come provenienti da dissidenti di un partito politico)”.


Cass. pen.,  Sez. I, 11 luglio 1994: “....In tema di arbitraria pubblicazione degli atti di un procedimento è sempre consentita la divulgazione delle notizie attinte direttamente da persona che abbia assistito o sia a conoscenza di un fatto anche quando lo stesso sia oggetto di accertamento da parte della autorità giudiziaria. Una notizia attinta direttamente da un testimone di un avvenimento, in quanto tale non tenuto al segreto, è liberamente divulgabile con il mezzo della stampa”.


Cass. pen., sez. V, sentenza 13 ottobre 1995: “Nell'ipotesi di diffamazione a mezzo stampa è configurabile la scriminante dell'esercizio del diritto di cronaca quando il giornalista, che ricostruisce il dato fattuale sulla base delle dichiarazioni dei presenti, delinea una versione dell'accaduto non palesemente contraddittoria con riferimento al quadro complessivo delle testimonianze esaminate. La verosimile ricostruzione di fatti riferiti in modo diverso dai soggetti coinvolti, purché  plausibile e descritta nel rispetto dei limiti oggettivi del diritto di cronaca, consente il proscioglimento del giornalista e del direttore della testata, in quanto il dubbio attiene all'esistenza di una causa di giustificazione, vale a dire all'esercizio del diritto di cronaca giornalistica”.


Cass. pen.,  sez V, 30 gennaio-15 aprile 1996 n. 3604: “Se l’articolista rappresenta fedelmente (nel pensiero e nelle parole) gli avvenimenti tali quali si sono verificati (nel caso di specie apprezzamenti pesanti rivolti da un uomo politico ad un collega) nessun addebito può essergli mosso in relazione alla pubblicazione della notizia sulla “smodata” reazione avuta dallo stesso uomo politico di fronte alla pronunzia di condanna emessa nei suoi confronti dai giudici romani. Invero, in questo caso, l’innegabile interesse che la notizia (l’accusa mossa dal politico al giudice) per molteplici e intuitivi motivi rivestiva e non poteva non rivestire per l’opinione pubblica, era destinata a prevalere sul requisito della verità Il parziale racconto del giornalista aveva invece stravolto  il significato delle esternazioni avute dall’uomo politico nei riguardi del collega, e, con esso, inevitabilmente (sul che non può non convenirsi) anche quello della decisione del Tribunale romano. Di qui il confermato giudizio di colpevolezza nei confronti del giornalista per avere questo violato il limite della corrispondenza tra fatti accaduti e fatti narrati, condizione indispensabile perché il diritto di informazione possa essere esercitato anche quando ne derivi una lesione all’altrui reputazione”.


Cassazione civile (sez. I, 7 febbraio 1996 n. 982): “Affinché la divulgazione a mezzo stampa di notizie lesive dell’onore, della reputazione o della riservatezza di terzi possa considerarsi lecito esercizio del diritto di cronaca devono ricorrere le seguenti condizioni: la verità (oggettiva o anche soltanto putativa, purché in questo caso frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca) dei fatti esposti; l'interesse pubblico alla conoscenza del fatto oggetto della cronaca; infine, la correttezza formale dell’esposizione (cosiddetta continenza), postulandosi la necessaria adozione, da parte del giornalista, di una forma civile della esposizione dei fatti e della loro valutazione”.


Cass. pen., sez. V, 23 gennaio 1997 n. 7393: “Quando sia pubblicata una notizia non vera, non è possibile allegare a riscontro dell'esercizio putativo del diritto di cronaca l'operato erroneo di altri organi di informazione, quale che sia la loro diffusione, e nemmeno la provenienza della notizia da fonti privilegiate di informazione, dal momento che ciascun organo d'in­formazione deve verificare la fondatezza della notizia, e per gli or­gani dello Stato sono previste dalla legge precise forme di pubblicità del loro operato, fuori delle quali non esiste alcuna ufficialità rico­noscibile. (Nella fattispecie, in un articolo in cui si verificavano i dati del censimento svolto dalle forze di polizia delle persone de­nunciate per associazione mafiosa in una regione d'Italia in un de­terminato anno era stata fatta menzione, nel quadro di eventi cri­minosi ricollegabili ad organizzazioni mafiose del territorio, di un soggetto, all'epoca coinvolto in un procedimento per associazione per delinquere, usura ed estorsione, poi conclusosi con sentenza di non luogo a procedere, indicandolo, dopo avere riprodotto la map­pa delle principali famiglie di mafia, operanti nella regione, nel no­vero di capi e famiglie. È stata ravvisata l'offesa alla reputazione del detto soggetto sul rilievo che qualsiasi organizzazione mafiosa comune non poteva essere assimilata a quella mafiosa per via del salto di qualità tra l'una e l'altra ed è stato escluso l'esercizio an­che putativo del diritto di cronaca)”.


Cass. pen., sez. V, 23 gennaio 1997, n. 7393: “La prova dell'errore scriminante in materia di esercizio pu­tativo del diritto di cronaca deve vertere sul fatto, e cioè sulla verità della notizia e non sull'attendibilità della fonte di informazione, dal momento che il giornalista può essere esentato dall'avere pubblica­to una notizia non vera solo con la dimostrazione di avere svolto il controllo, e non già per l'affidamento riposto in buona fede sulla fonte, per quanto possa trattarsi di un organo dello Stato. (Nella fattispecie, si sosteneva che l'articolo in questione si era limitato a riferire i dati di un censimento di polizia)”.


 


In tema di diffamazione a mezzo stampa, l'esercizio del diritto di critica incontra i limiti della rilevanza sociale dell'argomento e della correttezza delle espressioni utilizzate e presuppone una notizia che a esso preesiste (momento che attiene ancora al diritto di cronaca), con la conseguenza che sussiste l'obbligo dell'articolista di esercitare la propria critica esclusivamente sui fatti del cui nucleo fondamentale ha verificato la corrispondenza al vero. In altri termini, l'esercizio del diritto di critica postula, per avere efficacia scriminante, oltre al rispetto del limite della continenza, che venga stigmatizzato un fatto obiettivamente vero nei suoi elementi essenziali, o ritenuto tale per errore assolutamente scusabile (Cass. pen. sez. V 23-10-2003, n. 48267; Festa; FONTI Guida al Diritto, 2004, 11, 102).


 


In tema di diffamazione a mezzo stampa, è consentito al giornalista effettuare accostamenti tra notizie vere, a condizione che esse non producano un ulteriore significato che trascenda la notizia stessa, acquisendo un'autonoma valenza lesiva. (Cass. pen. Sez.V 26-03-2003, n. 19804, rv. 224531, Padovani, FONTI CED Cassazione, 2003).


 


In tema di diffamazione commessa con il mezzo della stampa, il diritto di cronaca può rilevare come causa di giustificazione quando vengono rispettati sia il requisito della verità (cioè, rispondenza al vero della notizia riferita), sia quello della continenza (vale a dire, uso di espressioni appropriate e non intrinsecamente offensive, denigratorie e ingiuriose), sia quello della rilevanza sociale del fatto narrato. (Cass. pen. sez. V 26-11-2003, n. 4712; Pg appello Torino; FONTI Guida al Diritto, 2003, 17, 66).


 


Il diritto di critica, al pari del diritto di cronaca, costituisce pacifica estrinsecazione del diritto costituzionalmente garantito alla libera manifestazione del pensiero e si caratterizza per il fatto di concretizzarsi nell'espressione di giudizi e valutazioni, piuttosto che nell'esposizione di fatti obiettivi, fino al punto di sottrarsi alla verifica dell'assoluta obiettività delle opinioni espresse. Il diritto di critica per sua natura è parziale, idealmente o ideologicamente orientato e teso ad evidenziare proprio gli aspetti ritenuti negativi o contraddittori del soggetto criticato. Il diritto di critica non va esente dagli stessi limiti del diritto di cronaca o di manifestazione del pensiero, i quali, tuttavia, si atteggiano in misura parzialmente diversa. Il limite della verità dei fatti è quello che subisce la maggiore compressione, perchè, come è ovvio, le opinioni si sottraggono per loro natura ad un giudizio si stretta obiettività. Residua, come parametro obiettivamente rilevabile, la condizione che i giudizi espressi siano basati su presupposti di fatto veri, almeno in via putativa ovvero ritenuti veri per colpa scusabile. Resta invariato il requisito dell'interesse pubblico, salvo uno specifico nesso tra interesse e continenza espressiva, tale per cui la correttezza sostanziale dell'esposizione non possa andare oltre le esigenze di conoscenza del pubblico. Limiti più ampi sono posti al requisito della continenza formale, tenendo conto del fatto che l'espressione critica, per sua natura può attingere a forme altrimenti offensive o sgradite al destinatario oppure parole aspre e pungenti, purchè correlate ai fatti di cui si tratta. I limiti all'esercizio legittimo della critica possono, pertanto, essere individuati solo negli attacchi gratuiti, immotivati, che mettono in evidenza profilidella personalità morale slegati dal fatto di cui si tratta e dall'interesse pubblico ad apprendere il fatto stesso ed il commento critico, oltre che naturalmente alle contumelie e volgarità gratuite in genere. (Trib. Milano 26-02-2001; FONTI Foro Ambrosiano, 2001, 168).


 


Il cronista deve controllare la veridicità delle informazioni ricevute in via confidenziale dalla polizia giudiziaria prima di utilizzarle per un servizio giornalistico (Cassazione Sezione Quinta Penale n. 41135 del 19 novembre 2001, Pres. Foscarini, Rel. Nappi). Roberto R., redattore dell’Agenzia Giornalistica Italia, ha partecipato ad una conferenza stampa tenuta dai carabinieri in occasione dell’applicazione a Giuseppe V., sovrintendente dei beni culturali del Lazio, della custodia cautelare in carcere per imputazioni connesse all’esercizio delle sue funzioni . Terminata la conferenza stampa, un carabiniere gli ha detto riservatamente che nell’abitazione dell’indagato erano stati ritrovati reperti archeologici sospetti. Il giornalista ha inserito questa informazione in un servizio diffuso dalla sua agenzia. La notizia è risultata falsa. Il sovrintendente ha querelato il giornalista per diffamazione. L’imputato si è difeso invocando l’esimente putativa del diritto di cronaca: egli ha cioè sostenuto di avere ritenuto attendibile la notizia per averla ricevuta da un carabiniere. Il Tribunale di Roma ha condannato il giornalista e la sua decisione è stata confermata dalla Corte di Appello. Il giornalista ha proposto ricorso per cassazione sostenendo di avere diritto all’esimente putativa del diritto di cronaca. La Suprema Corte (Sezione Quinta Penale n. 41135 del 19 novembre 2001, Pres. Foscarini, Rel. Nappi) ha rigettato il ricorso. La confidenza di un ufficiale di polizia giudiziaria – ha affermato la Corte – non può considerarsi di per sé attendibile e va pertanto controllata dal giornalista; le informazioni date dalla pubblica amministrazione possono essere ritenute di per sé attendibili solo quando siano date in forma ufficiale.


 


Non è diffamatorio un articolo che riporta correttamente il contenuto di un esposto ai carabinieri. Il giornalista non è tenuto a controllarne la fondatezza (Cassazione Sezione Quinta Penale n. 998 del 26 settembre 2001, Pres. Marrone, Rel. Marini). Nel giugno del 1994 il periodico "L’Opinione" di Arezzo, ha pubblicato un articolo, nel quale si riferiva il contenuto di un esposto presentato dal presidente dell’associazione commercianti ai Carabinieri, per segnalare l’acquisto, da parte della Società Unicoop, di un terreno agricolo per l’elevato prezzo di lire due miliardi e la successiva destinazione, da parte del Comune, di tale terreno ad area fabbricabile. Nell’articolo intitolato "Due miliardi per un terreno agricolo divenuto dopo un’area fabbricabile" si faceva presente, tra l’altro, che nell’esposto si indicava che un consigliere comunale di Arezzo faceva parte del consiglio di amministrazione della Unicoop. Dopo la pubblicazione dell’articolo, l’esposto ha dato luogo ad un processo penale, che si è concluso con l’assoluzione del presidente della Cooperativa e del consigliere comunale. In seguito a querela proposta dal presidente della Unicoop, il direttore del periodico L’Opinione, Carlo C., è stato sottoposto a processo penale per diffamazione. Egli si è difeso sostenendo di avere correttamente esercitato il diritto di cronaca. Il Tribunale di Arezzo lo ha assolto, ma, in grado di appello, la Corte di Firenze lo ha ritenuto responsabile del reato di diffamazione. Egli ha proposto ricorso per cassazione, censurando la Corte d’Appello per avere escluso l’applicabilità dell’esimente costituita dall’esercizio del diritto di cronaca.


La Suprema Corte (Sezione Quinta Penale n. 998 del 26 settembre 2001, Pres. Marrone, Rel. Marini) ha accolto il ricorso in quanto ha ritenuto che nell’articolo incriminato sia stato correttamente riferito il contenuto dell’esposto e che l’argomento fosse di pubblico interesse. La Cassazione ha escluso che, prima di dare notizia dell’esposto, il direttore del periodico dovesse controllarne la fondatezza. Il controllo della fondatezza di un esposto è necessario – ha affermato la Corte – allorché sia evidente l’assoluta inverosimiglianza del fatto denunciato o la palese strumentalità e gratuità della denuncia, ma non quando, come nel caso in esame, esso riferisca un fatto di indiscutibile rilevanza sociale, oggettivamente sospettabile e meritevole di verifica in sede giudiziaria; al giornalista, in questo caso, non può essere richiesta un’ulteriore condotta di tipo ispettivo, che non gli compete, mentre deve essergli riconosciuta l’esimente del diritto di cronaca, essendo stato correttamente riferito il contenuto dell’esposto. La Cassazione ha annullato senza rinvio la decisione della Corte d’Appello di Firenze.


 


Il corretto esercizio del diritto di cronaca comporta il rispetto del dovere di completezza dell’informazione. Nel riferire i risultati di un’indagine vanno menzionati anche gli elementi favorevoli all’indagato (Cassazione, sezione terza civile, n. 6877 del 22 maggio 2000, Pres. Duva, Rel. Favara).


 


La pubblicazione della notizia di un esposto all’autorità giudiziaria può costituire diffamazione se il giornalista non dimostra di aver eseguito adeguati controlli sulla verità dei fatti denunciati. (Cassazione, sezione terza civile, n. 2367 del 3 marzo 2000, Pres. Duva, Rel. Sabatini).


 


Un’informativa della Guardia di Finanza all’autorità giudiziaria non costituisce fonte qualificata, tale da esimere il giornalista dal controllo sulla veridicità dei fatti riferiti, mentre un comunicato stampa costituisce fonte attendibile (Tribunale di Roma, sezione prima civile, n. 501 del 13 gennaio 2000).


 


Il privato cittadino è legittimato a chiedere il risarcimento del danno eventualmente derivatogli dal reato di rivelazione del segreto d’ufficio, anche se soggetto offeso dal reato è la pubblica amministrazione. (Cassazione, sezione terza civile, n. 4040 del 23 aprile 1999, Pres. Iannotta, Rel. Segreto).


 


La verità del fatto deve essere apprezzata, nella serietà della prospettazione e ai fini dell'accertamento del dolo e dell'esimente, con riferimento al momento in cui viene posto in essere l'atto diffamatorio e alle circostanze e ai comportamenti che, in quel tempo, fanno ritenere fondata la propalazione. In tema di diffamazione, l'esercizio di un diritto scrimina se il fatto offensivo è vero. Quando viene attribuito un reato, ciò che scrimina non è soltanto la verità dell'incolpazione, sub specie di "nome iuris" del fatto, ma anche la verità del solo dato oggettivo che è rappresentativo, di per sè, secondo la diligenza dell'uomo medio, del corrispondente reato. La verità del fatto, in tal senso inteso, deve essere apprezzata, nella serietà della prospettazione e ai fini dell'accertamento del dolo e dell'esimente, con riferimento al momento in cui viene posto in essere l'atto diffamatorio e alle circostanze e ai comportamenti che, in quel tempo, fanno ritenere fondata la propalazione. Il "post factum", in quanto estraneo alla verità del momento, ed il successivo accertamento giudiziale dell'infondatezza dell'accusa, basata suelementi non conosciuti o non conoscibili al tempo della propalazione, non possono avere incidenza giuridica per escludere la causa di giustificazione. Tuttavia, poichè la norma incrimina anche la propalazione di fatti veri, l'esimente postula il limite della continenza onde evitare che l'esercizio del diritto si risolva in un pretesto e in uno strumento illecito di aggressione all'altrui reputazione. La continenza, quindi, ha una duplice prospettazione, soggettiva e oggettiva, formale e sostanziale, in quanto desumibile da due elementi essenziali, sintomatici di serenità, misura e proporzione. (In motivazione la Corte ha chiarito che se è vero che la configurabilità del delitto prescinde dall'"animus diffamandi", essendo il reato punibile a titolo di dolo generico, è anche vero che il "dolus bonus", quale l'"animus defendendi", può essere sintomatico di una posizione psicologica inconciliabile con la coscienza di ledere e mettere in pericolo il bene protetto). (Cass. pen. Sez.V 23-02-1998, n. 5767, Saturni; FONTICED Cassazione, 1998).


 


Il cronista ha diritto di riferire il fatto che circoli una determinata notizia, anche se lesiva della reputazione altrui.  Egli deve, però, indicarne contestualmente la fonte (Cassazione Sezione Terza Civile n. 12196 del 2 ottobre 2001, Pres. Grossi, Rel. Segreto). Il diritto di cronaca può essere legittimamente esercitato anche informando il pubblico della circostanza che siano state diffuse notizie lesive della reputazione di un soggetto. In questo caso, ai fini dell’applicazione della esimente del diritto di cronaca non è necessaria la prova della verità dei fatti oggetto delle notizie diffuse, ma soltanto la prova della diffusione di tali notizie. La notizia in sé, allorché essa è di pubblico dominio, costituisce un fatto che il cronista può riferire. Il giornalista tuttavia deve, nell’informare il lettore, dare atto che si tratta non di notizia relativa ad un fatto accertato, ma che l’unico fatto storico riscontrato è che una determinata notizia circola liberamente; egli ha inoltre il dovere di riferirne anche le fonti di propalazione, per mettere il pubblico in grado di percepire immediatamente che l’unico fatto riscontrato è la pubblica notizia e non il suo contenuto. Se tanto non avviene contestualmente, non vi è "verità storica" in quanto si è dato per vero al destinatario (ossia al lettore) il contenuto di una notizia, mentre era vera solo la circostanza della sua diffusione.


 


Nell’esercizio del diritto di critica si deve rispettare la verità dei fatti senza introdurre elementi aggiuntivi e controllando la fonte d’informazione (Cassazione Sezione Quinta Penale n. 1183 del 14 gennaio 2002, Pres. Marrone, Rel. Sica). Il diritto di critica, aspetto essenziale del più ampio diritto di libertà di manifestazione del pensiero garantito dalla Costituzione, può giustificare la pubblicazione di notizie lesive della reputazione di un cittadino, quando viene esercitato nei limiti della verità del fatto narrato, dell'interesse pubblico alla sua conoscenza (pertinenza) e della correttezza (continenza) con cui il fatto viene riferito. Occorre in particolare che l'esercizio del diritto corrisponda alla verità obiettiva dei fatti riferiti, con particolare riferimento alla fonte e all'attualità del riferimento storico e che tale verità non abbia subito immutazioni, alterazioni o modificazioni dei dati che ne costituiscono la sostanza, in maniera tale da rappresentarli come sostanzialmente diversi. L'autore non deve introdurre elementi aggiuntivi e deve esaminare, verificare e controllare, in termini di adeguata serietà professionale, la consistenza della relativa fonte di informazione.


 


In tema di azione di risarcimento dei danni da diffamazione a mezzo della stampa, la ricostruzione storica dei fatti, la valutazione del contenuto degli scritti, la valutazione di circostanze oggetto di altri provvedimenti giudiziali anche non costituenti cosa giudicata, l'apprezzamento in concreto delle espressioni usate come lesive dell'altrui reputazione, l'esclusione della esimente dell'esercizio del diritto di cronaca e di critica costituiscono accertamenti in fatto, riservati al giudice di merito ed insindacabili in sede di legittimità se sorretti da argomentata motivazione, esente da vizi logici ed errori di diritto. (Cass. civ. Sez.III 01-08-2002, n. 11420; Derlindati c. Zanichelli; FONTI Mass. Giur. It., 2002; Arch. Civ., 2003, 694).


 


Sentenza del Tribunale di Monza (25 marzo 1994, in Foro it., 1994, II, 717): “Non trova applicazione la scriminante dell’esercizio del diritto di critica nel caso in cui oggetto della pubblicazione siano fatti non veritieri”.


 


Sentenza del Tribunale di Roma (10 febbraio 1993, in Foro it., 1994, I, 1237): “L’uso di un linguaggio astrattamente insultante non lede il diritto alla reputazione se funzionalmente connesso con il giudizio critico manifestato, riconducibile al legittimo esercizio del diritto di critica politica”.


 


Il diritto di critica deve essere corretto nell’espressione. In tema di diffamazione a mezzo stampa il diritto di critica si differenzia da quello di cronaca essenzialmente in quanto il primo non si concretizza, come l'altro, nella narrazione di fatti, bensì nella espressione di un giudizio o, più genericamente, di una opinione che, come tale, non può pretendersi rigorosamente obiettiva, posto che la critica, per sua natura, non può che essere fondata su una interpretazione, necessariamente soggettiva, di fatti e comportamenti; ne consegue che l’esercizio di tale diritto non può trovare altro limite che non sia quello dell'interesse pubblico e sociale della critica stessa, in relazione all’idoneità delle persone e dei comportamenti criticati a richiamare su di sé una comprensibile e oggettivamente apprezzabile attenzione dell’opinione pubblica” (Cass. pen., sez. V, 16 aprile 1993; Riviste: Mass. Cass. Pen., 1993, fasc. 9, 100, solo massima).


 


Il  diritto  di  critica  giornalistica,  che  rientra  tra i diritti pubblici  soggettivi  inerenti  alla libertà di pensiero e di stampa, deve consistere in un dissenso motivato, espresso in termini corretti e  misurati  e  non  deve assumere toni gravemente lesivi dell'altrui dignità  morale  e  professionale.  Il  limite  all'esercizio di tale diritto   deve  intendersi  superato  quando  l'agente  trascenda  in attacchi  personali diretti a colpire, su un piano individuale, senza alcuna  finalità di pubblico interesse, la figura morale del soggetto criticato,  giacchè  in  tal caso, l'esercizio del diritto, lungi dal rimanere  nell'ambito di una critica misurata ed obiettiva, trascende nel  campo  dell'aggressione  alla  sfera  morale  altrui, penalmente protetta (Cass. pen., sez. V, 11 marzo 1998; Parti in causa Iannuzzi; Riviste Giust. Pen., 1999, II, 183).


 


La Cassazione penale (sez. V, 24 novembre 1993, in Giust. pen., 1994, II, 496; Mass. pen. cass., 1994, fasc. 4,90) ha scritto: “Il diritto di critica si differenzia da quello di cronaca in quanto non si concreta nella narrazione di fatti, ma nell’espressione di un giudizio o di un’opinione che, come tale, non può essere rigorosamente obiettiva. Ove il giudice pervenga, attraverso l’esame globale del contenuto espositivo, a qualificare quest’ultimo come prevalentemente valutativo, anziché  informativo, i limiti dell’esimente sono quelli costituiti dalla rilevanza sociale dell’argomento e dalla correttezza di espressione”.


 


I1 diritto alla "identità personale", cioè il diritto di ciascuno di "essere se stesso" e di essere quindi tutelato dall’attribuzione di connotazioni estranee alla propria personalità, suscettibili di determinare la trasfigurazione o il travisamento di quest'ultima, non può implicare la pretesa di una costante corrispondenza tra la narrazione di fatti riferiti ad una determinata persona e 1'idea che la medesima ha del  proprio io, giacché, altrimenti, verrebbe automaticamente preclusa ogni possibilità di esercizio del legittimo diritto di critica. (Cass. pen., sez. V, 16 aprile 1993; Riviste. Mass. pen. cass., 1993, fasc. 9, 101).


 


Don Abbondio” in tribunale. La valenza diffamatoria di una espressione ha carattere relativo, essendo l'onore e la reputazione stessi valori relativi, influenzabili dall'appartenenza del soggetto passivo ad un determinato gruppo sociale, culturale o professionale. Un attentato alla sfera della reputazione soggettiva, effettuato con uno scritto giornalistico, per essere scriminato dalla ricorrenza del diritto di cronaca o critica deve presentare i caratteri dell'interesse sociale alla conoscenza della notizia, della verità dei fatti e della continenza formale in sede espositiva, intesa alla stregua di correttezza del linguaggio. Travalica i limiti della continenza formale, con la conseguente inapplicabilità della scriminante in oggetto, l'attribuzione, in un articolo giornalistico, della patente di pavidità alla persona di un magistrato impegnato in processi di lotta alla mafia, tramite l'accostamento alla figura manzoniana di Don Abbondio, avendo un significato offensivo, lesivo della considerazione che un giudice deve avere nell'ambiente professionale e nel corpo sociale, che va oltre il diritto di critica, particolarmente esercitabile nell'ambito giudiziario con la manifestazione di fisiologico dissenso rispetto a determinazioni discrezionali dei magistrati, senza degenerare nel mero insulto di cui possa cogliersi solo l'aspetto dispregiativo. E' peraltro configurabile l'applicabilità delle attenuanti dei motivi di particolare valore sociale o morale nel caso in cui l'espressione anzidetta sia stata dettata da ribellione morale di fronte alle disfunzioni giudiziarie ed alla volontà di fornire un contributo alla lotta alla criminalità organizzata attraverso la sensibilizzazione dell'opinione pubblica e degli stessi organi giudiziari competenti. Trib. Milano, 17 dicembre 1995, Cavallaro, in Riv. Pen., 1996, 350


 


Lo scritto anonimo. In tema di diffamazione a mezzo stampa non è invocabile il diritto di cronaca quando la notizia è stata data attraverso uno scritto anonimo, come tale insuscettibile di controlli circa l'attendibilità della fonte e la veridicità della notizia stessa, né tale notizia può ritenersi controllata per il solo fatto che sia stata eventualmente aperta un'inchiesta giudiziaria sui fatti pubblicati.  Cass. pen., sez. V, 5 marzo 1992, Mastroianni, in Giur. It., 1992, II, 618


 


Due massime tratte dalla stessa sentenza della Cassazione penale, sez. I, 12 gennaio 1996 n. 2210:


1) “In tema di reato di diffamazione a mezzo stampa, l’attribuzione a taluno, in termini di certezza, di un fatto che è invece rimasto non accertato, non perde il connotato della illiceità sol perché sia inserita all'interno di una determinata analisi sociopolitica: ed invero, costituisce causa di giustificazione soltanto la critica che rispetti la verità dei fatti e non anche quella che si sviluppi attraverso l'arbitrario inserimento di circostanze non vere, dato che, in questo caso, la critica diviene un mero pretesto per offendere l'altrui reputazione. (Nella fattispecie, l’imputato, in un articolo giornalistico - in cui aveva inteso tracciare un'analisi sociopolitica del fenomeno eversivo - aveva rappresentato il contributo offerto da una persona a gravissimi fatti oggetto di un procedimento penale, indicando anche gli atti attraverso i quali si sarebbe concretizzato il detto contributo, ed omettendo di riferire che tali circostanze non erano state ritenute certe all'esito del procedimento conclusosi con sentenza passata in giudicato. La S.C. ha ritenuto la sussistenza del reato di diffamazione a mezzo stampa ed ha enunciato il principio di cui in massima”.


2) “Il diritto di critica, al pari del diritto di cronaca, incontra un limite invalicabile nel rispetto della verità oggettiva sui presupposti storici della valutazione, se vuole assumere le dimensioni e gli effetti di una causa esimente della responsabilità penale. Ciò che fa venire meno l'illiceità della condotta diffamatoria non è il diritto di critica in quanto tale, ma soltanto quella critica che rispetti la verità dei fatti dai quali trae occasione e forza per manifestarsi, con la precisazione che viceversa, allorquando la critica si sviluppa su episodi non veri, o rievocati attraverso l'arbitrario inserimento di circostanze qualificanti non vere, essa diviene un mero pretesto per offendere l'altrui reputazione”.


 


La buona fede del giornalista e l’esimente della verità putativa. Nel   campo  degli  illeciti  a  mezzo  stampa,  la  buona  fede  del giornalista,   necessaria   ad   integrare  l'esimente  della  verità putativa,   richiede  non  solo  la  verosimiglianza  della  notizia, oggettivamente   falsa,   ma   anche  il  controllo  della  fonte  di provenienza  e della sua attendibilità; accertamento - quest'ultimo - che il giornalista, agli effetti dell'esimente in questione, non deve mai  omettere, neppure per il convincimento, proprio o della pubblica opinione,   della   verità  della  notizia  o  per  l'esigenza  della speditezza  dell'informazione.  La  buona  fede  del giornalista deve essere,  tuttavia,  esclusa  allorquando, nel controllo della notizia (doveroso  anche  ai sensi del comma 1 dell'art. 2 l. 3 febbraio 1963 n.   69,  sul  relativo  ordinamento  professionale,  che  impone  al giornalista   l'obbligo   inderogabile   di   rispettare   la  verità sostanziale  dei  fatti,  nonchè  i  doveri  di lealtà e buona fede), egli  abbia  agito  con  negligenza  (ovvero imperizia o imprudenza). L'indagine   a   ciò  relativa  comporta  accertamenti  di  fatto  e, pertanto,  è  rimessa al giudice di merito ed è incensurabile in sede di  legittimità, se adeguatamente motivata ed immune da vizi logici e giuridici (Cass. civ., sez. III, 20 agosto 1997, n. 7747; Parti in causa Gibilisco c. Soc. Terme di Crodo; Riviste Mass., 1997; Rif. ai codici CC art. 2043).


 


La verità putativa, prevista come ulteriore presupposto della legittimità del diritto di cronaca, opera in tutti i casi in cui la ricostruzione della vicenda narrata si discosti parzialmente dalle risultanze delle indagini investigative senza tuttavia mutare la sostanza dei fatti emersi; deve comunque escludersi sussista un esso di causalità tra i danni lamentati dal presunto diffamato - indubbiamente conseguenti al fatto di essere stato imputato, arrestato e rinviato a giudizio per un reato infamante e di aver visto la propria vicenda giudiziaria legittimamente riportata da numerose testate giornalistiche - e la circostanza che la stampa ed altri mezzi di informazione invece di parlare del rinvenimento di documentazione compromettente abbiano riferito del rinvenimento di denaro contante e bot. Cass., sez. III, 16 settembre 1996, n. 8284, Vittoria c. Soc. ed. Esedra, in Resp. civ., 1997, 453


 


Diritto di cronaca e personaggi pubblici. Chi ha scelto la notorietà come dimensione esistenziale del proprio agire, si  presume abbia rinunciato a quella parte del proprio diritto alla riservatezza direttamente correlata alla sua dimensione pubblica. (Tribunale di Roma, 13 febbraio 1992, in Dir. Famiglia, 1994, I, 170, n. Dogliotti, Weiss).


 


Esiste un diritto all’oblio. La ripubblicazione dopo circa 30 anni di un fatto di cronaca nera a fini promozionali costituisce diffamazione a mezzo stampa e  obbliga la società editrice al risarcimento del danno morale trattandosi di informazione priva di pubblico interesse e pertanto inidonea a integrare gli estremi del legittimo esercizio del diritto di cronaca. (Tribunale di Roma , sentenza 15 maggio 1995, pubblicata in “Il diritto dell’informatica e dell’informazione”, n. 3 maggio-giugno 1996, pag. 422)


 


La riproduzione di vicende attinenti alla vita privata del condannato è  suscettibile  di  produrre  un danno ingiusto al diritto all'oblio dei  familiari  in  difetto  di  un  interesse  pubblico attuale alla conoscenza di tali vicende. (Trib. Roma, 20 novembre 1996: Parti in causa: Vulcano e altro c. Rai-Tv e altro; Riviste: Dir. Informazione e Informatica, 1997, 335; Dir. Autore, 1997, 373, n. Savini).


 


Pur   se  la  rappresentazione  (televisiva),  dopo  oltre  vent'anni dall'accaduto,  di  un  grave  e  clamoroso  fatto  di  cronaca  nera giudiziaria  per  porlo  alla  riflessione  del  pubblico costituisce legittimo  esercizio  della  libertà  di manifestazione del pensiero, del  diritto  di  cronaca e dello "jus narrandi", nell'osservanza dei limiti  di  verità  e  continenza,  la  riproduzione  (televisiva) di vicende  attinenti  alla  vita  privata  del condannato può ledere il c.d.  diritto  all'oblio  dei  familiari, qualora manchi un interesse pubblico  attuale a conoscere le vicende stesse, sì da legittimare il ricorso ex art. 700  Cpc (Trib. Roma, 21 novembre 1996; Parti in causa  M.G. c. Rai-Tv e altro; Riviste; Dir. Famiglia, 1999, 141, n. CASSANO; Rif. ai codici: COST art. 2, COST art. 3, COST art. 13, COST art. 14, COST art. 15, COST art. 21, COST art. 24; Cpc  art. 700; CC art. 7, CC art. 8, CC art. 10; Rif. legislativi: L 22 aprile 1941 n. 633, art. 93; L 22 aprile 1941 n. 633, art. 94; L 22 aprile 1941 n. 633, art. 95; L 22 aprile 1941 n. 633, art. 96; L 22 aprile 1941 n. 633, art. 97; L 4 agosto 1955 n. 848, art. 8; DLT 6 settembre 1989 n. 322; L 8 giugno 1990 n. 142; L 7 agosto 1990 n. 241, art. 24).


 


Il diritto di cronaca può poi  risultare  limitato  dall'esigenza dell'attualità della notizia, quale  manifestazione  del  diritto  alla  riservatezza, intesa quale giusto  interesse  di  ogni  persona a non restare indeterminatamente esposta  ai  danni  ulteriori  che  arreca  al  suo  onore e alla sua reputazione  la  reiterata  pubblicazione  di  una notizia in passato legittimamente  divulgata, salvo che per eventi sopravvenuti il fatto precedente   ritorni  di  attualità  e  rinasca  un  nuovo  interesse pubblico all'informazione (Cass. civ., 9 aprile 1998, n. 3679, Fracassi e altro c. Rendo, in Foro It., 1998, I, 1834, n. Laghezza)


 


Le liste dei pedofili in prima pagina sui quotidiani? Un monito viene dall'Ufficio del Garante per la privacy: rischiano di far danno agli stessi minori coinvolti nelle diverse situazioni. Esiste un "diritto all'oblio" di tutte le persone che hanno vissuto un episodio o una situazione di violenza sessuale. Inoltre, sempre secondo l'Ufficio del Garante, la diffusione indiscriminata di dati non trova fondamento nel nostro ordinamento giuridico. Questo il comunicato dell’Ufficio del Garante: “Con riferimento a recenti iniziative di pubblicazione di liste di soggetti responsabili di gravi atti di violenza in danno di minori, il collegio del Garante fa notare che la diffusione indiscriminata di dati in materia, non trova fondamento nel vigente ordinamento giuridico. Tali iniziative, a prescindere dalla loro effettiva efficacia sul piano delle prevenzione, e della circostanza che i dati possano essere desunti anche da fonti accessibili quali pronuncie giudiziarie, sono suscettibili di valutazione critica e di contenzioso, potendo, a seconda dei casi, determinare danni anche agli stessi minori indirettamente identificabili, o comportare responsabilità per inesattezze dei dati, oppure per giudizi indifferenziati su situazioni in realtà difformi o per lesione del diritto all'oblio di tutte le persone interessate rispetto a fatti assai risalenti nel tempo” (pronuncia 23 agosto 2000).


 


La ricostruzione delle vicende a distanza di tempo.  In materia di diffamazione a mezzo della stampa, al giornalista che intenda dar conto di una vicenda la quale implichi risvolti giudiziari a distanza di tempo dall'epoca di acquisizione della notizia, incombe l'obbligo stringente, in ragione del naturale e niente affatto prevedibile percorso processuale della vicenda, di completare e quindi "aggiornare" la verifica di fondatezza della notizia nel momento diffusivo, utilizzando le pregresse fonti informative, o qualunque altra idonea disponibile. Sotto tal profilo, ogni individuo coinvolto in indagini di natura penale, è titolare di un interesse primario a che, caduta ogni ragione di "sospetto", la propria immagine non resti offesa da notizie di stampa che riferiscano dell'iniziale coinvolgimento ed ignorino, invece, l'esito positivo delle indagini stesse (Cass. pen., sez. V, sent. n. 5356 del 27 aprile 1999).


 


Il giornalista deve  accertare la verità come lo storico. L’esercizio del diritto di informazione garantito nel nostro ordinamento deve, ove leda l’altrui reputazione, sopportare i limiti seguenti: a) l’interesse che i fatti narrati rivestano per l’opinione pubblica, secondo il principio della pertinenza; b) la correttezza dell’esposizione di tali fatti in modo che siano evitate gratuite aggressioni all’altrui reputazione, secondo il principio della continenza; c) la corrispondenza rigorosa tra  i fatti accaduti e i fatti narrati, secondo il principio della verità: quest’ultimo comporta l’obbligo del giornalista (come quello dello storico) dell’accertamento della verità della notizia e il controllo dell’attendibilità della fonte. (Cass. pen., 5 maggio 1997, n. 2113 in Rivista penale n. 10/1997, pag. 973)


 


Finanza e informazioneIl comportamento addebitato ai diversi incolpati consiste nel manteni­mento di un rapporto di conto corrente, direttamente o attraverso l'inter­posta persona di un convivente, con una commissionaria, la quale ha ese­guito per conto dei diversi giornalisti correntisti operazioni speculative su titoli quotati. A giudizio della Corte il comportamento in questione è effet­tivamente incompatibile con l'esercizio del giornalismo economico, e quindi sanzionabile sul piano disciplinare. È necessario a questo proposito tener conto della speciale relazione intercorrente tra finanza e informazione: è fatto notorio che (...) l'informazione finanziaria è fatta di “self‑fulfilling ex­pectations ”, vale a dire di affermazioni che si autodimostrano o di valutazioni autonomamente idonee a provocare nel breve termine il proprio av­veramento. Ciò non significa che una informazione finanziaria obiettiva sia impossibile, ma impone ai giornalisti che operano in questo settore regole deontologiche rigorose. Il pubblico dei lettori non può riporre la propria fiducia nell’informazione giornalistica, se abbia motivo di crederla influen­zata dagli interessi economici personali di coloro che la danno: la scoperta che il giornalista specializzato nell'informazione sui mercati finanziari compie operazioni specula­tive a breve termine in Borsa, sia pure su titoli diversi da quelli commentati, induce nel lettore il dubbio sul carattere disinteressato dell’informazione e mina la credibilità dell'autore di questa. Coerente con questa impostazione è stata l'incolpazione contestata dal Consiglio regionale su richiesta dal Procuratore generale: essa, in­fatti, non faceva riferimento solo all'obbligo del rispetto della verità sostanziale dei fatti con l'osservanza dei doveri di lealtà e di buona fede, ma ag­giungeva che il comportamento del giornalista "oltre ad essere, deve anche apparire conforme a tale regola, perché su di essa si fonda il rapporto di fiducia tra i lettori e la stampa" (App. Milano, 18 luglio 1996, n. 2179; parti: Pg  c. Cnog; estensore Aldo Ceccherini; riviste: Tabloid, set-ot 1996).


 


Può diffamare soltanto il  titolo di un articolo. In tema di diffamazione a mezzo stampa, nel caso in cui l'ar­ticolo pubblicato non abbia di per sé un contenuto diffamatorio, ma sia il complesso dell'informazione, per le modalità di presenta­zione e, soprattutto, per i titoli che l'accompagnano, ad attribuire alla informazione un contenuto offensivo dell'altrui reputazione, del fatto lesivo non può essere chiamato a rispondere l'autore dell'articolo quando questi si sia limitato ‑ come di regola ‑ a fornirne il testo alla redazione del giornale, la quale abbia provveduto alla pubblicazione stabilendone essa, come appunto avviene di norma, e cioè la collocazione in una determinata pagina, il risalto da dare alla notizia, la formulazione di titoli e sottotitoli ed ogni altro par­ticolare. (Nella specie, in cui il querelante si doleva del contenuto diffamatorio del titolo e non anche dell'articolo, la Cassazione ha accolto la tesi del ricorrente, autore dell'articolo, che sosteneva che il fatto lesivo non fosse a lui addebitabile in quanto il titolo non era opera sua essendo la stesura della stesso affidata ad una speciale équipe all'interno del giornale). (Cass. pen., sez. V, 12 febbraio 1992, n. 1478).


 


Quando l’esimente del diritto di cronaca “salva” il cronista intervistatore La Cassazione a sezione unite da un lato esclude l’esistenza di una generalizzata "esimente da intervista" (la riproduzione "alla lettera" di dichiarazioni diffamatorie resa dal soggetto intervistato non integra di per sé la scriminante del diritto di cronaca) e dall’altro  ammette la scriminante del diritto di cronaca, quando il “fatto in sé dell’intervista, in relazione alla qualità dei soggetti coinvolti (ad esempio rilevanti cariche pubbliche ricoperte dai soggetti coinvolti nella vicenda o loro indiscussa notorietà in un determinato ambiente), alla materia in discussione ed al più generale contesto dell’intervista, presenti profili di interesse pubblico all’informazione, tali da escludere la possibilità di censura da parte dell’intervistatore e da prevalere sulla posizione soggettiva del singolo” (Cass., sez. un., 30 maggio 2001, Galiero). Questa linea affiora nelle sentenze più recenti della suprema Corte.


 


Il giornalista che abbia riportato alla lettera dichiarazioni dell'intervistato oggettivamente diffamatorie è scriminato dal diritto di cronaca solamente quando vi sia un interesse pubblico alla conoscenza di tali dichiarazioni. (Cass. pen. sez. I 08-04-2003, n. 27778, Di Vincenzo, FONTI Massima redazionale, 2003).


 


In tema di diffamazione commessa con il mezzo della stampa, l’esimente del diritto di cronaca, quale scriminante a favore del giornalista che pubblichi un’intervista ritenuta offensiva della reputazione altrui, implica due condizioni interdipendenti: a) la notizia deve consistere nel fatto stesso delle dichiarazioni dell’intervistato, fedelmente riferite, senza che possano essere, sul piano generale, in alcuna misura influenzate dall’intervistatore e, sul piano funzionale, strumentali a un’opinione del giornalista che le divulga; b) l’interesse sociale alla notizia deve concernere la particolare qualificazione dell’intervistato nel riferire fatti a sua conoscenza, o nel manifestare la propria opinione, in misura da giustificare l’esonero del giornalista dal controllo di veridicità o dalla censura delle espressioni incontinenti. (Cass., 27.05.2002, n. 20607, Sannino)


 


In tema di diffamazione commessa con il mezzo della stampa, l’aver riportato fedelmente nel testo dell’intervista le dichiarazioni del soggetto intervistato, ove esse abbiano contenuto oggettivamente diffamatorio, non integra per ciò stesso, per il giornalista, l’applicazione della scriminante del diritto di cronaca. Infatti, il giornalista che assuma comunque una posizione imparziale, può essere scriminato solo quando il fatto in sé dell’intervista, in relazione alla qualità dei soggetti coinvolti, alla materia in discussione e al più generale contesto dell’intervista, presenti profili di interesse pubblico all’informazione, tali da prevalere sulla posizione soggettiva del singolo (Cass., 23.10.2001, n. 37910, Lombardini)


 


In materia di diffamazione a mezzo della stampa, la pubblicazione anche fedele delle dichiarazioni di terzi, lesive dell'altrui reputazione, costituisce veicolo tipico di diffusione delle stesse. Il giornalista, pertanto, partecipa alla diffamazione con il proprio contributo causale e ne risponde secondo lo schema del concorso di persone nel reato, ove il fatto non sia giustificato dallo "ius narrandi" collegato al limite della verità della notizia, che egli ha il dovere di controllare, per evitare che la stampa diventi "cassa di risonanza" delle contumelie e delle malevoli critiche di terzi (Cass. pen., sez. V, sent. n. 5313 del 26 aprile 1999).


 


La pubblicazione anche fedele delle dichiarazioni di terzi, che siano lesive della reputazione altrui, costituisce veicolo tipico di diffusione della diffamazione. A questa il giornalista partecipa con apporto causale predominante e ne risponde, entro lo schema del concorso di persone nel reato, qualora il fatto non sia giustificato dall'esercizio dello "ius narrandi", collegato al limite della verità della notizia, che egli ha il dovere giuridico di controllare, per evitare che la stampa, deviando dalla sua retta funzione informatrice, si trasformi in "cassa di risonanza" delle offese della reputazione. Né ha rilievo che il giornalista non sia d'accordo con le opinioni manifestate dall'intervistato, essendo all'uopo sufficiente la volontaria diffusione della dichiarazione diffamatoria (Cass. pen., sez. V, sent. n. 480 del 19 gennaio 1984).


 


Il giornalista intervistatore punibile in caso di “affermazioni false” e “valutazioni offensive” dell’intervistato. “Nel  delitto  di  diffamazione  a  mezzo  stampa,  realizzato  con la pubblicazione  di  un'intervista, è configurabile l'esimente putativa dell'esercizio  del  diritto di cronaca nei confronti del giornalista tutte  le volte in cui la notizia è costituita non solo, e non tanto, dal  contenuto  delle  dichiarazioni  (di  pubblico  interesse)  rese dall'intervistato,  quanto  dalla  qualità di questi, idonea a creare particolare  affidamento  sulla veridicità delle sue affermazioni, sì che  l'eventuale  omessa  pubblicazione dell'intervista finirebbe per risolversi  in una forma di censura. Ma la scriminante dell'esercizio del  diritto  di  cronaca  non  è  invocabile  quando le affermazioni dell'intervistato  sono palesemente false o, comunque, il giornalista non  le  abbia  in  alcun  modo  controllate. Nè a maggior ragione la scriminante  è  invocabile  quando l'intervistato esprima valutazioni critiche  gratuitamente  offensive, perché in questo caso l'illiceità delle   dichiarazioni   riferite   è  immediatamente  rilevabile  dal giornalista,   senza   neppure   l'esigenza   di  indagini  intese  a verificarne la corrispondenza ai fatti” (Cass. pen., sez. V, 16 dicembre 1998, n. 935; Riviste: Riv. Pen., 1999, 262; Giust. Pen., 1999, II, 455; Dir. Pen. e Processo, 1999, 966, n. Sutera Sardo; Rif. ai codici: CP art. 51, CP art. 59, CP art. 593). Su questa linea si muove la sentenza n. 7498/2000  della Cassazione penale: “Va respinta l'erronea affermazione del ricorrente in ordine all'esistenza di un "dovere" del giornalista di riportare fedelmente le dichiarazioni rese da un soggetto pubblico, anche se le stesse integrino gli estremi della  contumelia "proprio perché è in queste stesse dichiarazioni ... che risiede l'interesse sociale". Al contrario, l'interesse pubblico alla conoscenza e alla divulgazione della notizia, coinvolge la necessità per la collettività di avere notizie in ordine a temi relativi alla politica, all'economia, alle scienze, ai fenomeni criminali e alla giustizia e, cioè, a tutte quelle situazioni che possono influire sulla corretta formazione della pubblica  opinione.  A tale concetto di interesse pubblico, sono, invece, estranee quelle "notizie" distolte dal fine nobile della formazione della pubblica opinione e volte, al contrario, a soddisfare - attraverso la violazione della sfera morale dei singoli - la curiosità del pubblico anche con il riferire fatti costituenti chiaro pettegolezzo ed offese e, in ogni caso, inutili, in quanto non pertinenti alla notizia”.


 


L’intervista a un parlamentare che richiama un’interrogazione con “notizie non vere”. Non costituisce esercizio del diritto di cronaca, e pertanto comporta responsabilità dell'editore e del giornalista per lesione del diritto all'onore e alla reputazione, la pubblicazione (accompagnata da un titolo e da una fotografia aventi autonomo effetto lesivo) di un'intervista a un parlamentare che, riportandosi a una sua interrogazione parlamentare, abbia riferito notizie non vere (Cass. civ., sez. I, 5 maggio 1995, n. 4871). Le interpellanze e le interrogazioni parlamentari, pur non concretando, in senso stretto, voti né opinioni espressi nell'esercizio delle funzioni parlamentari, costituiscono atti tipici del singolo parlamentare, riconosciuti dal diritto costituzionale ed espressamente previsti nei regolamenti delle camere, sicché, anche in relazione ad essi, i membri del parlamento non possono essere perseguiti per il loro eventuale contenuto diffamatorio. La ricorrenza di tale specifica esimente non tocca l'oggettiva illiceità dell'atto; con la conseguenza che sussiste la responsabilità civile dei terzi estranei che abbiano concorso con il parlamentare nel diffondere, a mezzo della stampa, il contenuto degli indicati atti che sia lesivo dell'altrui reputazione. (Nella specie, società editrice e giornalista di periodico riproducente un'intervista ad un parlamentare di contenuto sostanzialmente coincidente ad un'interrogazione parlamentare dallo stesso presentata) (Cass. civ., sez. I, 5 maggio 1995, n. 4871).


 


Non è punibile il giornalista che dia notizia di un’interrogazione parlamentare avente portata diffamatoria purché ne riferisca in modo asettico (Cassazione Sezione Terza Civile n. 15999 del 19 dicembre 2001, Pres. Lupo, Rel. Lucentini). L’interrogazione parlamentare, secondo la definizione contenuta nell’art. 128 co. 2 del regolamento della Camera del 1971 (e nel non dissimile art. 145 del regolamento del Senato), "consiste nella semplice domanda, rivolta per iscritto, se un fatto sia vero, se alcuna informazione sia giunta al Governo o sia esatta, se il Governo intenda comunicare alla Camera documenti o notizie, o abbia preso o stia per prendere alcun provvedimento su un oggetto determinato".


Trattasi dunque di un atto - "ispettivo", secondo la dottrina costituzionalista – la cui ratio è da rinvenire, come per lo più si ritiene, nel potere del Parlamento di conoscere, attraverso l’iniziativa del singolo parlamentare – e nel correlativo obbligo degli organi di Governo di rispondere (sia pure nella formula del non poter rispondere) – determinati fatti, ai fini (tendenziali) di tutela dell’interesse alla conservazione della normalità democratica nell’organizzazione del potere pubblico e all’efficienza della gestione pubblica.


Essendo allora innegabile la rilevanza, nell’ordinamento pubblico, di un potere di tale genere, impedire al giornalista la pubblicazione di un’interrogazione significherebbe imporgli il silenzio su di un fatto che, in quanto espressione di quel potere, non può non essere (ovvero è in re ipsa) d’interesse generale.


Per altro verso, i regolamenti parlamentari prevedono che le interrogazioni, una volta superato il vaglio di ammissibilità ad opera del Presidente della Camera o del Senato, e da esso annunciate in aula, siano pubblicate nei Resoconti sommari e nei Resoconti stenografici. E pertanto sarebbe assolutamente paradossale che la pubblicazione di un’interrogazione, perfettamente legittima se compiuta in ambito parlamentare, tale più non sia al di fuori di esso, ossia in ambito giornalistico: quasi che i valori, alla cui tutela è rivolta l’interrogazione, appartengano al solo parlamento, e non a tutti e ad ognuno.


Per tali essenziali considerazioni deve quindi ritenersi che costituisce legittima espressione del diritto di cronaca, quale esimente della responsabilità per danni, la pubblicazione di un’interrogazione parlamentare il cui contenuto sia diffamatorio: nel quale caso il requisito della verità del fatto, è da intendere rispettato solo se corrisponda al vero la riproduzione del testo dell’interrogazione medesima, integralmente o per riassunto, priva essendo di rilievo, agli stessi fini, l’eventuale falsità del suo contenuto (che il giornalista non ha il dovere di verificare).


Naturalmente, in coerenza con le premesse poste, la legittimità del diritto di cronaca in tale modo esercitato presuppone che il giornalista riproduca l’interrogazione parlamentare "asetticamente", ossia in forma impersonale ed oggettiva, a modo di "semplice testimone". Ché se invece, abbandonando la posizione di imparziale narratore del fatto-interrogazione, dimostri, con commenti o altro, di approvare o di aderire, comunque, al suo contenuto diffamatorio, non potrà che farsi applicazione della regola generale che presiede all’esercizio del diritto di cronaca: nel senso che il giornalista dovrà provare, per andare esente da responsabilità, la verità intrinseca del fatto riferito, l’interesse pubblico alla sua conoscenza, la correttezza formale dell’esposizione.


 


L’interesse generale all’informazione sugli avvenimenti politici comprime la tutela della reputazione e può legittimare la critica di un fatto ancora da verificarsi, ma probabile, nell’interesse della collettività (Cassazione Sezione Quinta Penale n. 31037 del 9 agosto 2001, Pres. Casini, Rel. Occhionero). L’autore di una diffamazione con il mezzo della stampa non è punibile se ha agito nell’esercizio del diritto di cronaca e di critica, purchè non abbia superato i limiti: a) dell’interesse pubblico all’informazione; b) della continenza, intesa come correttezza formale della notizia o della critica; c) della verità della notizia. Sono regole dettate dalla necessità di un equilibrato bilanciamento tra l’interesse collettivo all’informazione e l’interesse individuale alla tutela della propria reputazione, che spetta ad ogni persona fisica e giuridica. In generale, per quanto concerne il diritto di critica, è ormai consolidato il principio secondo il quale "in tema di diffamazione a mezzo stampa l’esercizio del diritto di critica presuppone una notizia che ad esso preesiste (momento che attiene ancora al diritto di cronaca), con la conseguenza che sussiste l’obbligo dell’articolista di esercitare la propria critica esclusivamente su fatti del cui nucleo fondamentale ha verificato la corrispondenza al vero (Cass. Sez. Quinta Penale n. 6548 del 1998)".


Questo orientamento si è consolidato in materia giudiziaria in termini particolarmente rigorosi, nel senso che non solo è vietata l’attribuzione di fatti penalmente rilevanti, senza una rigorosa verifica, ma sono vietate anche valutazioni critiche formulate come ipotesi, prescindendo dall’accertamento giudiziario. Un orientamento così rigoroso non può essere applicato integralmente all’informazione politica, che ha un’utilità sociale più marcata di altri tipi di informazione. Il diritto di cronaca e di critica nell’esercizio dell’attività politica è una manifestazione della libertà di pensiero (art. 21 Cost.), ma è anche un’estrinsecazione della libertà di "concorrere con metodo democratico alla formazione della politica nazionale". Il metodo democratico, esplicitato come regola di gestione della politica nell’art. 49 Cost., non comporta solamente l’attribuzione ad ogni cittadino dei diritti di elettorato attivo e passivo (art. 46 e 51 Cost.), di costituzione e partecipazione ad associazioni politiche (art. 49 Cost.), di interpello delle Camere (art. 50 Cost.), ma comporta anche il rispetto di altre regole necessarie al regime democratico. Tra queste vi è quella di garantire alla collettività, attraverso i mezzi di informazione di massa, la conoscenza dei fatti di rilevanza politica. Essa opera anche come criterio ermeneutico dell’art. 51 c.p., in forza del quale l’interprete deve tener conto della particolare rilevanza dell’interesse pubblico e della conseguente minore tutela dell’onore personale (che, inteso in senso oggettivo, comprende anche la reputazione). Il limite della verità è meno rigoroso per la necessità di una più ampia base di informazione di cui ha bisogno la collettività per potere valutare criticamente l’azione delle forze politiche, la gestione dell’apparato politico amministrativo ed ogni altro fatto o evento rilevante di natura politica. Si deve perciò concludere che in materia politica l’interesse all’informazione (per la maggiore rilevanza del suo oggetto) comprime la tutela della reputazione e legittima anche la critica di un fatto ancora da verificarsi, ma probabile in base alla ragionevole valutazione di altri fatti invece certi, a condizione, peraltro: a) che il fatto in questione sia attinente alla vita politica nazionale o locale e rivesta una sufficiente grado di interesse per la collettività (requisito della pertinenza); b) che la rappresentazione di quel fatto come probabile sia ragionevole e derivi dalla concatenazione logica di fatti già accertati e correttamente riferiti (requisito della continenza).


 


Corsi di giornalismo: il presidente dell'Ordine può mettere in guardia dai bandi ingannevoli. Il Presidente del Consiglio dell'Ordine dei giornalisti compie il suo dovere quando interviene contro i corsi di formazione professionale per giornalisti che presentano un contenuto equivoco e idoneo a trarre in inganno gli aspiranti giornalisti sulla possibilità di diventare professionisti al termine del biennio formativo. La sesta sezione penale della Cassazione, con la sentenza 15745, depositata il 3 aprile 2003, ha confermato la condanna per calunnia a un anno e quattro mesi di reclusione nei confronti del presidente di "Terzo Polo" associazione di radio e tv locali lombarde che aveva denunciato per diffamazione il presidente del Consiglio dell'ordine dei giornalisti della Lombardia. La ricostruzione convincentemente ha provato al di là di ogni ragionevole dubbio e con riferimento anche all'intervenuto provvedimento da parte dell'Autorità garante del mercato e della concorrenza sulla pubblicità ingannevole sia la doverosa correttezza dell'intervento del presidente dell’Ordine sia la piena consapevolezza da parte del presidente del “Terzo Polo” dell'innocenza della persona (il presidente dell’Ordine)i denunciata con uso di espressioni denigratorie e diffamatorie, quando invece il contenuto dell'intervento del Presidente del Consiglio dell'Ordine dei giornalisti puntava ad evitare il rischio di inganno di giovani aspiranti giornalisti determinato dalle espressioni del cosiddetto «bando di concorso», ambiguamente giocate sul filo dell'equivoco e dell'evocazione istituzionale e normativa, con riferimento ad articoli di legge e di regolamenti di non immediata percezione e tali da ingenerare, in persone non esperte di legislazione giornalistica, l'erronea convinzione di poter accedere alla carriera giornalistica. (http://www.odg.mi.it/mastrandrea.htm).


 


Quando la cronaca giudiziaria è  lecita. La   cronaca   giudiziaria   è   lecita   quando   venga   esercitata correttamente,   limitandosi   a   diffondere   la   notizia   di  un provvedimento  giudiziario  in  sè, specie ove adottato nei confronti di  persona  investita  di  pubbliche  funzioni,  ovvero a riferire o commentare  l'attività  investigativa  o  giurisdizionale;  non  lo è invece   quando   le  informazioni  desumibili  da  un  provvedimento giudiziario   vengano   utilizzate   per   ricostruzioni   o  ipotesi giornalistiche  tendenti  ad  affiancare,  o a sostituire, gli organi investigativi nella ricostruzione delle vicende penalmente rilevanti, ed autonomamente offensive. In tal caso il giornalista deve assumersi direttamente  l'onere  di  verificare  la notizia e di dimostrarne la pubblica  rilevanza, senza poter esibire il provvedimento giudiziario quale sua unica fonte di informazione e di legittimazione. (Fattispecie  di  conferma della sentenza di condanna in relazione ad un  articolo intitolato "Tradito dalle donne il boss delle tangenti", in  quanto  oggetto  della  notizia  non  fu  tanto  il provvedimento giudiziario   quanto   i   fatti   che   lo   avevano   giustificato, reinterpretati  e riferiti nel contesto di un'autonoma e indimostrata ricostruzione giornalistica). (Cass. pen., sez. V, 2 giugno 1998; Riviste: Giust. Pen., 1999, II, 327; Rif. ai codici CP art. 595).


Merita un cenno la sentenza del Gip milanese Andrea Manfredi (Ordine Tabloid, n. 7/1994, pag 12) che ha assolto con la formula più ampia i giornalisti Andrea Monti e Marcella Andreoli imputati del reato di diffamazione per aver pubblicato su “Panorama” del 4 ottobre 1992 i verbali d’interrogatorio d’un imputato di Tangentopoli. Scrive il Gip: “...Ciò sta a significare che una volta venuto meno l’obbligo del segreto secondo le previsioni dell’articolo 329 Cpp non vi è limite alcuno alla pubblicazione e diffusione del contenuto dell’atto del procedimento, così consacrandosi il diritto di cronaca su di esso, nel segno di un apprezzamento della prevalenza dell’interesse collettivo alla conoscenza delle vicende processuali e del controllo sociale della loro gestione, essenziale in un assetto ordinamentale ispirato a principi democratici... In definitiva, se l’articolista riporta il contenuto di atti del procedimento non più  coperti da segreto, e ciò fa legittimamente non travisandoli, non aggiungendovi commenti volti alla denigrazione incivile, con l’uso di espressioni gratuite ed offensive, mantenendosi nell’ambito della obiettività, come è da ritenere sia avvenuto nel caso in questione, la condotta appare pienamente scriminata dall’esercizio del diritto di cronaca (giudiziaria), specie se esso attiene a vicende di sicuro interesse generale”.


La sentenza del Gip milanese riprende sostanzialmente la sentenza 16 giugno 1981 della Cassazione penale (Foro It., 1982, II, 313; Giur. It., 1982, II, 346) che dice: “Il diritto di cronaca può essere esercitato anche quando ne derivi una lesione dell’altrui reputazione, purché la notizia pubblicata sia vera o almeno seriamente accertata, esista un pubblico interesse alla conoscenza dei fatti medesimi e la esposizione della notizia sia obiettiva, nel senso che non trasmodi in una incivile denigrazione che si risolva nell’offesa dell’altrui onore”. Il principio del 1981 rimane sempre attuale e valido: “Il cronista giudiziario non può essere condannato per diffamazione quando riporta il contenuto degli atti e provvedimenti del magistrato, purché si astenga da illazioni ed esagerazioni” (Cassazione Sezione V Penale n. 2842 del 2 marzo 1999, Pres. Marvulli, Rel. Amato).


 


Nell’ambito della cronaca giudiziaria la verità della notizia mutuata  da un provvedimento giudiziario sussiste ogni qualvolta essa sia fedele al contenuto del provvedimento stesso, senza alterazioni o travisamenti; pertanto per il riconoscimento  dell’esimente del diritto di cronaca è sufficiente che l’articolo pubblicato corrisponda al contenuto di atti dell’autorità giudiziaria, senza che sia richiesto al giornalista di dimostrare la fondatezza delle decisioni e dei provvedimenti da essa adottati. Deve pertanto escludersi  che il cronista possa fondare la propria attività su mere voci e illazioni raccolte, anticipare il contenuto di provvedimenti del giudice o del pubblico ministero ed attribuire ad essi una valenza maggiore di quella reale  (Cassazione, sezione V penale, sentenza n. 2842 del 2 marzo 1999, Pres. Marvulli, Rel. Amato).


 


In tema di diffamazione a mezzo stampa non è invocabile il diritto di cronaca quando la notizia è stata data attraverso uno scritto anonimo, come tale insuscettibile di controlli circa l'attendibilità della fonte e la veridicità della notizia stessa, né tale notizia può ritenersi controllata per il solo fatto che sia stata eventualmente aperta un'inchiesta giudiziaria sui fatti pubblicati (Cass. pen., sez. V, 5 marzo 1992, Giur. It., 1992, II, 618).


 


Il limite della verità della notizia è travalicato dal giornalista non soltanto qualora la narrazione dei fatti venga arricchita di particolari e descrizioni contrarie al vero ma anche nella ipotesi in cui siano tenui sotto silenzio aspetti che, ove venissero conosciuti, sarebbero idonei a mutare il significato di ciò che è stato narrato (nel caso di specie il giornalista nel riferire un fatto di cronaca giudiziaria aveva taciuto avvenimeni idonei a scagionare colui il quale veniva indicato come omicida). Non può essere esonerato da responsabilità il giornalista che usa un termine giuridico improprio non solo in relazione alla sostanziale differenza tra i due istituti (archiviazione e proscioglimento con formula piena) ma soprattutto in relazione alla competenza professionale media da riconoscere al giornalista che affronti temi specifici come la cronaca giudiziaria nel corso della quale la verità del narrato non può andare disgiunta dalla utilizzazione della terminologia più appropriata soprattutto quando a termini diversi corrispondano concetti e conclusioni diverse (Cass. pen., 26 giugno 1987, Scialoja, Riv. pen., 1988, 865).


 


Nella inchiesta di fatti intorno a cui sia ancora in corso un procedimento penale, il giornalista deve riportare i fatti in chiave di assoluta problematicità senza enunciare una verità certa ed assoluta, ma esponendo tutti gli elementi certi (sulla base degli accertamenti e dei riscontri del giornalista) che vengono a connotare la complessità della realtà Trib. Roma, 5 novembre 1991, Remondino, in Dir. inf., 1992, 478


 


Nella cronaca giudiziaria il giornalista deve rendere omaggio alla oggettività delle notizie più che al rigore giuridico delle proprie opinioni. Si ha una inesattezza giuridica di opinione e non una falsità di confezione di una notizia quando si dà per certa la meccanica apertura di un procedimento penale per calunnia a carico del soggetto (nel caso di specie si trattava di un avvocato) la cui tesi accusatoria è già stata sconfessata dai giudici competenti  essendo l’azione penale del reato di calunnia meramente eventuale in quanto rimessa alla valutazione tecnica del P.M che tale azione esercita.  Costituisce reato di diffamazione il riportare la notizia di un rinvio a giudizio quando l’atto introduttivo (denuncia, querela ecc.) non sia stato ancora inoltrato, in quanto fa nascere nel lettore il convincimento erroneo della presenza di una esito processuale scontato e già in itinere. Trib. Roma,  9 luglio 1991, Vitalone, in Dir. inf. 1992, 463


 


Il giornalista pur investito dell’altissimo compito di informazione deve sempre attenersi, fino a che non intervenga una sentenza di condanna, al principio costituzionale di presunzione di non colpevolezza dell’imputato e non può tacciare quindi lo stesso di una colpevolezza non ancora accertata, tanto meno se la notizia di colpevolezza provenga da altra fonte informativa - giornali agenzie RAI - non accuratamente controllata, altrimenti le fonti propalatrici delle notizie - attribuendosi reciprocamente credito - finirebbero per rinvenire in se stesse attendibilità. Cass pen., 17 aprile 1991, Bocconetti, in  Riv. pen., 1991, 912


 


Deve considerarsi illecito sia sotto il profilo civile che quello penale (reato di diffamazione a mezzo stampa) il comportamento del giornalista che divulghi notizie attinenti alla commissione di reati ed alla attribuzione di essi ad una persona, raccogliendo le voci negli ambienti giudiziari senza un più approfondito controllo delle fonti d'informazione, senza attendere l'effettivo e reale svolgimento dell'iter processuale, e riferendo per di più dei fatti specifici che non hanno trovato alcuna rispondenza neppure in sede istruttoria, con la conseguenza che il diritto di cronaca non appare rettamente esercitato neppure sotto il profilo della . Trib. Roma, 5 febbraio 1991, Vitalone, in Dir. Inf., 1992, 459.


 


Nella cronaca giudiziaria relativa a fatti oggetto di un processo penale anche se non ancora concluso, e a  maggior ragione nel resoconto del processo stesso, il giornalista adempie l’obbligo di controllo delle fonti quando fonda la notizia sulla lettura degli atti processuali, fonte più attendibile e certa nel momento della redazione dell’articolo. Trib. Milano 11 gennaio 1991, Postiglione, in Dir. inf., 1991, 606


 


L’errore del giornalista non è scriminante quando tocca la verità dei fatti fondamentali della notizia, nel caso di una ricostruzione della storia processuale a distanza dei fatti medesimi, la cui falsità poteva essere facilmente accertata: l’obbligo di puntuale ricerca e riscontro delle fonti è tanto più possibile quando si tratti di ricostruzione a distanza di un fatto e non di resoconto immediato dello stesso. Trib. Roma, 10 marzo 1989, Scottoni, in Foro It., 1990, II, 137


 


Il pieno diritto alla difesa della propria onorabilità, come previsto dagli art. 2 e 27 Cost., spetta a ogni cittadino e quindi anche a colui che, pur sottoposto a procedimento penale, non deve peraltro essere danneggiato dalla pubblicazione di notizie, né dalla formulazione di giudizi preventivi, in senso negativo, precedenti l'accertamento giudiziario definitivo; da detto principio deriva che in materia di cronaca giudiziaria è idonea a ledere l'interesse protetto dall'art. 595 c. p. la pubblicazione di notizia relativa a un rinvio a giudizio, non ancora formulato, trattandosi di notizia non vera in quel momento e sicuramente lesiva dell'onorabilità della parte offesa. App. Roma, 20 gennaio 1989, Scalfari, in Giust. Pen., 1991, II, 519


 


Non costituisce diffamazione col mezzo della stampa riferire, nel corso di più telegiornali della Rai, di un'inchiesta giudiziaria circa una associazione mafiosa attribuendo ad una delle persone coinvolte imputazioni più gravi di quelle per le quali è effettivamente inquisita, ove il giornalista abbia desunto le informazioni da fonti normalmente attendibili (nella specie, le agenzie di stampa Ansa e Italia), poiché, senza pretendere nel vaglio della notizia un astratto rigorismo, il diritto di cronaca deve ritenersi in simili ipotesi correttamente esercitato. Pret. Roma, 24 febbraio 1989, Longhi, in Foro It., 1989, II, 488


 


L'interesse  pubblico  alla  conoscenza  immediata di fatti di grande rilievo  sociale  quali  la  perpetrazione di gravi reati deve essere conciliato  con  il  principio  costituzionale  di  non colpevolezza; pertanto  ogni  notizia  idonea  ad  indurre  l'opinione  pubblica ad attribuire,  prima  della  condanna,  un  reato  ad una persona deve, per  essere  lecitamente  pubblicata,  rispondere  ai requisiti oltre all'utilità  sociale  dell'informazione,  della  veridicità  e  della forma  civile  dell'esposizione  dei  fatti e della loro valutazione, cioè  non  esorbitante  rispetto allo scopo informativo da conseguire ed improntata a serena obiettività. Trib. Roma, 6 aprile 1988, Cosci, Dir. Inf., 1988, 837


 


Qualora uno sceneggiato fondi la ricostruzione di un fatto di cronaca sulla fedele osservanza delle risultanze e degli atti di un procedimento giudiziario conclusosi definitivamente con il passaggio in giudicato della sentenza, non può ravvisarsi pregiudizio all'onore dell'interessato; in tal caso, tuttavia, le esigenze artistico-rappresentative devono essere raccordate al dato storico, senza che aggiunte o soppressioni operate dal regista, possano alterare, anche in minima parte, la figura psicologica dell'interessato e l'equilibrio della trama. Pret. Roma, 7 novembre 1986, Maresca c. Rai-Tv, in Giur. It., 1989, I, 2, 428


 


Il limite della verità della notizia è travalicato dal giornalista non soltanto qualora la narrazione dei fatti venga arricchita di particolari e descrizioni contrarie al vero ma anche nella ipotesi in cui siano tenuti sotto silenzio aspetti che, ove venissero conosciuti, sarebbero idonei a mutare il significato di ciò che è stato narrato (nel caso di specie il giornalista nel riferire un fatto di cronaca giudiziaria aveva taciuto avvenimeni idonei a scagionare colui il quale veniva indicato come omicida). Non può essere esonerato da responsabilità il giornalista che usa un termine giuridico improprio non solo in relazione alla sostanziale differenza tra i due istituti (archiviazione e proscioglimento con formula piena) ma soprattutto in relazione alla competenza professionale media da riconoscere al giornalista che affronti temi specifici come la cronaca giudiziaria nel corso della quale la verità del narrato non può andare disgiunta dalla utilizzazione della terminologia più appropriata soprattutto quando a termini diversi corrispondano concetti e conclusioni diverse. Cass. pen., 26 giugno 1987, Scialoja, Riv. pen., in 1988, 865


 


Non si può ritenere cronaca rispettosa della verità dei  fatti quella di chi, nel riferire notizie la cui fonte si rappresentata da dichiarazioni o provvedimenti di organi dello Stato (nella specie autorità giudiziaria) non tenga conto dei limiti processuali delle accuse di un organo inquirente, in spregio al disposto dell’art. 27, II comma, Cost., presentando come certa e definitiva una situazione che è suscettibile in una fase successiva di modifiche o addirittura di ribaltamenti. Trib. Genova, 24 ottobre 1986, Boiso, in Dir. inf., 1987, 239


 


Non costituisce esercizio del diritto di cronaca giudiziaria riferire la deposizione, in un procedimento civile, di un testimone lesiva dell'altrui reputazione e di cui non sia stata provata la verità. Trib. Roma, 26 novembre 1985, Ravelli, in Dir. Inf.,  1986, 894


 


Non costituisce diffamazione col mezzo delle stampa aggravata dall’attribuzione di un fatto determinato, riferire durante una cronaca giornalistica radiofonica, dell’affiliazione di due soggetti ad una loggia massonica organizzata e controllata dal capo della P2 Licio Gelli, ove il fatto dia vero, e definire un soggetto se la circostanza sia sostanzialmente vera secondo il senso comune, anche quando giuridicamente non ne ricorrono gli estremi. L’uso dei termini da parte del giornalista non deve essere valutato in senso restrittivo o addirittura tecnico. E’ evidente che colui il quale deve fornire notizie e commenti al pubblico deve tenere ben presente che non si rivolge solo a specialisti o a raffinati cultori della lingua italiana ma, al contrario, deve sforzarsi di rendere comprensibile a  chiunque l’informazione che divulga. Pret. Firenze, 2 maggio 1985, Di Giovanni, in  Foro It., 1985, II, 399


 


I soggetti sospettati come colpevoli di un reato non possono dolersi che si dia notizia di un fatto già accaduto nei loro confronti - e cioè che essi sono sospettati di appartenere ad un’associazione mafiosa, o comunque di avere commesso dei reati - ma possono legittimamente invocare la tutela penale qualora il giornale, anticipando la (eventuale) conclusione dell’inchiesta, li abbia presentati quali sicuri responsabili del reato per il quale invece sono in corso soltanto indagini. Il giudizio di colpevolezza non può essere anticipato dall’organo di stampa, perché si tratterebbe, né più né meno, della pubblicazione di una notizia notoriamente falsa, in quanto la valutazione della responsabilità degli inquisiti non è ancora stata effettuata dagli organi competenti. Trib. Genova, 15 aprile 1985, Corrado, in Giust. pen., 1986, II, 722


 


Costituisce diffamazione col mezzo della stampa riferire inesattamente su giornale quotidiano, della condanna penale riportata nel primo grado del giudizio da amministratore pubblico, definendolo nella cronaca giudiziaria come . Trib. Roma, 14 aprile 1984, Scalfari, in Foro It., 1985, II, 124


 


Costituisce esercizio del diritto di critica e di cronaca giornalistica, e pertanto esula dall’ipotesi di diffamazione col mezzo stampa, aggravata dall’attribuzione di fatto determinato, definire il soggetto e , ricavando tali qualifiche dal resoconto di fatti veri, documentalmente provati e accertati con sentenza penale passata in giudicato. Trib. Roma, 25 febbraio 1984, Agnese, in Foro It., 1985, II, 124


 


Il diritto di cronaca giornalistica, sia questa giudiziaria o di altra natura, rientra nella più vasta categoria dei diritti pubblici soggettivi, relativi alla libertà di pensiero e di stampa riconosciuti dall'art. 21 Cost.; e consiste nel potere-dovere conferito al giornalista di portare a conoscenza dell'opinione pubblica fatti, notizie e vicende interessanti la vita associata. Cass. pen., 12 gennaio 1982, Lo Greco, in Giust. Pen., 1982, II, 656


 


In materia di cronaca giudiziaria per stabilire se il relativo diritto sia stato esercitato con rispetto del limite della verità oggettiva non deve aversi riguardo a quelle inesattezze che incidono su semplici modalità del fatto narrato senza modificarne la struttura. Non integra gli estremi del reato di diffamazione la pubblicazione di un articolo in cui il giornalista, nel divulgare la notizia dell’arresto di una persona, usa espressioni e toni che consentono al lettore di intendere che i fatti che hanno determinato l’arresto non sono stati ancora definitivamente accertati. L'indagine del giudice di merito volta a stabilire se nei casi concreti il giornalista abbia rispettato il limite della continenza e della verità deve essere particolarmente frequente in tema di cronaca giudiziaria, poiché il sacrificio del diritto alla presunzione di innocenza non deve spingersi al di là di quanto è strettamente necessario ai fini informativi. Cass. pen., 18 dicembre 1980, Faustini, in Giust. Pen., 1982, II, 139


 


Un decreto penale opposto non costituisce fonte di prova ai fini dell'applicazione della esimente dell'esercizio del diritto di cronaca, poiché non può ritenersi attendibile una notizia che è ancora oggetto di indagine giudiziaria. Cass. pen., 9 luglio 1979, Vecchiato, in Cass. Pen. Mass., 1981, 191


 


Il giornalista nell’esercizio del diritto di cronaca deve pubblicare la notizia di un arresto e dei motivi che lo hanno determinato, anche se successivamente tali motivi risulteranno infondati: l’interesse pubblico alla conoscenza dei fatti di grande rilievo sociale, quali la perpetrazione di reati e l’attività di polizia giudiziaria è preminente rispetto al principio della presunzione di innocenza. Ogni notizia idonea ad indurre l’opinione pubblica ad attribuire, prima della condanna, un reato ad un persona in quanto relativa a fatti che la espongono ad un giudizio penale (denunce, querele, rapporti, arresti, ecc.) deve essere vera, ed avere un contenuto ed una forma tali da rendere avvertito il pubblico, quanto più è possibile in relazione alle circostanze del caso concreto, che la colpevolezza della persona accusata non può considerarsi ancora acquisita come un fatto certo e, quindi, evitare tutti quei particolari non ancora sicuramente accertati e tutte quelle espressioni, non strettamente indispensabili che tale certezza possono creare nel pubblico. Cass. pen., 7 marzo 1975, Vola, in Giust. civ., 1975, I, 972.


 


Il cronista giudiziario non può essere condannato per diffamazione quando riporta il contenuto degli atti e provvedimenti del magistrato, purché si astenga da illazioni ed esagerazioni. Nel periodo fra l’ottobre 1992 e il giugno 1993 i quotidiani La Repubblica, Il Messaggero e Il Tempo hanno pubblicato notizie su perquisizioni eseguite presso lo studio e l’abitazione dell’avvocato M. nell’ambito di un’inchiesta avviata dalla Procura della Repubblica di Palmi al fine di accertare eventuali rapporti illeciti fra logge massoniche "deviate" e associazioni mafiose. In seguito a una querela sporta dall’avvocato M., il Tribunale di Roma ha condannato per diffamazione gli autori degli articoli e per omesso controllo i direttori dei giornali.    La Corte d’Appello di Roma ha confermato la condanna osservando che l’indagine svolta nei confronti dell’avvocato M. non aveva conseguito alcun risultato, in quanto non era stata provata l’esistenza di alcun suo legame con ambienti criminali nè lo svolgimento di attività illecite da parte della loggia massonica cui egli apparteneva.


Escludendo la veridicità delle notizie pubblicate, la Corte d’Appello ha negato ai giornalisti l’esimente dell’esercizio del diritto di cronaca. La Suprema Corte (Sezione V Penale n. 2842 del 2 marzo 1999, Pres. Marvulli, Rel. Amato) ha accolto il ricorso dei giornalisti, affermando che la Corte d’Appello di Roma, al fine di stabilire se essi avessero esercitato correttamente il diritto di cronaca, non avrebbe dovuto fare riferimento all’esito delle indagini, bensì all’esattezza o meno delle informazioni pubblicate sui provvedimenti adottati dagli inquirenti.


Nell’ambito della cronaca giudiziaria -ha affermato la Corte- la verità della notizia mutuata da un provvedimento giudiziario sussiste ogni qualvolta essa sia fedele al contenuto del provvedimento stesso, senza alterazioni o travisamenti; pertanto per il riconoscimento dell’esimente del diritto di cronaca è sufficiente che l’articolo pubblicato corrisponda al contenuto di atti dell’autorità giudiziaria, senza che sia richiesto al giornalista di dimostrare la fondatezza delle decisioni e dei provvedimenti da essa adottati. Deve peraltro escludersi -ha precisato la Corte- che il cronista possa fondare la propria attività su mere voci e illazioni raccolte, anticipare il contenuto di provvedimenti del giudice o del pubblico ministero ed attribuire ad essi una valenza maggiore di quella reale.


Nel caso in esame - ha rilevato la Corte - l’indagine della Procura di Palmi tentava di svelare i legami occulti tra logge deviate della massoneria ed ambienti affaristico-criminali, non alieni talvolta dal coltivare progetti di eversione dell’ordine costituzionale; il giudice di merito avrebbe dovuto accertare se l’accostamento, operato dai giornalisti, dell’avvocato M. a tali ambienti fosse il coerente portato dell’indagine della Procura di Palmi ovvero costituisse un’illazione, un’esorbitanza, un’avventata od anche arbitraria elaborazione, nel qual caso sarebbe spettato al giornalista dimostrare la corrispondenza fra quanto narrato e la realtà storica. (Cassazione Sezione V Penale n. 2842 del 2 marzo 1999, Pres. Marvulli, Rel. Amato).


 


In tema di cronaca giudiziaria, la verità della notizia mutuata da un provvedimento giudiziario sussiste, ai fini della scriminante di cui all’art. 51 c.p., ogni qualvolta essa sia fedele al contenuto del provvedimento stesso, senza alterazioni o travisamenti; il limite della verità deve essere restrittivamente inteso, dovendosi verificare la rigorosa corrispondenza tra quanto narrato e quanto realmente accaduto, perché il sacrificio della presunzione di innocenza non può esorbitare da ciò che sia necessario ai fini informativi (fattispecie in cui è stato ritenuto diffamatorio affermare, contrariamente al vero, che l’imputato era stato arrestato).  Cass., sez. V, 03 giugno 1998, Pendinelli, in Cass., rv. 211487 (m)


 


In tema di diritto di cronaca giornalistica, la verità di una notizia, mutuata da un provvedimento giudiziario, sussiste ogniqualvolta essa sia fedele al contenuto del provvedimento stesso; è pertanto sufficiente che l’articolo pubblicato corrisponda al contenuto degli atti e provvedimenti dell’autorità giudiziaria, non potendo richiedersi al giornalista di dimostrare la fondatezza delle decisioni assunte in sede giudiziaria e dovendo, d’altra parte, il criterio della verità della notizia essere riferito agli sviluppi di indagine ed istruttori quali risultano al momento della pubblicazione dell’articolo e non già, secondo quando successivamente accertato in sede giurisdizionale (nella fattispecie, la corte ha ritenuto nei limiti della esimente il comportamento dei giornalisti che avevano riferito circa l’esecuzione di un provvedimento di perquisizione e sequestro disposto dal p.m., dando inoltre conto del contesto dell’indagine giudiziaria e delle ipotesi investigative elaborate dall’organo inquirente; la corte ha inoltre ritenuto che il giudice di merito aveva non correttamente desunto l’inosservanza del limite della verità dal risultato, poco soddisfacente sul piano probatorio, dell’operato sequestro e delle indagini nel loro complesso).  Cass., sez. V, 27 gennaio 1999, Mennella, in Ced Cass., rv. 212697 (m)


 


In tema di applicazione della scriminante del diritto di cronaca giudiziaria, la verità della notizia mutuata da un provvedimento giudiziario sussiste ogni qualvolta essa sia fedele al contenuto del provvedimento stesso, senza alterazioni o travisamenti; è pertanto sufficiente che l’articolo pubblicato corrisponda al contenuto degli atti e provvedimenti dell’autorità giudiziaria, non potendosi chiedere al giornalista di dimostrare la fondatezza delle decisioni assunte in sede giudiziaria e dovendo d’altra parte il criterio della verità della notizia essere riferito agli sviluppi d’indagine e istruttori quali risultano al momento della pubblicazione dell’articolo. Cass., sez. I, 10 novembre 2000, Scalfari, in Guida al dir., 2001, fasc. 12, 90,


 


La pubblicità del dibattimento nel processo penale non è sufficiente a giustificare la pubblicazione sui giornali delle affermazioni fatte da un difensore nella sua arringa se sono lesive dell’altrui reputazione (Cassazione Sezione Prima Penale n. 4462 del 5 febbraio 2002, Pres. Fazzioli, Rel. Silvestri). Nel maggio del 1994 il quotidiano Il Messaggero ha pubblicato un servizio di cronaca giudiziaria nel quale si riferivano le affermazioni fatte da un avvocato nella sua arringa difensiva in un processo per omicidio davanti alla Corte d’Assise di Chieti. Tali affermazioni concernevano anche Bruno D., definito dal difensore come soggetto già noto alla polizia e coinvolto nella vicenda che aveva portato all’omicidio. In seguito a querela sporta da Bruno D., il Tribunale Penale di Roma ha dichiarato l’autrice dell’articolo e il direttore del giornale responsabili del reato di diffamazione, condannandoli alla pena della multa e al risarcimento del danno in favore della parte civile. Questa decisione è stata riformata dalla Corte d’Appello di Roma che ha assolto gli imputati in quanto ha ritenuto che essi abbiano correttamente esercitato il diritto di cronaca, riferendo le affermazioni fatte da un avvocato nel corso di un pubblico dibattimento. La parte civile ha proposto ricorso per cassazione sostenendo la non configurabilità dell’esimente riconosciuta dalla Corte d’Appello ai due giornalisti.


La Suprema Corte (Sezione Prima Penale n. 4462 del 5 febbraio 2002, Pres. Fazzioli, Rel. Silvestri) ha accolto il ricorso. Nel processo penale – ha osservato la Corte – l’esposizione, da parte del difensore, di fatti obiettivamente lesivi dell’altrui reputazione è scriminata dall’esercizio del diritto di difesa, mentre la pubblicazione a mezzo stampa degli stessi fatti può perdere il carattere della illiceità soltanto se è giustificata dall’interesse generale alla conoscenza della notizia e se questa sia stata riportata in termini corretti, precisi e non ambigui. In mancanza di tali specifiche condizioni – ha affermato la Corte – la pubblicità del dibattimento non può valere, di per sé, a legittimare la pubblicazione della notizia, in quanto la possibilità di presenziare allo svolgimento del giudizio da parte di un numero più o meno ampio di persone non può essere equiparata alla divulgazione della notizia, col mezzo della stampa, ad un numero indeterminato di lettori, che vengono così portati a conoscenza di fatti obiettivamente diffamatori. La Cassazione ha rinviato la causa ad altra sezione della Corte d’Appello di Roma perché accerti la corrispondenza tra il contenuto dell’articolo e l’arringa del difensore e, in caso affermativo, controlli la configurabilità della giustificazione dell’esercizio del diritto di cronaca verificando l’esistenza delle condizioni della correttezza della forma espositiva e dell’interesse generale alla conoscenza dei fatti pubblicati.


La diffamazione si può realizzare anche mediante l’accostamento o l’accorpamento delle notizie quando ciò produce un’espansione di significati.  Affinché la divulgazione a mezzo stampa di notizie lesive dell'onore, della reputazione o della riservatezza di terzi possa considerarsi lecito esercizio del diritto di cronaca, devono ricorrere le seguenti condizioni: la verità dei fatti esposti, che può essere oggettiva o anche soltanto putativa, purchè frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca, e che è esclusa quando vengano riferiti fatti veri, ma incompleti; l'interesse pubblico alla conoscenza del fatto oggetto della cronaca (c.d. pertinenza); la correttezza dell'esposizione (c.d. continenza). Quest'ultima condizione va intesa sia come correttezza formale, sia come limite sostanziale, individuabile in ciò che è strettamente necessario per soddisfare l'interesse generale alla conoscenza di determinati fatti di rilievo sociale, e che va accertato in base ad un'indagineorientata verso il risultato finale della comunicazione e vertente imprescindibilmente, in particolare, sui seguenti elementi: 1) accostamento di notizie, quando esso sia dotato di autonoma attitudine diffamatoria; 2) accorpamento di notizie che produca un'espansione di significati; 3) uso di determinate espressioni nella consapevolezza che il pubblico le intenderà in maniera diversa o addirittura contraria al loro significato letterale; 4) tono complessivo della notizia e titolazione. (Cass. civ. Sez. III 13-02-2002, n. 2066
MinolicFeltrieFeltriv.RcsEditoriSpa;FONTIMass.Giur.It.,2002;Foro It., 2002, I;Giur. It., 2002)


 


Chi pubblica foto osé risponde di diffamazione. La pubblicazione di foto di nudo senza il consenso della persona interessata ed in un contesto volgare può costare una condanna per diffamazione. È quanto accaduto al direttore di una rivista condannato per diffamazione dalla Corte di Appello di Roma - condanna confermata dalla Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione (sentenza 25054/2002)   - per aver pubblicato alcune foto di una soubrette televisiva, senza il consenso della stessa ed inserendole in un contesto "hard", accompagnate da un breve commento. La Suprema Corte, confermando la condanna, ha rilevato che, se da un lato il nudo "di per sé" non è volgare, dall'altro lato, quando servizi giornalistici, anche privi di carattere di lesività per la reputazione, vengono inseriti in un contesto caratterizzato da degrado e volgarità, divengono offensivi e diffamatori in quanto assumono un significato carico di ambiguità Il "nudo artistico" deve essere tenuto distinto dal "nudo pornografico".


 


Consenso tacito allo sfruttamento commerciale dell'immagine


In tema di autorizzazione data dall'interessato alla pubblicazione della propria immagine, è da escludere che l'autonomia privata abbia un'estensione diversa a seconda della forma, espressa o tacita, della manifestazione del consenso: gli eventuali limiti non condizionano la validità, ma circoscrivono l'efficacia del consenso, espresso o tacito, alla publicazione, la quale deve essere contenuta nei limiti di tempo, di luogo e per lo scopo e secondo le forme previste all'atto del consenso, se questo è espresso, o determinabili attraverso l'interpretazione della persona ritratta, se il consenso è tacito. (Cassazione Civile, 17/02/2004, n.3014)


 


Quando la violazione deontologica è anche un fatto “ingiusto”. Una  condotta  illecita sotto il profilo deontologico che comporti un danno per un professionista concorrente trova sanzione in sede civile secondo  i  principi  generali  dell'atto  illecito,  atteso  che  la violazione  delle  norme  interne  della  categoria  professionale  è sufficiente  per  qualificare  il  fatto  compiuto  come  "ingiusto" (Trib. Udine, 23 febbraio 1998; Riviste Resp. Civ. e Prev., 1998, 1500, n. SANZO)


 


7. Diffamazione e responsabilità civile di  editore, direttore e articolista. Un quotidiano pubblica un articolo di una giornalista dove vengono denunziati determinati abusi edilizi: un'antica cantina viene "convertita" in residence. La cronista enfatizza la qualità del consorte della proprietaria dell'immobile trasformato. "Il consorte enfatizzato" ricopre una carica importante all'interno di una nota organizzazione per la tutela dei beni artistici e ambientali. L'articolo, che si rivelerà diffamatorio e non veritiero, provoca le dimissioni del coniuge della titolare della cantina.


In sede penale è ritenuta responsabile del reato di diffamazione a mezzo stampa la sola giornalista che aveva garantito al direttore responsabile la veridicità dei fatti narrati.


In sede civile, invece, sono condannati in solido la giornalista, il direttore responsabile e l’editore al pagamento di 50 milioni (1° grado), ridotti a 40 in appello, a titolo di danno non patrimoniale. Il direttore, in sostanza, "si era fidato" della sua collaboratrice e aveva omesso di controllare la veridicità dei fatti. I giudici di merito hanno negato all'editore il diritto di regresso nei confronti della giornalista colpevole di diffamazione a mezzo stampa.


La Suprema Corte, dopo aver individuato i parametri di valutazione del danno non patrimoniale da diffamazione a mezzo stampa nella gravità del fatto, sotto il profilo oggettivo (gravità dell'accusa mossa); sotto quello soggettivo (personalità della persona offesa ed incidenza dell'accusa), nonché nella natura e diffusione del veicolo di informazione, cassa la decisione di merito per non aver riconosciuto all'editore il diritto di regresso nei confronti della giornalista responsabile della pubblicazione di notizie non veritiere e diffamatorie.


Secondo la Corte di Cassazione il c.d. regime di solidarietà prevede che l’editore, una volta risarcito interamente il danno al diffamato, abbia un diritto di regresso nei confronti del giornalista nella misura determinata dalla gravità delle rispettive colpe e dall’entità delle conseguenze che ne sono derivate.


I giudici di merito, pertanto, dopo aver condannato solidalmente per un articolo non veritiero il direttore, l'editore e il giornalista, sono tenuti ad accertare l’incidenza finale del risarcimento su ciascuno dei coobbligati in ragione della gravità delle rispettive colpe.


Pertanto, i giudici di merito dovranno, ogni volta, secondo l’insegnamento della Corte di Cassazione, pronunciarsi sulla domanda di rivalsa presentata dall'editore.


Il principio enunciato dal Supremo Collegio è un chiaro monito ai giornalisti che "non controllano", che "si fidano", che "omettono scientemente".


L'editore non è tenuto sempre e comunque a risarcire il diffamato di turno per errori commessi da altri (i giornalisti). Anche il cronista "distratto" dovrà risarcire di tasca sua e nella giusta misura.


Questa le due massime tratte dalla sentenza:


1) Quando il proprietario e/o l'editore, da cui la vittima della diffamazione abbia ottenuto l'intero risarcimento, esercitano l'azione di regresso, fra di loro, verso il direttore e/o verso l'autore dell'articolo incriminato, il giudice deve accertare la gravità delle rispettive colpe, onde determinare la finale incidenza del risarcimento su ciascuno dei coobbligati (Cass. civ., sez. III, 19 settembre 1995, n. 9892; Riviste: Danno e Resp., 1996, 94, n. Savorani; "Il Corriere Giuridico", novembre 1995, pagg. 1275, l2761).


2) La responsabilità civile dell'editore e del proprietario della pubblicazione per i danni derivanti da reati commessi con il mezzo della stampa, sancita dall'art. 11 della legge 8 febbraio 1948 n. 47, è autonoma dalla responsabilità del direttore della pubblicazione, e pertanto può essere affermata anche laddove quest'ultima sia stata esclusa (Cass. civ., sez. III, 19 settembre 1995, n. 989;  Riviste: Danno e Resp., 1996, 94, n. Savorani).


 


Il  consentire  ad  una  pubblicazione  da  parte del direttore di un giornale  può  tradursi anche nel non impedirla, ovvero nel tollerare passivamente  la  pubblicazione  stessa.  Ne  deriva che il direttore dovrà  essere  ritenuto  responsabile,  ex art. 57 c.p., del reato di diffamazione  compiuta a mezzo stampa nel caso di mancato impedimento della verificazione di un fatto illecito (Cass. pen., sez. V, 28 ottobre 1997, n. 10496;  Riviste Studium juris, 1998, 1001; Rif. ai codici CP art. 57).


 


Il reato previsto dall'art. 57 c.p. va ricondotto alla categoria delle fattispecie colpose di evento, disegnando una ipotesi delittuosa di agevolazione colposa, con esclusione di ogni possibilità di dare corpo a figure di responsabilità obiettiva. Ne consegue che il direttore o redattore responsabile, la cui attività si sostanzia in una supervisione per impedire che vengano commessi reati, esaminando, controllando e verificando i fatti oggetto della narrazione, non può essere ritenuto responsabile per non avere egli saputo che la foto della persona intervistata era stata scattata indebitamente dai suoi collaboratori. (Trib. Trento, 16/01/2001; FONTE Riv. Pen., 2001, 849).


 


La responsabilità del direttore responsabile per gli illeciti commessi col mezzo della pubblicazione da lui diretta è implicita nell'omissione del controllo e solo la prova, di cui lo stesso direttore ha l'onere, di eventuali fatti  liberatori può valere ad escludere la colpevolezza, ma non può intendersi come tale la pretesa impossibilità materiale di esercitare un efficace controllo: invero, il direttore non è di certo tenuto a ripetere personalmente la fatica del cronista, ma può e deve valersi di tutta la complessa ed adeguata organizzazione umana e materiale dell'azienda giornalistica per dispiegare quel sindacato che la sua veste funzionalmente gli attribuisce e gli impone come vero e proprio potere-dovere. (Trib. Roma, 17 aprile 1987;            Riviste: Dir. Informazione e Informatica , 1987, 989)


 


In tutti i casi in cui sia astrattamente ravvisabile una responsabilità penale del direttore per reati commessi a mezzo stampa, il medesimo direttore può essere chiamato a rispondere, nei confronti del soggetto leso, anche sul piano civilistico; anche mancando la natura dolosa del reato di cui all'art. 171 l.d.a., a norma dell'art. 57 Cp il direttore responsabile, fuori dell'ipotesi di concorso nel reato con l'autore della pubblicazione vietata, risponde comunque a titolo di colpa ove abbia omesso di esercitare il necessario controllo su detta pubblicazione. (App. Milano, 21 febbraio 1992; Riviste: Dir. Autore, 1993, 265).


 


Ai fini della determinazione della somma liquidata a titolo di riparazione pecuniaria alla persona offesa dal reato di diffamazione commesso col mezzo della stampa, il parametro della diffusione dello stampato attiene non al numero delle copie vendute nel giorno in cui è stato commesso il fatto, ma alla diffusione in linea generale del periodico sul piano nazionale o anche su quello locale; ciò che rileva infatti, è la possibilità di una notevole propalazione della no­tizia e non la concreta conoscenza che possa, in una determinata circostanza, averne avuto un numero più o meno grande di persone. (Cass. pen., sez. V, 19 marzo 1993. n. 2657).


 


Il consentire ad una pubblicazione da parte del direttore di un giornale può tradursi anche nel non impedirla, ovvero nel tollerare passivamente la pubblicazione stessa. Ne deriva che il direttore dovrà essere ritenuto responsabile, ex art. 57 c.p., del reato di diffamazione compiuta a mezzo stampa nel caso di mancato impedimento della verificazione di un fatto illecito (Cass. pen., sez. V, 28 ottobre 1997, n. 10496, Studium juris, 1998, 1001).


 


Nella valutazione sulla responsabilità del direttore di un periodico ai sensi dell'art. 57 c.p., l'esigenza, cui tale disposizione si ispira, di evitare che con il mezzo della stampa vengano commessi reati, deve essere contemperata con il diritto al godimento delle ferie da parte del direttore medesimo, nonchè con i principi posti dagli art. 42 e 43 c.p., secondo i quali nessuno può essere punito se non ha commesso il fatto con coscienza e volontà; pertanto, ad escludere la responsabilità ex art. 57 c.p. del direttore di un periodico nel tempo in cui egli gode delle ferie spettantigli è sufficiente, senza che sia necessario il ricorso alla procedura prevista per i mutamenti radicali nell'organico del giornale degli art. 5 e 6 l. 8 febbraio 1948 n. 47, la preventiva individuazione ed indicazione nello stesso periodico della persona che lo sostituisce, in modo che sia ricostituita, sia pur in via provvisoria, la struttura della compagine del giornale e sia così assicurato il controllo sulla pubblicazione, con la possibilità di individuare la persona che risponda dell'eventuale omissione. (In applicazione di tale principio la Corte, in una fattispecie concernente il delitto di diffamazione con il mezzo della stampa, ha annullato la sentenza di merito che, nonostante l'espressa richiesta dell'imputato, non aveva accertato chi avesse ufficialmente sostituito il direttore responsabile nel periodo in cui questi si trovava in ferie, limitandosi a prendere atto che l'assenza non era dovuta ad un motivo di forza maggiore) (Cass. pen., sez. V, 28 ottobre 1997, n. 10496,  in Cass. Pen., 1998, 2935).


 


Poiché il delitto di diffamazione commesso dal giornalista con il mezzo della stampa rappresenta l'evento del reato colposo attribuibile al direttore responsabile, ai sensi dell'art 57 c.p., la condotta omissiva di quest'ultimo consiste specificamente nel non aver attivato i dovuti controlli per evitare che col mezzo della stampa e sul periodico da lui diretto si ledesse dolosamente la reputazione di terze persone; ne consegue che, se il delitto di cui all'art. 595, comma terzo, c.p. non risulta essere stato consumato per carenza dell'elemento psicologico, la fattispecie colposa omissiva prevista a carico del direttore non può trovare applicazione. (Cass. pen. sez. V 26-02-2003, n. 19827 - rv. 224404-  Graldi –FONTI Riv. Pen., 2004, 145; Riv. Pen., 2003, 845)


 


Cassazione: direttore condannato per la pubblicazione di una lettera. Anche il contenuto di una lettera pubblicata dal giornale può portare ad una condanna per il reato di diffamazione a mezzo stampa. E' accaduto a Mario Ciancio Sanfilippo, direttore del quotidiano La Sicilia. La quinta sezione penale della Corte di Cassazione, nella sentenza del 2 dicembre 2003, n. 46226, ha stabilito che il giornalista ha sempre e comunque il dovere di verificare la veridicità delle affermazioni contenute nella lettera, l'esistenza del mittente e l'effettiva paternità del testo. E ciò anche nel caso in cui le affermazioni della lettera costituiscano oggetto di denuncia alle autorità competenti. Nella missiva, pubblicata dal giornale il 27 agosto 1996, si affermava che in Sicilia, a Giardini Naxos, esisteva un comitato di affari di personaggi pubblici (si facevano alcuni nomi) che si erano macchiati del reato di interesse privato in atti di ufficio e che avevano pilotato l'appalto per la costruzione di un parcheggio.


 


7. Quando scatta l’interdizione della professione. Nell'art. 31 Cp, secondo il quale ogni condanna per delitti commessi con abuso di una professione importa 1'interdizione temporanea della professione stessa, l’espressione “abuso della professione” va intesa nel senso di uso abnorme del diritto all'esercizio di una professione per cui è richiesta una speciale abilitazione, effettuato con l'intenzione di conseguire uno scopo diverso da quello considerato dal legislatore, seguita da un comportamento contra legem particolarmente grave sul piano soggettivo e su quello oggettivo, mentre la “violazione dei doveri inerenti ad una professione” presuppone gravi e ripetute lesioni dei principi di etica professionale; tali estremi difettano nel caso di diffamazione a mezzo stampa commessa da un giornalista in un articolo di critica ad una trasmissione televisiva e, di conseguenza, non si applica la pena accessoria in questione (Cass. pen., 3 giugno 1983; Riviste: Giust. pen., 1984, II, 52; Giur. It., 1984, II, 52).


 


Per l'applicabilità della pena accessoria della interdizione della professione di giornalista non è sufficiente un isolato comportamento diffamatorio nel quale pure può ipotizzarsi la violazione dei principi di etica professionale sanciti nell’ordinamento della professione di giornalista (obbligo del rispetto della verità unitamente a quello dei doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede), ma occorrono gravi e ripetute lesioni dei menzionati principi, determinati da un comportamento corrivo e, quindi, produttivo di danno sociale. (Cass. pen., 3 giugno 1983; Riviste: Cass. Pen., 1984, 2190).


 


In caso di condanna per diffamazione a mezzo stampa consegue l'interdizione dalla professione per il giornalista che abbia commesso tale reato, in quanto, ove non volesse considerarsi abuso della professione il reato previsto dall'art. 595 Cp, risulterebbe comunque violato il dovere di “osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui” (art. 2 della legge n. 69 del 1963) e di conseguenza integrato il presupposto stabilito dall'art. 31 Cp. (Trib. Perugia, 19 giugno 1985; Riviste: Dir. Informazione e Informatica , 1986, 117, n. Pisa).


 


La sospensione cautelare dalla professione. Una cronista de “La Stampa” è stata sospesa il 22 ottobre 1998 dalla professione per due mesi con un’ordinanza del Gip della Pretura di Torino. La giornalista avrebbe reperito una fotografia spacciandosi, secondo l’accusa, per poliziotta. Il provvedimento, previsto dall’articolo 290 del Codice di procedura penale, è una “misura cautelare interdittiva”. La vicenda presenta aspetti penali e deontologici di rilievo, qualora i fatti dovessero trovare conferma in sede di rinvio a giudizio e di dibattimento.


Aspetto penale. L’articolo 290 del Codice di procedura penale prevede che il giudice possa “interdire temporaneamente all’imputato, in tutto o in parte, le attività ad esso inerenti”. L’articolo 31 del Codice penale, invece, stabilisce che “ogni condanna per delitti commessi con l’abuso di una professione  o con la violazione dei doveri ad essa inerenti, importa l’interdizione temporanea dalla professione”. “L’interdizione da una professione - dice l’articolo 30 Cp - non può avere una durata inferiore a un mese né superiore a cinque anni”.


Risvolto deontologico. Il giornalista che si spaccia per poliziotto infrange le regole etiche fissate dall’articolo 2 della legge 69/1963 sull’ordinamento della professione; in particolare il dovere della lealtà e della buona fede. Viola,  inoltre, anche il Codice di deontologia sulla privacy. Pubblicato nella “Gazzetta Ufficiale” del 3 agosto e in vigore dal successivo 18 agosto, il Codice è una norma di rango secondario al cui rispetto sono tenuti tutti coloro che svolgono la professione giornalistica e anche i cittadini che scrivono sui giornali pur non figurando nell’albo tenuto dall’Ordine.


L’articolo 2 del Codice di deontologia sulla privacy obbliga il giornalista “che raccoglie notizie” a rendere nota la propria identità, la propria professione e le finalità della raccolta, salvo che ciò comporti rischi per la sua incolumità o renda altrimenti impossibile l’esercizio della funzione informativa” Il giornalista, inoltre, deve evitare “artifici e pressioni indebite”. C’è da osservare, infine, che l’articolo 9 della legge 675/1996 sulla privacy impone la raccolta dei dati “con correttezza e in modo lecito”, mentre la stessa legge esplicitamente qualifica come "dato personale" qualsiasi informazione che consenta di identificare un soggetto, quindi anche le fotografie.


Il  Consiglio dell’Ordine dei giornalisti del Piemonte è tenuto ad aprire il procedimento disciplinare e a notificare questa misura all’interessata. Poi, però, deve fermarsi, perché l’accertamento penale è prioritario rispetto a quello disciplinare. Questo vincolo è imposto dall’articolo 58 della legge 69/1963. Emerge, quindi, che il Gip non abbia usurpato i poteri dell’Ordine. Il giudice ha svolto un’azione parallela e autonoma rispetta a quella dell’Ordine stesso; in sostanza una attività di “supplenza” in quanto l’Ordine del Piemonte non può adottare alcun provvedimento una volta avviata l’istruttoria penale. A questo punto si può discutere solo sull’opportunità del provvedimento cautelare, che è insolito in una fase processuale ancora molto lontana dalla sentenza di primo grado.


 


9. Il ruolo moderno dell’Ordine posto a tutela degli interessi della collettività. Gli Ordini, enti pubblici, hanno la specifica competenza della tenuta dell’albo, dei giudizi disciplinari, della proposta della tariffa professionale nonché della liquidazione dell’onorario. Tali funzioni sono assegnate a tutela non degli interessi della categoria professionale ma della collettività nei confronti dei professionisti: tale principio è fissato nella sentenza n. 254/1999 del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana (magistratura equiparata al Consiglio di Stato).  Molti sostengono, invece,  che  “gli Ordini hanno la finalità di tutelare (solo) gli interessi della categoria”.  Ma non è così. Secondo il Consiglio della Giustizia amministrativa della regione siciliana, invece, gli Ordini, devono tutelare gli interessi dei clienti dei professionisti. “Le specifiche competenze della tenuta dell’albo, dei giudizi disciplinari, della redazione e della proposta della tariffa professionale nonché della liquidazione dei compensi — scrive il Cgars – sono assegnate dalla legge agli Ordini essenzialmente per la tutela della collettività nei confronti degli esercenti la professione, la quale solo giustifica l’obbligo dell’appartenenza all’Ordine, e non già per una tutela degli interessi della categoria professionale che farebbe degli Ordini un’abnorme figura d’associazione obbligatoria, munita di potestà pubblica, per la difesa di interessi privati settoriali”. Un concetto, questo, che prefigura un ruolo moderno degli Ordini non più intesi come corporazione ma come enti pubblici che  concorrono ad attuare valori e finalità propri della Costituzione repubblicana.


 


10) Diffamazione, quotidiani e tribunale competente: da Monza una sentenza che declassa il  giudice del luogo dove il giornale viene stampato 


 


REPUBBLICA ITALIANA


 


In nome del Popolo Italiano


 


TRIBUNALE DI MONZA - Sezione IV Civile


 


Il Tribunale di Monza, Quarta Sezione Civile, in persona del G.I.


 


dott. Piero CALABRO’


 


in funzione di Giudice Unico


 


ha pronunziato la seguente


 


S E N T E N Z A


 


nella causa civile iscritta al R.G. n.8466/00, promossa con atto di citazione notificato in data 28.9.2000


 


da


 


CORIMME – Consorzio per lo sviluppo della microelettronica nel Mezzogiorno, rappresentato e difeso dagli avv.ti A.Leopardi, A.Floresta e S.Muto, presso il cui studio in Carate Brianza via G.Donizetti n.39 ha eletto domicilio…………………………………………………...ATTORE


 


contro


 


FELTRI Vittorio e SOCIETA’ EUROPEA DI EDIZIONI spa, rappresentati e difesi dagli avv.ti C.Granelli e S.Scandura, presso il cui studio in Monza via Manzoni n.33 hanno eletto domicilio…...CONVENUTI


 


NOCERA Giuseppe, rappresentato e difeso dagli avv.ti L.Cappellari e S.Scandura, presso il cui studio in Monza via Manzoni n.33 ha eletto domicilio…………………………………………………..CONVENUTO


 


Oggetto : risarcimento danni da diffamazione a mezzo stampa


 


SVOLGIMENTO DEL PROCESSO. Con atto di citazione notificato in data 28.9.2000 il CORIMME – Consorzio per lo sviluppo della microelettronica nel Mezzogiorno conveniva in giudizio, innanzi a questo Tribunale,  NOCERA Giuseppe, FELTRI Vittorio e la SOCIETA’ EUROPEA DI EDIZIONI spa (rispettivamente giornalista, direttore responsabile ed editrice del quotidiano “Il Giornale”) per sentirli condannare in solido al risarcimento dei danni patrimoniali, morali ed all’immagine (quantificati in complessive lire 4.500.000.000 pari attualmente ad Euro 2.324.056,05 ) sofferti a causa del contenuto diffamatorio di un articolo di stampa dal titolo “La ricerca fantasma fruttava miliardi” pubblicato sul predetto quotidiano  nella edizione del giorno 19.7.1997  .


Ritualmente costituitesi in giudizio, le parti convenute contestavano in fatto e diritto l’avversa domanda e ne chiedevano la reiezione, eccependo in via preliminare la incompetenza territoriale del Tribunale adìto.


Il NOCERA, inoltre, a propria volta spiegava domanda riconvenzionale di condanna dell’attore al ristoro dei danni sofferti per essere stato ingiustamente accusato della anzidetta condotta diffamatoria.


Inutilmente esperito il tentativo di conciliazione, compiutamente trattato il processo e precisate, come in epigrafe ( allegati I – II – III – IV ) , le conclusioni delle parti, la causa era trattenuta  per la decisione dal G.I. in funzione di giudice unico ex artt.190bis CPC e 88 legge 353/1990.


MOTIVI DELLA DECISIONE. L’eccezione di incompetenza territoriale sollevata dalla difesa dei convenuti è fondata e va accolta.


Come è noto, in materia di risarcimento del danno da diffamazione a mezzo stampa oltre al foro generale del convenuto concorrono, in applicazione dell’art.20 CPC ed attesa la natura di debito di valore della correlativa obbligazione da fatto illecito, il foro del luogo ove il danneggiante ha la residenza o il domicilio ( “forum destinatae solutionis” ) ed il foro del luogo ove il quotidiano è stampato ovvero dove la notizia è stata per la prima volta divulgata ( “forum commissi delicti” ).


Nel caso di specie, è indiscusso che nessuna delle parti convenute abbia residenza, domicilio ovvero sede nel circondario del Tribunale di Monza (NOCERA Giuseppe  risiede in Milano; FELTRI Vittorio risiede in Ponteranica prov.di Bergamo; la SOCIETA’ EUROPEA DI EDIZIONI spa ha sede in Milano), di talchè ai sensi degli artt.18 e 19 CPC (quanto al foro del convenuto)  e dell’art.20 CPC (quanto al  “forum  destinatae solutionis”) competenti territorialmente sono i Tribunali di  Milano e di Bergamo.


Oggetto di discussione tra le parti è, peraltro, la individuazione del “locus commissi delicti” e del foro in tal senso competente.


Sostiene il consorzio attoreo che, poiché il quotidiano in questione viene stampato (anche) in Paderno Dugnano, dovrebbe ritenersi per tale circostanza radicata la competenza territoriale di questo Tribunale, non avendo alcuna rilevanza le modalità di trasmissione ai vari stabilimenti tipografici dislocati sul territorio nazionale dei testi impaginati presso la redazione milanese de “Il Giornale”.


Poiché, peraltro, la ratio dell’individuazione del luogo ove è compiuto il fatto illecito diffamatorio deve necessariamente essere ancorata alle potenzialità lesive della pubblicazione incriminata ( in altri termini , al momento della sua prima possibile divulgazione ) , deve ritenersi indispensabile esaminare, senza alcun preconcetto interpretativo, proprio le nuove modalità di impaginazione e stampa materiale delle moderne pubblicazioni, nonché ogni altra circostanza che, anche prima della stampa vera e propria, ne possa determinare la diffusione.


Orbene, è notorio innanzitutto che  “Il Giornale”, così come i maggiori quotidiani nazionali, viene impaginato da una redazione centrale e trasmesso via cavo ad una pluralità di stabilimenti tipografici  decentrati  (indicati dai convenuti, senza alcuna contraria allegazione dell’attore, in quelli di Paderno Dugnano, Orticola, Catania, Cagliari, Vitulano e Roubaix).


Non solo, ma è altrettanto notorio che “Il Giornale” , unitamente ai maggiori quotidiani nazionali , viene trasmesso in anteprima (cioè, prima della sua stampa materiale presso gli stabilimenti tipografici periferici e della sua diffusione cartacea) dalle redazioni delle testate giornalistiche televisive nazionali che, nel corso delle edizioni notturne precedenti l’uscita del quotidiano in edicola, danno lettura delle notizie di maggior rilievo, mostrando anche l’immagine relativa allo stampato.


Come può, dunque, il giudicante non tener conto di tale moderna evoluzione nella procedura di stampa e diffusione dei quotidiani, quantomeno ai fini della individuazione del momento (anteriore alla stampa materiale delle edizioni “locali”) della possibile  divulgazione del giornale ?


A nulla rileva l’obiezione che, in sede di anteprima televisiva, viene data una lettura sommaria limitata ai titoli ed ai sottotitoli più rilevanti dei quotidiani, posto che, ad esempio, nel caso di pecie il consorzio attoreo lamenta di essere stato diffamato anche dalla titolazione e sottotitolazione dell’articolo a firma Giuseppe NOCERA pubblicato in data 19.7.1997 da “Il Giornale”.


Quel che rileva, invece, è la concreta potenzialità lesiva derivante dalla divulgazione, tramite il mezzo televisivo e la trasmissione agli stabilimenti periferici, dei titoli e dei testi redatti nella sede centrale del quotidiano.


Tale conclusione è sostanzialmente condivisa anche dalla recente giurisprudenza della Suprema Corte che, nell’ipotesi in cui il quotidiano sia stampato in edizioni teletrasmesse nelle varie zone del territorio nazionale, ha statuito che “il forum commissi delicti è quello in cui ha sede la redazione centrale del quotidiano e non quello delle trasmissioni in facsimile delle copie a diffusione regionale” (Cass.11.4.2000 n.4599).


Poiché il quotidiano “Il Giornale” viene  redatto ed impaginato dalla redazione centrale di Milano (circostanza non seriamente e puntualmente contestata in giudizio), non v’è dubbio che, sotto il profilo del “locus commissi delicti”, il foro competente sia quello del Tribunale di quella città.


Deve, conseguentemente, essere dichiarata la incompetenza territoriale del Tribunale di Monza, competenti essendo il Tribunale di Milano ( luogo di residenza e sede rispettivamente dei convenuti NOCERA Giuseppe e SOCIETA’ EUROPEA DI EDIZIONI spa,nonché “locus commissi delicti”) ovvero il Tribunale di Bergamo ( luogo di residenza del convenuto FELTRI Vittorio ) .


Le spese processuali possono essere dichiarate interamente compensate tra le parti, attese la oggettiva difficoltà delle questioni trattate e la parziale novità della soluzione adottata.


La presente sentenza va, ex lege e per quanto di ragione, munita della clausola di cui all’art.282 CPC.


p.q.m.


Il Tribunale, pronunziando sulla domanda proposta con atto di citazione notificato in data 28.9.2000 dal CORIMME – Consorzio per lo sviluppo della microelettronica nel Mezzogiorno  nei confronti di NOCERA Giuseppe, FELTRI Vittorio e della SOCIETA’ EUROPEA DI EDIZIONI spa , così provvede:


1)dichiara l’incompetenza territoriale del Tribunale di Monza, competenti essendo per territorio il Tribunale di Milano ovvero il Tribunale di Bergamo;


2)visto l’art.50 CPC, assegna alle parti termine di mesi 6 dalla comunicazione della presente decisione per la riassunzione della controversia innanzi al Tribunale territorialmente competente;


3)dichiara interamente compensate, tra le parti, le spese processuali;


4)dichiara la presente sentenza provvisoriamente esecutiva.


MONZA, 27.5.2002        IL GUDICE UNICO/ESTENSORE  (dott. Piero Calabrò)


 


Nei procedimenti per reati commessi con il mezzo della stampa, la competenza per territorio va determinata con riferimento al luogo di cd. "prima diffusione", il quale di solito coincide con quello della stampa, nella ragionevole presunzione che, una volta uscito lo stampato dalla tipografia, si verifica l'immediata possibilità che esso venga letto da altre persone e, quindi, la diffusione dello stesso in senso potenziale. (Nella specie, riferita a pretesa diffamazione consumata in un articolo di cronaca locale di un quotidiano a diffusione nazionale stampato in Roma, la Corte ha ritenuto la competenza del tribunale di Ascoli Piceno sul rilievo che nel territorio del relativo circondario aveva sede, all'epoca dei fatti, la tipografia in cui si stampavano le edizioni provinciali del giornale). (Cass. pen. Sez.I 26-11-2002, n. 41038; Calabrese; FONTI Riv. Pen., 2003, 577).


 


11. Diffamazione online: Cassazione ribalta le regole. Competente il tribunale in cui risiede il presunto danneggiato. Una sentenza che farà discutere. E' quella con cui la Cassazione ha dettato le regole sui danni, morali e patrimoniali, della diffamazione on-line e stabilisce che su questi, nati da un'offesa lanciata in rete, deve decidere il giudice del luogo in cui la vittima è domiciliata. A detta della Suprema Corte - che ha sentenziato a seguito di una causa scaturita da un ricorso della Banca del Salento nei confronti del tribunale di Lecce - proprio dove c'è la sede principale degli affari e degli interessi del soggetto danneggiato si verifica il danno e il discredito che nasce dall'offesa alla reputazione. Così l'ordinanza della terza sezione civile della Suprema Corte ribalta, per la comunicazione in rete, le regole della diffamazione a mezzo stampa che, generalmente, stabiliscono che il giudice naturale per decidere sulla materia è quello del luogo in cui il giornale viene stampato o quello nel quale chi ha diffamato ha la residenza o il domicilio. Regole che però non valgono per la diffamazione on-line e la richiesta dei conseguenti danni.


LA SENTENZA. Spiega la Cassazione(Cassazione sez. III, civile, ordinanza n° 6591 del 08/05/2002)  che quando un soggetto immette un messaggio in rete, utiilizzando uno spazio web, e quindi creando un sito, o utilizzando un cosiddetto newsgroup, che è in buona sostanza un forum a cui possono accedere tutti gli iscritti, la comunicazione che ne deriva va considerata come effettuata verso tutti i possibili visitatori del sito o i partecipanti al gruppo di discussione. L'immissione in rete del messaggio  non è però ancora, di per sé, offesa alla reputazione. Questa si avrà solo quando i visitatori entreranno nel sito oppure quando i partecipanti al forum leggeranno il messaggio. Il luogo in cui si verifica l'offesa potrebbe essere, prosegue la Cassazione, individuato come quello in cui il primo visitatore del sito ha letto la notizia ritenuta offensiva. Ma ciò «in astratto diventa di difficilissima se non di impossibile individuazione» contrariamente a quanto avviene in tema di offesa arrecata attraverso la stampa. Quando si tratta di Internet, dice ancora la Suprema Corte, il provider mette a disposizione dell'utilizzatore uno spazio web che viene «Allocato presso un suo server» ma l'inserimento dei dati in questo spazio non dipende «da alcuna ulteriore attività del provider né di altro soggetto che si trovi presso il provider stesso o presso il server», dipende esclusivamente dall'attività dell'utilizzatore dello spazio web. Inoltre, per evento dannoso, se si considera la responsabilità in materia di richiesta di risarcimento danni, morali e patrimoniali, non si può considerare il solo fatto illecito in sè. Questo, in assenza di danno, «non da luogo ad alcuna responsabilità». Così poiché il danno risarcibile non si identifica con l'evento illecito generatore del danno, che ne è solo una componente, il luogo in cui è sorta la responsabilità è quello in cui il danno, patrimoniale o morale, che deriva dal fatto illecito che si è verificato.


La massima. Diffamazione via internet: competente giudice del domicilio del danneggiato. In tema di risarcimento del danno extracontrattuale, patrimoniale e morale, per lesione del diritto alla reputazione di una persona giuridica, compiuta mediante l'inserimento nella rete telematica (internet), attraverso un newsgroup, di frasi offensive, il forum commissi delicti, ai fini della individuazione del giudice territorialmente competente a decidere la causa a norma dell'art. 20 c.p.c., va individuato nel luogo di verificazione dei lamentati danni in conseguenza dell'evento diffamatorio, e quindi coincide con il luogo in cui il soggetto offeso ha il proprio domicilio, atteso che, essendo il domicilio la sede principale degli affari e degli interessi, esso rappresenta il luogo in cui si realizzano le ricadute negative dell'offesa alla reputazione (Cass. civ., Sez.III, 08/05/2002, n. 6591).


 


Al di là delle ipotesi in cui il danno attenga anche ad un diritto inviolabile della persona umana, costituzionalmente garantito, nelle quali solamente può configurarsi un danno-evento, la fattispecie causativa di responsabilità aquiliana presuppone il danno risarcibile, e poiché il danno risarcibile non si identifica con l'evento illecito generatore del danno (che è solo una componente - insieme alla condotta ed al nesso di causalità - del fatto illecito), il "luogo in cui è sorta l'obbligazione" è il luogo in cui si è verificato detto danno, patrimoniale o morale, conseguente al fatto illecito. Ciò comporta che, in caso di una lesione della reputazione perpetrata a mezzo Internet lamentata da una persona giuridica, l'obbligazione di risarcire il danno patrimoniale ed il danno morale (tipicamente danni - conseguenze) può ritenersi sorta esclusivamente allorchè i predetti danni si siano verificati, sia pure quale conseguenza dell'evento diffamatorio, e quindi - salva diversa situazione fattuale prospettata dal danneggiato - nel luogo del domicilio o della sede del soggetto offeso, posto che il danno risarcibile diviene concreto con riferimento agli effetti del discredito che derivano al danneggiato nel suo ambiente prima e più che altrove. (Cass. civ. Sez.III (Ord.) 08-05-2002, n. 6591 - Banca 121 Credito pop. salentino, Banca del Salento e Banca 121 e Banca 121 Credito pop. Salentino c. Restaino; FONTI Resp. Civ. e Prev., 2002, 1327 nota di DE CRISTOFARO;BUGIOLACCHI).


 


La diffamazione via internet scatta quando il messaggio è percepito da più persone. Allorché la condotta diffamatoria venga posta in essere con l'utilizzazione di un sito internet, è necessaria la prova della realizzazione dell'evento rappresentato dalla effettiva diffusione del messaggio con percezione da parte di più persone, e quindi la circostanza che effettivamente dei visitatori cybernautici siano entrati nel sito; pertanto, secondo i principi generali del diritto penale, deve ritenersi integrata l'ipotesi del tentativo quando, con l'apertura del sito e l'inserimento delle notizie e messaggi diffamanti, si realizza una condotta idonea tecnicamente e volta in modo non equivoco a diffondere nel web tali contenuti (Trib. Teramo, 30/01/2002).


 


Il giudice italiano è competente a conoscere della diffamazione compiuta mediante l'inserimento nella rete telematica (internet) di frasi offensive e/o immagini denigratorie, anche nel caso in cui il sito web sia stato registrato all'estero e purchè l'offesa sia stata percepita da più fruitori che si trovino in Italia; invero, in quanto reato di evento, la diffamazione si consuma nel momento e nel luogo in cui i terzi percepiscono l'espressione ingiuriosa. (Cass. pen. Sez .V 17-11-2000, n. 4741


P.m.;  FONTI Cass. Pen., 2001, 1832 nota di PERUSIA; Danno e Resp., 2001, 602 nota di SARAVALLE).


 


L'introduzione di informazioni su Internet ha natura di pubblicazione ai  sensi  dell'art. 12 legge n. 633 del 1941, con tutte le implicazioni giuridiche   che   ne   conseguono  sia  sul  piano  civilistico  che penalistico (Trib. Cuneo, 23 giugno 1997; Parti in causa Soc. Milano Finanza ed. c. Soc. Stb e altro; Riviste Giur. piemontese, 1997, 493, n. Galli; Rif. legislativi L 22 aprile 1941 n. 633, art. 12).


 


I news groups, che consentono lo scambio in rete di informazioni ed opinioni su temi specifici tra i soggetti interessati, possono essere creati da ogni utente internet e fanno capo di solito ad una pluralità di elaboratori, che conservano tutti una copia del messaggio inviato ed utilizzano particolari procedimenti per sincronizzare i dati immessi, in modo che da qualsiasi news - server, che ospita quell'area di discussione destinataria dell'intervento, possano essere consultati i messaggi di più recente inserimento. (Trib. Roma 04-07-1998 Banca Salento c. Restaino e altri; FONTI Dir. Informazione e Informatica, 1998, 807 nota di COSTANZO).


 


Nel caso di new - group, ed in particolare di un news - groups non moderato, il news - server si limita a mettere a disposizione degli utenti lo spazio virtuale dell'area di discussione e non ha alcun potere di controllo e vigilanza sugli interventi che vi vengono inseriti e deve pertanto escludersi la legittimazione passiva del suo gestore in procedimenti cautelari avverso affermazioni asseritamente lesive. (Trib. Roma 04-07-1998 Banca Salento c. Restaino e altri; FONTI Dir. Informazione e Informatica, 1998, 807 nota di COSTANZO).


 


In caso di diffamazione consumata mediante i contenuti di un sito Internet, sussiste la responsabilità concorrente del "provider", ancorchè quest'ultimo si sia limitato semplicemente ad ospitare sui propri "server" il contenuto delle pagine "web" predisposti dal cliente, ai sensi dell'art. 18 l. n. 675 del 1996, che estende la regola di cui all'art. 2050 c.c. a colui che tratta dati personali. (Trib. Napoli 08-07-2002 V.L. c. T.V. e altri; FONTI Giur. napoletana, 2002, 427).


 


Affinchè il "provider", che si limiti ad ospitare sui propri "server" i contenuti di un sito Internet predisposto dal cliente, possa rispondere per le attività illecite poste in essere da quest'ultimo, non è possibile ravvisare un'ipotesi di colpa presunta, ma è necessario che sussista la colpa in concreto, ravvisabile, ad esempio, laddove venuto a conoscenza del contenuto diffamatorio di alcune pagine "web", non si attivi immediatamente per farne cessare la diffusione in rete. (Trib. Napoli 08-07-2002 Soc. 9 Netweb c. V.L. e altri; FONTI Giur. napoletana, 2002, 427).


 


L'abuso   del  diritto  di  cronaca  può  concretarsi  anche  tramite  diffusione  di  messaggi  via Internet, poiché il mezzo di diffusione non modifica l'essenza del fatto, valutabile alla stregua dei normali criteri  che  governano  il  libero e lecito esercizio del diritto di cronaca (Trib. Teramo, 11 dicembre 1997; Parti in causa Monte Paschi Siena c. Pinto; Riviste Dir. Informazione e Informatica, 1998, 370, n. Costanzo).


 


Stampa ed editoria - Periodico on line – Prodotto editoriale – Sequestro – Disciplina della legge sulla stampa – Applicabilità – Sussiste. (Legge 62/2001, articolo 1; legge 47/1948, articoli 1, 2, 3 e 5;  Rdlgs 561/1946, articoli 1 e 2).  Alla luce della complessiva normativa in tema di pubblicazioni diffuse sulla rete Internet, risulta ormai acquisito all’ordinamento giuridico il principio della totale assimilazione della pubblicazione cartacea a quella diffusa in via elettronica, secondo quanto stabilito esplicitamente dall’articolo 1 della legge  62/2001. Tale definizione incide  e amplia quella contenuta  nel Rdlg 561/1946 secondo cui non si può procedere al sequestro delle edizioni dei giornali, di pubblicazioni o stampati – contemplati nell’editto della stampa 26 marzo 1848 n. 695 – se non in virtù di una sentenza irrevocabile” . (Tribunale di Milano, II sezione civile, sentenza 10-16 maggio 2002 n. 6127 in Guida al  Diritto n. 47 del 7 dicembre 2002).


 


Stante la assimilazione della pubblicazione cartacea a quella diffusa in via elettronica non è possibile procedere al sequestro di edizioni di giornali o stampati diffusi su Internet se non in virtù di sentenza irrevocabile. (Trib. Milano 15-04-2002 Calabrò e altri; FONTI Dir. Informazione e Informatica, 2002, 568).


 


Anche la pubblicazione su supporto informatico diffuso mediante strumento elettronico, quale la rete Internet, è soggetta alla normativa contenuta nell'art. 1 d.l. 561/1946 che non consente di procedere al sequestro dei giornali e delle altre pubblicazioni, se non in virtù di una sentenza irrevocabile dell'autorità giudiziaria. (Fattispecie nella quale il tribunale del riesame ha confermato il provvedimento di dissequestro di una "pagina Web" - che conteneva un articolo per il quale era stata emessa sentenza di condanna non passata in giudicato in ordine al reato di diffamazione). (Trib. Milano Sez.I (Ord.) 28-05-2002; FONTI Foro Ambrosiano, 2002, 322).


 


E' ammissibile la registrazione presso la cancelleria del tribunale di un giornale pubblicato esclusivamente su Internet, poiché tale forma di pubblicazione rientra nel concetto di prodotto editoriale come definito dall'art. 1 comma 1 l. n. 62 del 2001 (Trib. Salerno, 16/03/2001)


 


Può essere sottoposto a sequestro preventivo ex art. 321 c.p. il sito Internet (inteso come insieme di hardware e software mediante il quale si genera il prodotto telematico sotto forma di trasmissione di flussi di dati) attraverso il quale viene commesso un reato; esso, in quanto prodotto editoriale ai sensi della l. n. 61 del 2001, si deve ritenere sottoposto, anche ai fini penali, alla disciplina riservata alla stampa. Di conseguenza, non trova applicazione l'art. 1 r.d.l. n. 561 del 1946, che limita a tre le copie il sequestro degli stampati disposto dal giudice penale, poichè si tratta di norma non richiamata dall'art. 1 l. n. 62 del 2001, e ontologicamente non applicabile ad Internet (Trib. Latina, 07/06/2001).


 


Nel caso di diffamazione a mezzo Internet è territorialmente competente il giudice civile dove si trova il "server" sul quale sono caricate le pagine contenenti le dichiarazioni diffamanti, salvo che manchino prove certe riguardo all'ubicazione del "server", nel qual caso la competenza va radicata presso il foro del luogo di residenza del danneggiante (Trib. Lecce, 24/02/2001).


 


L'attività di "provider" va ricondotta all'appalto di servizi informativi via "internet" ed è disciplinata, nei rapporti tra le parti, in base alla loro autonomia contrattuale integrata secondo la disciplina generale civilistica; è pertanto consentito che - ai sensi delle specifiche pattuizioni tra "provider" e suo utente - questi pretenda che non gli sia trasmessa posta in esubero o proveniente da determinati indirizzi non graditi, così come è consentito che il "provider" - in ossequio ai generali principi ex art. 1175 e 1375 c.c. - eviti di esporre l'utente al c.d. "spamming", ossia all'invio a pioggia di una tale massa di messaggi non richiesti da ingolfare il terminale dell'utente stesso (Trib. Prato, 16/10/2001).


 


Poiché il "link" ipertestuale è strumento di estensione della gamma di prodotti offerti dal sito di partenza, che finisce con il comprendere mediatamente anche prodotti pubblicizzati in siti diversi, si può, in sostanza, affermare che possono ritenersi offerti in vendita su un sito internet tutti quei prodotti che sono pubblicizzati su altri siti comunque raggiungibili da quello di partenza mediante "links" ipertestuali. Con la conseguenza che non può valere ad escludere un'ipotesi di lesione del diritto al marchio o una condotta di concorrenza sleale il fatto che il sito di partenza contraffattore non offra direttamente il servizio affine, ma consenta l'accesso al sito in cui vengono offerti prodotti o servizi commercialmente identici o affini a quelli offerti dal titolare del marchio (Trib. Monza, 14/05/2001).


 


Il giudice italiano è competente a conoscere della diffamazione compiuta mediante l'inserimento nella rete telematica (internet) di frasi offensive e/o immagini denigratorie, anche nel caso in cui il sito web sia stato registrato all'estero e purché l'offesa sia stata percepita da più fruitori che si trovino in Italia; invero, in quanto reato di evento, la diffamazione si consuma nel momento e nel luogo in cui i terzi percepiscono l'espressione ingiuriosa (Cass. pen., Sez.V, 17/11/2000, n. 4741).


 


Nel caso di diffusione via internet di messaggi ritenuti diffamatori stante la molteplicità dei luoghi ove l'evento lesivo asseritamente sia contemporaneamente prodotto per effetto della diffusività del mezzo utilizzato, la competenza territoriale non può radicarsi in qualsiasi di tali luoghi, ovvero, in quello ove l'attore sostiene essersi verificato il maggiore danno, in quanto trattasi di criteri opinabili che rendono la regola della competenza ambulatoria ed incerta. Pertanto in assenza di prove in ordine al luogo ove si trova il server sul quale sono caricate le pagine contenenti i messaggi lesivi, deve ritenersi la competenza del foro generale delle persone fisiche che è anche il "forum destinatae solutionis". (Trib. Lecce, 16/11/2000).


 


La  rete  "Internet", quale "sistema internazionale di interrelazione tra  piccole  e grandi reti telematiche", è equiparabile ad un organo di stampa.(Trib. Napoli, 8 agosto 1997 Parti in causa Soc. Pomicino c. Soc. Geredil e altro; Riviste Dir. e Giur., 1997, 472, n. Catalano).


 


Il  titolare  di  un  nome  di  dominio  Internet ha gli obblighi del proprietario  di un organo di comunicazione, poiché la rete Internet, quale  "sistema internazionale di interrelazione tra piccole e grandi reti telematiche", è equiparabile ad un organo di stampa (Trib. Napoli, 8 agosto 1997; Parti in causa  Pomicino c. Soc. Geredil e altro; Riviste Giust. Civ., 1998, I, 259, n. ALBERTINI; Resp. Civ. e Prev., 1998, 173, n. Sanzo).


 


L'onere  di  provare  il contenuto di una pubblicazione "on line" può essere  soddisfatto mediante l'esibizione della riproduzione a stampa delle  pagine  elettroniche  di  cui  si  compone un "sito" Internet (Trib. Napoli, 8 agosto 1997; Parti in causa Soc. Pomicino c. Soc. Geredil e altro; Riviste Dir. e Giur., 1997, 472, n. Catalano; Rif. ai codici CC art. 2598, CPC art. 700).


 


Lo stampatore è il provider, che "concede l'accesso alla rete, nonché lo spazio nel proprio server per la pubblicazione dei servizi informativi realizzati dal fornitore di informazioni" (Trib. Cuneo, 23 giugno 1997): “Il "service provider" che si limiti a concedere l'accesso alla rete, nonchè lo spazio nel proprio "server" per la pubblicazione dei servizi informativi realizzati dal fornitore di informazioni, non è responsabile della violazione del diritto d'autore eventualmente compiuta da quest'ultimo” (Trib. Cuneo, 23/06/1997


 


Per quanto riguarda il giornalismo elettronico, il protocollo contrattuale (2001-2005)  “si applica ai redattori di nuova assunzione utilizzati nelle redazioni di giornali elettronici per la ricerca, elaborazione, commento, invio e verifica delle notizie ed elaborazione di ogni altro elemento di contenuto giornalistico relativo alla ricerca e predisposizione degli elementi multimediali ed interattivi da immettere direttamente nel sistema. Non sono considerate di pertinenza giornalistica prestazioni attinenti alle informazioni di servizio, pubblicitarie e di contenuto commerciale”. Il contratto Fnsi/Fieg 2001-2005 in sostanza ha preso atto che la  pubblicazione cartacea è assimilabile a quella telematica.


 


L'operazione consistente nel fare riferimento, in una pagina internet, a diverse persone e dell'identificarle vuoi con il loro nome, vuoi con altri mezzi, ad esempio indicando il loro numero di telefono o informazioni relative alla loro situazione lavorativa e ai loro passatempo, costituisce un «trattamento di dati personali interamente o parzialmente automatizzato», ai sensi dell'articolo 3, n. 1, della direttiva 95/46/CEE del 24 ottobre 1995, relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati. Un siffatto trattamento di dati personali non rientra in alcuna delle eccezioni che figurano nell'articolo 3, n. 2, della direttiva 95/46/CEE del 24 ottobre 1995. L'indicazione del fatto che una persona si è ferita a un piede e si trova in congedo parziale per malattia costituisce un dato personale relativo alla salute ai sensi dell'articolo 8, n. 1, della direttiva 95/46/CEE del 24 ottobre 1995. (Corte giustizia comunita' Europee 06-11-2003, n. 101 Gota Hovratt c. Lindqvist; FONTI  Guida al Diritto, 2003, 45, 106 nota di FROSINI).


 * Presidente dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia; docente a contratto  di “Diritto dell’informazione” all’Università degli Studi di Milano Bicocca e all’Università Iulm di Milano. 


data 24 gennaio 2006





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