Caro Franco Abruzzo, la mia lettera che ha preso spunto (solo lo spunto) dal “caso Giannino” per sostenere la tesi che è arrivato il momento di rigenerare il giornalismo, necessita di qualche precisazione, così come richiesta dal collega Paolo Maria Rocco. Me la sono presa con il giornalismo-avanspettacolo. E’ vero. Ma non perché ce l’abbia con l’avanspettacolo, quando è tale. No, ce l’ho con le trasmissioni (in particolare talk-show) che, pur essendo condotte da giornalisti e dichiarate d’informazione, per fare audience puntano tutto sullo spettacolo, cioè sullo show, sia esso vera e propria rissa oppure contraddittorio infiammato. Trasmissioni dove, anche per l’alto numero degli ospiti, il contenuto informativo scade in secondo e terzo piano e a volte non c’è del tutto, per fare spazio, appunto, allo spettacolo.
Ironia e satira. Sono condimenti essenziali del racconto. Un modo di porgere per rendere più interessante il racconto, purché, però, ci sia qualcosa da porgere, purché ci sia informazione. In caso contrario non di giornalismo si tratta ma, anche in questo caso, solo di spettacolo, di teatro. Ma quanti giornalisti professionisti ricorrono all’ironia e alla satira per colmare i loro vuoti informativi? Ecco, questo è il punto.
Ironia e satira sono ingredienti che usati a dismisura soffocano l’informazione. Così come quando si esagera con il politicamente corretto – cioè non si dice anche nei dovuti modi ciò che si pensa – si è soltanto degli ipocriti.
Ma perché me la prendo con questi aspetti? Perché sono gli effetti di una deriva culturale che preferisce (per tanti motivi, anche per non disturbare il manovratore e il padrone) girare intorno agli argomenti piuttosto che affrontarli, preferisce le battute alle analisi, i sorrisini alle incazzature.
Per quanto riguarda direttamente il giornalismo, dico che il concetto di professionismo ha preso il posto della passione, eppure non si può essere giornalisti senza curiosità e senza la voglia pedagogica di informare. Sì, voglia pedagogica, quella che ti dà il piacere di informare gli altri, il pubblico, e non soltanto di metterlo insieme per motivi di audience.
L’Italia sta vivendo una profonda crisi etica e culturale che è tutta sua, a differenza di quella economica che è di tutto l’Occidente. Una crisi che coinvolge anche il professionismo della politica così come ora (ma non da ora) coinvolge anche il professionismo del giornalismo, concepito come status e mestiere (proprio come quello politico) e non come passione di informare, cioè, alla fine, come servizio, anche se si tratta di un servizio che ci dà da lavorare.
I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Giornali anche nazionali che si occupano soltanto del Condominio Italia tanto che se vuoi capire un po’ di più dell’Europa devi leggere i media stranieri. Giornali che preferiscono occuparsi delle tette della Minetti o delle vicende rocambolesche e delinquenziali di Corona mentre se vuoi capire di più anche del Condominio Italia devi aspettare le inchieste della Gabanelli o i servizi di Rizzo e Stella.
Insomma, anche molti giornalisti (senza fare di tutta l’erba un fascio e considerano le eccezioni) sono lontani, per così dire, dal “territorio”, dalla realtà e dai problemi della gente, esattamente come i politici ai quali li accomuna un malinteso senso della “professione”.
La crisi del giornalismo esiste. Eccome! Ed è una crisi culturale e d’identità prima di essere una crisi di copie vendute. Inutile negarlo. Le ragioni possono essere tante ma è opportuno cominciare a discuterne, sennò il giornalismo italiano, forte di un numero di addetti che complessivamente supera quello dei medici di famiglia se non addirittura quello dei metalmeccanici, diventerà sempre più un mestiere a scarso valore aggiunto e perderà in autorevolezza e credibilità.
data, 26 febbraio 2013