(29/12/2013) - Mercoledì 8 gennaio saranno votate alla Camera sette Mozioni presentate da altrettanti Gruppi politici (MOVIMENTO 5 STELLE, FRATELLI D'ITALIA, SEL, SCELTA CIVICA, PD, LEGA e NUOVO CENTRODESTRA) e firmate da ben 121 deputati, cioè addirittura da un quinto dell'assemblea di Montecitorio. In discussione sono ulteriori pesanti tagli per i titolari di pensioni impropriamente definite "d'oro".
Evidentemente ai nostri parlamentari non sono bastate le discutibili e gravose misure già inserite nella legge di stabilità per il 2014 che prevedono sia il blocco per il 3° anno consecutivo dopo il biennio 2012 e 2013 della perequazione dei vitalizi di importo superiore ai 38 mila 646 euro lordi l'anno, sia un nuovo più incisivo taglio degli assegni pagati mensilmente dall'INPS e dagli altri enti previdenziali su tutte le pensioni pubbliche e private superiori ai 90 mila 168 euro annui lordi già bocciato dalla Consulta appena 7 mesi fa con la sentenza 116/2013.
Dall'esame delle 7 diverse Mozioni si ha, però, la netta sensazione che molti deputati non abbiano ben colto i passaggi essenziali di questa sentenza (che ha valore di legge) o, peggio, li abbiano del tutto travisati. E' quindi opportuna una serena rilettura di questa fondamentale decisione, che ha, invece, indicato un'altra via più equa e corretta per la soluzione del problema, strada poi ripresa saggiamente due settimane fa dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che si aggancia ad un concetto di assoluto buon senso che può essere così sintetizzato: "In presenza di una gravissima crisi economica come quella che si sta vivendo ormai da alcuni anni in Italia, lo Stato è legittimato a richiedere ai cittadini dei pesanti sacrifici adottando anche misure fiscali straordinarie, ma ad un'unica condizione, quella cioè che vengano colpiti indistintamente tutti i contribuenti a parità di reddito denunciato al fisco, e non solo ed unicamente la categoria dei pensionati".
Questo è il sacrosanto principio fissato il 5 giugno scorso (con la sentenza n. 116) della Corte Costituzionale, presieduta dal professor Franco Gallo, che ha cancellato "perché aventi natura tributaria" i tagli (rispettivamente del 5%, 10% e 15%) su tutte le pensioni pubbliche e private superiori, rispettivamente, ai 90 mila, ai 150 mila e ai 200 mila euro lordi l’anno, introdotti nell'estate 2011 dal governo Berlusconi e poi confermati dal governo Monti.
Questo concetto, pur essendo facilmente comprensibile, viene tuttavia respinto quasi per partito preso da molti parlamentari che preferiscono prendersela, invece, con la categoria più debole e che ha sempre puntualmente pagato le tasse, cioè i pensionati, anziché con tutti i cittadini che guadagnino annualmente le stesse cifre, come ad esempio, lavoratori dipendenti pubblici e privati, manager, lavoratori autonomi, liberi professionisti, artigiani, atleti, calciatori, allenatori, piloti, ecc. Forse, però, gli uomini politici stanno facendo male i conti in vista di future elezioni, pensando che la categoria dei pensionati conti molto poco, perché l'esito delle urne potrebbe essere ben diverso dalle loro attese.
Nella motivazione della sentenza n. 116 i giudici di palazzo della Consulta hanno ritenuto irragionevole e discriminatorio e quindi illegittimo tale prelievo sui vitalizi di centinaia di ex magistrati, avvocati dello Stato, ambasciatori, ammiragli, generali, docenti universitari, manager pubblici, dirigenti e alti funzionari pubblici, notai, avvocati, manager privati, nonché di circa mille giornalisti in pensione. Motivo: si tratta di "un intervento impositivo irragionevole e discriminatorio ai danni di una sola categoria di cittadini" con violazione del principio dell’uguaglianza a parità di reddito, attraverso un’irragionevole limitazione della platea dei soggetti passivi, e della progressività del sistema tributario".
Per effetto dell'importante pronuncia divenuta operativa dal 13 giugno (giorno successivo alla sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale) tutti questi pensionati (io non sono tra loro) hanno già avuto la restituzione di quanto tagliato nel 2013 ed avranno anche diritto automaticamente al rimborso da parte dell'INPS e degli altri enti previdenziali (INPGI, Cassa del Notariato, Cassa Forense, ecc., compresi) di quanto é stato loro illegittimamente trattenuto per 17 mesi a partire dall’agosto 2011 e fino al 31 dicembre 2012, come prevede il comma 287 dell'art. 1 della legge di stabilità del 2014.
L'Alta Corte ha accolto le eccezioni sollevate dalla Corte dei Conti della Campania e del Lazio cui si erano rivolti un centinaio di ex presidenti di Cassazione, Corti d'appello, tribunali, Consiglio di Stato, Tar Lazio, Corte dei Conti, giudici militari, avvocati dello Stato e un ammiraglio. La Consulta ha dichiarato l'incostituzionalità dell'art. 18, comma 22-bis, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, come modificato dall’articolo 24, comma 31-bis, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214 perché tali norme violavano apertamente gli articoli 3 e 53 della Costituzione.
All'indomani del deposito in cancelleria dell'importante verdetto la maggior parte dei commenti su giornali, radio, tv ed internet si è purtroppo incentrata nel criticare la sentenza della Corte Costituzionale riportando giudizi affrettati di uomini politici e sindacalisti che neppure l’avevano letta, creando ingiustificatamente solo confusione e fantasiose ipotesi scandalistiche tra i cittadini e contribuendo ad alimentare senza ragione un clima di tensione, quasi di odio sociale, del tutto fuori luogo.
Ma é davvero corretto commentare a vanvera sulla stampa una sentenza della Corte Costituzionale senza neppure averne letto l’articolata e ben argomentata motivazione, redatta dal professor Giuseppe Tesauro, ma aprendo bocca e dando fiato alle proprie tesi di comodo arrampicandosi sugli specchi?
A mio parere i giudici di palazzo della Consulta hanno, invece, dato ancora una volta dimostrazione di saggezza, buon senso, equilibrio ed equità, limitandosi ad applicare rigorosamente la Carta repubblicana ed infischiandosene delle pressioni politiche e di alcuni sindacalisti che, purtroppo, solo a chiacchiere dimostrano di tutelare effettivamente i propri iscritti.
Titoli giornalistici come quello: “sulle pensioni d'oro i ricchi non pagano mai”, ovvero: “Prelievo sulle pensioni d'oro illegittimo? I sindacati non ci stanno: "a pagare la crisi sono le fasce più deboli", possono a prima vista fare effetto, quasi fosse uno scoop. Ma una volta ben analizzata la questione finiranno per ritorcersi come un boomerang contro chi ha scritto una simile congerie di sciocchezze, prive di qualsiasi valore giuridico.
Innanzitutto è assolutamente improprio parlare di “pensioni d’oro” di fronte a lavoratori dipendenti che hanno versato contributi previdenziali per 40-45 o addirittura anche per più di 50 anni!! Parliamo di contribuenti che hanno sempre puntualmente pagato le tasse senza evadere nulla. Si pensi, ad esempio, ad alti magistrati rimasti in servizio fino a 75 anni che abbiano versato contributi previdenziali per 50 anni all'ex INPDAP (ora INPS). Come si fa a definire "d'oro" la loro pensione, vista sia la ridotta aspettativa di vita, sia la perdita secca di 10 anni di contributi, tenendo conto che le pensioni degli statali non possono comunque essere calcolate su più di 40 anni di versamenti?
“D’oro” saranno semmai le baby pensioni, maturate in giovane età con pochissimi anni di contributi (con un costo annuale per lo Stato di 7,5 mld), o i vitalizi di molti parlamentari creati spesso per miracolo quasi dal nulla, grazie ad un’anomala interpretazione dell’art. 31 dello Statuto dei lavoratori in vigore da 43 anni che ha causato finora un buco nel bilancio dello Stato di almeno 6 miliardi di euro!
Ma non possono assolutamente essere chiamate “d’oro” pensioni frutto di un lunghissimo periodo di lavoro subordinato coincidente il più delle volte con l’intera vita lavorativa. Usare questo termine appare quindi ingiusto, improprio e fuorviante.
In secondo luogo l’articolo 3 della Costituzione stabilisce che “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. A sua volta il successivo art. 53 prevede che: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”.
Sono parole di una chiarezza esemplare che anche chi non é laureato sarebbe in grado di interpretare facilmente. Quando la nostra Carta repubblicana indica il termine “tutti” sta a significare che nessuno - a parità di reddito dichiarato al fisco - può sottrarsi ad una contribuzione a favore dello Stato. E’ un principio basilare, quanto elementare, cui tutti - governo Letta-Alfano e Parlamento - debbono sottostare, evitando di prendere nuove analoghe decisioni sbagliate nei confronti dei pensionati.
Peraltro va ricordato che il comma 483 lettera E della legge di stabilità prevede un ulteriore blocco della rivalutazione monetaria ISTAT sulle pensioni superiori ai 38 mila 646 euro lordi l'anno fino al 31 dicembre 2014 (così come era già avvenuto nel 1998, nel 2008 e nel biennio 2012-2013) con una notevole perdita secca e irrecuperabile, ma anch'essa di dubbia legittimità costituzionale perché di fatto l'importo netto medio di queste pensioni é oggi inferiore ai valori di quattro anni fa.
Per quanto riguarda poi i liberi professionisti, giornalisti compresi, di età superiore ai 65 anni che da pensionati continuino a lavorare è in vigore da due anni l'obbligo di pagare una seconda contribuzione previdenziale alla Gestione Separata INPS o delle Casse privatizzate, INPGI compreso. Un obbligo imposto dal governo Berlusconi che appare anch'esso molto discutibile perché di fatto rappresenta un'ulteriore forma impropria di tassazione.
Ma torniamo al verdetto della Consulta.
I giudici, come detto, hanno stabilito che non si può colpire una sola categoria di contribuenti, cioè quella dei pensionati pubblici e privati (come erroneamente avevano, tra l'altro, sostenuto l'Avvocatura generale dello Stato e l'INPS), escludendo a parità di reddito tutte le altre.
Infatti la disposizione di cui comma 22-bis dell'art. 18 del decreto-legge n. 98/2011, convertito, con modificazioni, nella legge n. 111/2011 e successive modificazioni e integrazioni, recante l'introduzione di un'imposta speciale, ancorché transitoria («a decorrere dal 1° agosto 2011 e fino al 31 dicembre 2014») ed eccezionale («In considerazione della eccezionalità della situazione economica ...») a carico dei soli «trattamenti pensionistici corrisposti da enti gestori di forme di previdenza obbligatoria», penalizzava ingiustamente tutti i titolari di pensioni - pubblici e privati, compresi i giornalisti iscritti all'INPGI - di importo superiore ai 90 mila euro lordi l'anno.
Per tale ragione si poneva in contrasto con il principio di parità di prelievo a parità di presupposto d'imposta economicamente rilevante. La disparità di trattamento non era quindi riferita alla posizione dei pensionati pubblici rispetto ai pensionati privati, come erroneamente sostenuto dalla Corte dei Conti della Campania, ma alla diversa e ingiustificata posizione dei pensionati pubblici e dei pensionati privati, pretermettendo tutti gli altri contribuenti italiani (lavoratori dipendenti pubblici e privati, manager, lavoratori autonomi, liberi professionisti, artigiani, atleti, calciatori, allenatori, piloti, ecc.), sia il loro reddito superiore o inferiore alla soglia dei 90.000 o dei 150.000 o ei 200.000 euro perchè la suddetta categoria di pensionati é stata così colpita in misura maggiore rispetto ai titolari di altri redditi e, più specificamente, di redditi da lavoro dipendente.
In altri termini, solo se fossero stati contestualmente colpiti anche tutti gli altri contribuenti italiani a parità di reddito sarebbe stato legittimo il taglio delle pensioni di importo superiore ai 90 mila euro lordi l'anno.
Invero, da un lato, a parità di reddito con la categoria dei lavoratori (pubblici o privati), il prelievo é ingiustificatamente posto a carico della sola categoria dei pensionati di enti gestori di forme di previdenza obbligatoria, con conseguente irragionevole limitazione della platea dei soggetti passivi. A tal proposito si deve tener conto che, se l'eccezionalità della situazione economica che lo Stato deve affrontare consente al legislatore di intervenire con strumenti eccezionali, nondimeno é compito dello Stato garantire il rispetto dei principi fondamentali dell'ordinamento costituzionale ed, in particolare, del principio di uguaglianza su cui si fonda l'ordinamento costituzionale.
Un'ulteriore anomalia era costituita dal contributo di solidarietà previsto dall'art. 2, comma 2, del decreto-legge n. 138 del 13 agosto 2011 convertito in legge n. 148 del 14 settembre 2011. Detta norma dispone che «in considerazione dell'eccezionalità della situazione economica internazionale e tenuto conto delle esigenze prioritarie di raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica concordati in sede europea, a decorrere dal 1° gennaio 2011 e fino al 31 dicembre 2013 sul reddito complessivo di cui all'articolo 8 del testo unico delle imposte sui redditi di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e successive modificazioni, di importo superiore a 300 mila euro lordi annui, é dovuto un contributo di solidarietà del 3 per cento sulla parte eccedente il predetto importo. Ai fini della verifica del superamento del limite di 300 mila euro rilevano anche il reddito di lavoro dipendente di cui all'articolo 9, comma 2, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, al lordo della riduzione ivi prevista, e i trattamenti pensionistici di cui all'articolo 18, comma 22-bis, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, al lordo del contributo di perequazione ivi previsto. Il contributo di solidarietà non si applica sui redditi di cui all'articolo 9, comma 2, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, e di cui all'articolo 18, comma 22-bis, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111. Il contributo di solidarietà é deducibile dal reddito complessivo. ...».
Per effetto di questa norma si era venuta a determinare un'ulteriore conseguenza irragionevole ed ingiustificata - con riferimento a interventi «di solidarietà connotati da sostanziale identità di ratio - che i contribuenti titolari di un reddito complessivo superiore a 300 mila euro, erano tenuti al versamento di un contributo di solidarietà del 3% sulla parte di reddito che eccede il predetto importo, qualunque fossero le componenti del loro reddito complessivo, ivi compresi i redditi pensionistici e fermo restando che il contributo medesimo si applica sui redditi ulteriori a quelli già assoggettati al contributo di perequazione.
Al contrario, invece, tutti i contribuenti assoggettati al contributo di perequazione, cioé i titolari di pensioni soggetti al taglio perché superiori a 90 mila euro, erano tenuti a versare (per far fronte alla medesima eccezionale situazione economica) quanto previsto secondo gli scaglioni indicati dall'art. 22-bis del d.l. n. 98/2011, convertito in legge n. 111/2011, come successivamente modificato dall'art. 24, comma 31-bis del d.l. 6 dicembre 2011, n. 201, convertito con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, subendo così assurdamente un prelievo del 15% sui redditi superiori a 200 mila euro.
In sostanza si poteva paradossalmente verificare in concreto una situazione addirittura kafkiana perché oltre la soglia di reddito di 300 mila euro lordi annui, a parità di reddito, si aveva universalmente per tutti i contribuenti un'imposizione del 3%, fatta eccezione, però, per la sola categoria dei pensionati titolari di trattamenti di quiescenza superiori a 90 mila euro, corrisposti da enti gestori di forme di previdenza obbligatoria, un'imposizione del 15% proprio per effetto dei tagli a 90 mila, 150 mila e 200 mila euro!
E ciò in aperta e palese violazione dei canoni costituzionali dell'eguaglianza e della ragionevolezza stabiliti dall'art. 3, nonché del principio della capacità contributiva e del criterio di progressività delle imposte sanciti dall'art. 53 della Carta repubblicana. Di qui l'irrazionalità della normativa per irragionevole ed arbitrario disallineamento derivante dall'asimmetricità, nel meccanismo impositivo del contributo di solidarietà, dei presupposti reddituali di esclusione.
Su questo solo punto c'è ora convergenza di vedute tra Governo, Parlamento e Consulta. Difatti nel comma 590 della legge di stabilità del 2014 è confermato il contributo di solidarietà del 3% sui redditi superiori ai 300.000 euro lordi l'anni, tranne, però, sui trattamenti pensionistici, anche perché nel frattempo sono stati riassoggettati dal comma 486 della legge di stabilità ad un ben più pesante taglio: 6% sulle pensioni superiori ai 90 mila 168 euro lordi l'anno (cioé oltre 14 volte il trattamento minimo INPS) e fino a 128 mila 812 euro lordi l'anno (cioé fino a 20 volte il trattamento minimo INPS); 12% oltre i 128 mila 812 euro lordi l'anno (cioé oltre 20 volte il trattamento minimo INPS) e fino a 193 mila 218 euro lordi l'anno (cioé fino a 30 volte il trattamento minimo INPS); e 18% oltre i 193 mila 218 euro lordi (cioé oltre 30 volte il trattamento minimo INPS).
I più penalizzati dal comma 486 saranno i titolari di vitalizi compresi nella fascia tra i 128 mila 812 euro lordi l'anno (cioé oltre 20 volte il trattamento minimo INPS) e fino a 150 mila euro lordi l'anno che si vedranno assoggettati ad un taglio del 12% contro il precedente 5% e quindi tartassati con una trattenuta su questa differenza superiore addirittura del 7% rispetto alla normativa anteriore alla decisione dell'Alta Corte del 5 giugno scorso.
In conclusione, la Corte Costituzionale ha bocciato la normativa varata due anni fa dal governo Berlusconi e confermata dal governo Monti proprio perché integrava una decurtazione patrimoniale definitiva del trattamento pensionistico, con acquisizione al bilancio statale del relativo ammontare, che presentava tutti i requisiti per caratterizzare il prelievo come tributario.
Difatti “i redditi derivanti dai trattamenti pensionistici non hanno, per questa loro origine, una natura diversa e minoris generis rispetto agli altri redditi presi a riferimento, ai fini dell’osservanza dell’art. 53 Cost., il quale non consente trattamenti in pejus (cioé peggiorativi, ndr) di determinate categorie di redditi da lavoro”. E "se da un lato l’eccezionalità della situazione economica che lo Stato deve affrontare è suscettibile di consentire il ricorso a strumenti eccezionali, nel difficile compito di contemperare il soddisfacimento degli interessi finanziari e di garantire i servizi e la protezione di cui tutti cittadini necessitano, dall’altro ciò non può e non deve determinare ancora una volta un’obliterazione dei fondamentali canoni di uguaglianza, sui quali si fonda l’ordinamento costituzionale”.
Nel caso di specie, peraltro, "il giudizio di irragionevolezza dell’intervento settoriale appare ancor più palese, laddove si consideri che la giurisprudenza della Corte ha ritenuto che il trattamento pensionistico ordinario ha natura di retribuzione differita (fra le altre sentenza n. 30 del 2004, ordinanza n. 166 del 2006); sicché il maggior prelievo tributario rispetto ad altre categorie risulta con più evidenza discriminatorio, venendo esso a gravare su redditi ormai consolidati nel loro ammontare, collegati a prestazioni lavorative già rese da cittadini che hanno esaurito la loro vita lavorativa, rispetto ai quali non risulta più possibile neppure ridisegnare sul piano sinallagmatico il rapporto di lavoro".
A fronte di un analogo fondamento impositivo, dettato dalla necessità di reperire risorse per la stabilizzazione finanziaria, il legislatore ha scelto di trattare diversamente i redditi dei titolari di trattamenti pensionistici: il contributo di solidarietà si applica su soglie inferiori e con aliquote superiori, mentre per tutti gli altri cittadini la misura è ai redditi oltre 300 mila euro lordi annui, con un’aliquota del 3 per cento, salva in questo caso la deducibilità dal reddito.
La Consulta ha, infine, "bacchettato" i governi Berlusconi e Monti rilevando che se lo Stato avesse colpito tutti i contribuenti, e non solo i pensionati, avrebbe incassato molto di più dei 26 milioni di euro annui percepiti esclusivamente dai vitalizi. Nella sentenza n. 116/2013 si ribadisce infatti che la sostanziale identità di ratio dei differenti interventi “di solidarietà”, determina un giudizio di irragionevolezza ed arbitrarietà del diverso trattamento riservato alla categoria colpita, «foriero peraltro di un risultato di bilancio che avrebbe potuto essere ben diverso e più favorevole per lo Stato, laddove il legislatore avesse rispettato i principi di eguaglianza dei cittadini e di solidarietà economica, anche modulando diversamente un “universale” intervento impositivo».
E proprio su questa linea si è mosso in silenzio il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, suggerendo 2 settimane fa al Parlamento di cancellare i nuovi tagli sulle sole pensioni superiori ai 90 mila 168 euro lordi l'anno ma, in cambio, di alzare dal 3% al 4% il contributo di solidarietà dovuto da tutti i contribuenti, compresi i "pensionati d'oro", titolari di redditi superiori ai 300 mila euro lordi l'anno. Lo Stato avrebbe avuto, infatti, lo stesso reddito senza, però, creare sconquassi, né conflitti con la Consulta. Ma neppure questo saggio ed illuminato consiglio da parte del supremo Garante della nostra Costituzione è stato sinora recepito dal Governo Letta-Alfano, né da Camera e Senato.
Non si sa perché continuano a "fare orecchie da mercante".
Pierluigi Roesler Franz
Presidente del Gruppo Romano dei Giornalisti Pensionati
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. L’8 gennaio 2014 nell’aula di Montecitorio verranno discusse 7 MOZIONI (CONTRO LE COSIDDETTE "PENSIONI D'ORO") PRESENTATE DA 121 DEPUTATI DI 7 DIVERSI GRUPPI POLITICI (MOVIMENTO 5 STELLE, FRATELLI D'ITALIA, SEL, SCELTA CIVICA, PD, LEGA e NUOVO CENTRODESTRA), PARI AD 1/5 DELL'ASSEMBLEA DI MONTECITORIO. L’obiettivo dei parlamentari – totalmente ignoranti in tema di diritto costituzionale e in particolare in tema di uguaglianza fiscale tra i cittadini – punta “all'introduzione di un prelievo straordinario sui redditi da pensione superiori ad un determinato importo”. E’ un esproprio proletario. Non è possibile ricalcolare le vecchie pensioni retributive con il metodo contributivo: parola di Stefano Fassina viceministro all’Economia. Si annuncia un provvedimento abnorme. Il Presidente della Repubblica e la Corte costituzionale sono l’unica barriera in difesa di chi ha versato nella vita lavorativa 35/40/50 anni di contributi. Le tasse devono avere una portata universale e non possono colpire una sola categoria di cittadini (i pensionati): così dice la sentenza 116/2013 della Consulta. Ma a Montecitorio l’hanno letta? Attuali le paroli di Mario Monti alla Cnn. “Voglio impoverire il Paese (con le tasse), perché gli italiani sono vissuti al di sopra delle loro possibilità”. IN http://www.francoabruzzo.it/document.asp?DID=13584
.Corte costituzionale, sentenza 116/2013 (Presidente GALLO - Redattore TESAURO): illegittimi i prelievi del 5, 10 e 15% sulle pensioni (pubbliche e private) superiori a 90mila, 150mila e 200mila euro. Le norme dei Governi Berlusconi e Monti violano il principio dell’uguaglianza e della progressività del sistema tributario. La sentenza (pubblicata qui sotto) è un monito al Governo Letta. Le norme censurate giudicate “un intervento impositivo irragionevole e discriminatorio ai danni di una sola categoria di cittadini. L’intervento riguarda, infatti, i soli pensionati, senza garantire il rispetto dei principi fondamentali di uguaglianza a parità di reddito, attraverso una irragionevole limitazione della platea dei soggetti passivi, divenuta peraltro ancora più evidente, in conseguenza della dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’analogo prelievo ai danni dei dipendenti pubblici (sentenza n. 223 del 2012). Interessati 930 giornalisti professionisti pensionati INPGI. - In http://www.francoabruzzo.it/document.asp?DID=12224
. Nuova sentenza. La Corte costituzionale ribadisce indirettamente i principi di incostituzionalità dei tagli delle pensioni attraverso la definizione del concetto di tributo (che, come tale, è universale). “La giurisprudenza di questa Corte ha costantemente precisato che gli elementi indefettibili della fattispecie tributaria sono tre: la disciplina legale deve essere diretta, in via prevalente, a procurare una (definitiva) decurtazione patrimoniale a carico del soggetto passivo; la decurtazione non deve integrare una modifica di un rapporto sinallagmatico (che produce obblighi, ndr); le risorse, connesse ad un presupposto economicamente rilevante e derivanti dalla suddetta decurtazione, debbono essere destinate a sovvenire pubbliche spese. Un tributo consiste in un «prelievo coattivo che è finalizzato al concorso alle pubbliche spese ed è posto a carico di un soggetto passivo in base ad uno specifico indice di capacità contributiva»; indice che deve esprimere l’idoneità di tale soggetto all’obbligazione tributaria”. TRADUZIONE: il prelievo previsto dalla legge di stabilità 2014 sulle pensioni superiori a 90mila euro ha natura tributaria per la sua destinazione a “pubbliche spese” e non può ricadere su una parte dei cittadini (i pensionati), mentre i cittadini lavoratori a parità di reddito ne sono esenti. Pubblichiamo la sentenza. – IN http://www.francoabruzzo.it/document.asp?DID=13494