28 maggio 2005 - Il Consiglio dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia ha già dedicato a Walter Tobagi l'Associazione per la Formazione al giornalismo, l’ente privato senza fini di lucro che gestisce la scuola di giornalismo “Carlo De Martino”. Con quella decisione il Consiglio ha voluto far vivere Walter, perché il suo insegnamento è ancora attuale. Attuale non solo per i giornalisti. Nell’imminenza del XXV anniversario dell’assassinio, il Consiglio, d’intesa con l’Associazione lombarda dei Giornalisti di cui Walter è stato presidente tra il 14 settembre 1978 e il 28 maggio 1980, ha preso altre due iniziative: la prima, subito condivisa e accolta con generosità dal vicesindaco di Milano senatore Riccardo De Corato, riguarda la collocazione di una targa in via Salaino dove Walter è stato ucciso. La seconda, invece, concerne la pubblicazione di questo libro, firmato da Federica Mazza, che rispecchia una brillante quanto documentata e puntigliosa tesi di laurea discussa nel luglio 2004 all’Università degli Studi di Milano Bicocca, di cui sono stato relatore, con il professore Giorgio Grossi correlatore. Un lavoro, che ho seguito passo dopo passo e che approfondisce la storia del sindacato dei giornalisti dal 1877 al 1980, cioè dalle origini, con Francesco De Santis, uno dei protagonisti del Risorgimento, presidente dell’Aspi (Associazione stampa periodica italiana), fino a Walter Tobagi e agli anni di piombo. L’Aspi nel 1908 si è trasformata nella Fnsi (Federazione nazionale stampa italiana), il sindacato dei giornalisti. La Fnsi ha scritto una pagina importante nella storia della nuova Italia, sottoscrivendo, con gli editori, nel 1911 – proprio nel 50° anniversario della Unità della Patria – il primo contratto nazionale di categoria. Un accordo che poi sarebbe stato seguito da tutte le altre categorie impiegatizie e operaie.
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Per chi, come me, è stato vicino a Walter Tobagi nel sindacato negli anni durissimi, che vanno dal 1976 (anno in cui, con Massimo Fini, fummo eletti consiglieri dell’Associazione lombarda) al 1980, e che con lui ha vissuto la stagione sconvolgente del terrorismo, i ricordi sono tantissimi. C'è una pagina storica che voglio rievocare, perché ci restituisce un'immagine cara di Walter. È una pagina che recupera la battaglia riformista intrapresa da un gruppo sindacale nascente (“Stampa democratica”) per dare al sindacato dei giornalisti una struttura pluralista. La presenza di due vecchie correnti (Rinnovamento e Autonomia, una di sinistra e una di destra) non bastava e Tobagi lo aveva spiegato su “Giornalismo” (organo dell’Alg). Serviva in sostanza una nuova forza, che desse spazio a una tutela reale della professionalità anche sotto il profilo economico (in quegli anni “Rinnovamento” aveva favorito una politica di rivendicazioni molto modeste e piatte, preferendo perseguire obiettivi politici). Tobagi scrive: “Se il sindacato dei giornalisti vuole davvero diventare protagonista di una ripresa dell’editoria, di uno sviluppo (nei fatti, non nelle parole) del pluralismo informativo, è evidente che si impongono scelte coraggiose. Perché i giornalisti sindacalisti devono recitare la parte dei “piccoli politici”, ognuno coi suoi amici influenti, coi consiglieri saldamente installati nel “Palazzo”, e via rattristando? Perché non cerchiamo di rilanciare la sfida (sarà un’utopia, ma anche le utopie servono) per un sindacalismo giornalistico serio, indipendente, meno parole e più comportamenti concreti e conseguenti, che punti a diventare il motore di un nuovo sviluppo dell’editoria, privata e pubblica, di questo paese? Questa è la sfida del prossimo congresso. E’ una sfida diversa, profondamente diversa rispetto al passato. E ciò spiega, al di là dei fattacci avvenuti a giugno, perché le vecchie etichette e l’antica divisione in due correnti (Rinnovamento e Autonomia) siano un’eredità del passato. Cambiano i problemi, è inevitabile che cambino gli schieramenti e gli strumenti dell’azione sindacale. Con l’auspicio e la fiducia che non ci sia spazio, nei nuovi raggruppamenti, né per messi dei potentati economici, né per inviati speciali dei partiti”.
La prima uscita di Walter Tobagi leader del nuovo raggruppamento sindacale avviene a Pescara, tra il 22 e il 29 ottobre 1978. È in corso il congresso della Federazione nazionale della stampa italiana. I delegati lombardi si riuniscono per designare coloro che entreranno a far parte del Consiglio nazionale della Fnsi. La maggioranza ha già scelto i suoi uomini. Walter parla come presidente dell'Associazione lombarda dei giornalisti, carica alla quale è stato eletto il 14 settembre precedente dopo la spaccatura avvenuta nella corrente maggioritaria di sinistra di "Rinnovamento". Le frange più accese di “Rinnovamento” nel maggio/giugno di quell’anno avevano messo in discussione la presenza tra i candidati al Congresso di giornalisti di area riformista cattolico-socialista come lo stesso Tobagi. Vinsero gli intolleranti: Tobagi e altri 12 colleghi delle sue idee vengono depennati dalla lista “unitaria”. Al congresso di Pescara Walter è l'unico del suo gruppo (battezzato “terza tendenza”) che ha diritto di parola. Anche dentro "Rinnovamento" c'è una minoranza. A questa minoranza di "Rinnovamento" era stato negato il diritto di "esistere". Tobagi prese la parola e la tenne a lungo, per molte ore, la riunione terminò che era già alba. In quel tempo si parlava molto di democrazia, ma come sempre accade pochi ne conoscevano la storia. Walter tirò fuori un libricino scritto da Francesco ed Edoardo Ruffini, "Il principio maggioritario". Pubblicato nel 1927 in pieno regime fascista e da due dei pochissimi professori universitari di orientamento liberale che rifiutarono di giurare fedeltà al regime, questo saggio traccia un profilo storico di due nozioni centrali della democrazia: l'elezione a maggioranza e il dissenso. Tobagi ricordò, con le parole dei Ruffini, che il "principio maggioritario" e il dissenso costituiscono i principali problemi di ogni democrazia e che quei problemi erano tuttora aperti. Il principio maggioritario è "naturale e ovvio", ma "la comunissima regola, per cui in una collettività debba prevalere quello che vogliono i più e non quello che vogliono i meno, racchiude uno dei più singolari problemi che abbiano affaticato la mente umana". L'idea di proteggere le minoranze, cioè coloro che manifestano dissenso rispetto ai più, è "frutto di un movimento che va al di là della stessa Rivoluzione francese e che ci riporta alla costituzione delle colonie inglesi d'America".
Il discorso provocò il ribaltamento delle nomine decise a tavolino. Walter Tobagi, però, colse il successo più clamoroso, quando chiese al Congresso l'introduzione del sistema proporzionale nelle strutture regionali del sindacato. Questa proposta completava il discorso fatto davanti ai delegati lombardi sulla protezione delle minoranze: il metodo proporzionale garantiva la rappresentanza alle varie componenti, favorendo la nascita di un “sindacato aperto a tutti, senza padrini”. La proposta passò. Finiva la stagione dei listoni ultramaggioritari ed eterogenei "in cui tutti confluiscono per avere qualche posto, ma che eliminano qualsiasi possibilità di dibattito effettivo alla luce del sole". La svolta di Pescara "sta proprio in questo modello di sindacato nuovo, più forte perché più democratico, che tutti insieme dovremo cercare di costruire". Apparve anacronistica e incomprensibile la posizione del segretario della Fnsi, Luciano Ceschia, sulla equidistanza del sindacato dei giornalisti italiani tra le organizzazioni internazionali della stampa che avevano sede a Parigi e a Praga. Non si poteva essere equidistanti tra una città simbolo di libertà e una città oppressa da una dittatura comunista, occupata e violentata dalle truppe sovietiche d’invasione. La battaglia in difesa dei valori liberali e democratici in una epoca in cui quei valori sembravano perdenti nella società italiana non era un espediente politico, ma era qualcosa di ben radicato, era una visione che si collegava a uno dei pilastri portanti della Costituzione, la matrice liberal-democratica della Carta fondamentale.
Walter Tobagi era stato eletto presidente del sindacato regionale, l'Associazione lombarda dei Giornalisti, la sera del 14 settembre 1978 e dopo la elezione, nel discorso di accettazione, aveva detto: "Voglio aggiungere, ed anche questa non vuole essere una frase vuotamente retorica, che accetto questo incarico per spirito di servizio e di dovere morale e ideale verso la categoria e verso le idee che personalmente, insieme con molti colleghi, ho manifestato in tante occasioni. Non vorrei fare un richiamo retorico al passato, ma se c’è il nome di un collega al quale penso idealmente in questo momento per l'esperienza che ha vissuto, per l'impegno che ha profuso in certi momenti anche nel sindacalismo giornalistico, questo giornalista è Mario Borsa e vorrei ricordarlo in questo momento". A Mario Borsa, grande maestro di giornalismo, di scuola liberale, liberale alla inglese o radicale alla francese, direttore del "Corriere della Sera" dall'aprile del 1945 all'agosto del 1946, Walter Tobagi aveva dedicato un saggio sul numero del luglio-settembre 1976 del trimestrale "Problemi dell'informazione". Mario Borsa era per Walter il modello ideale di giornalista e non era un fatto occasionale averne ricordato pubblicamente il nome la sera del 14 settembre 1978. Anche Borsa aveva difeso il sindacato dei giornalisti, l'Associazione lombarda dei giornalisti, in una stagione declinante delle libertà civili, nel 1924, quando la morsa del fascismo cominciava a diventare sof-focante. Anche in quell'autunno del '78 il clima politico e sindacale era pesante. Italo Uggeri, - giornalista di spicco del mondo cattolico lombardo (autore di “La vita non finisce a 65 anni”, Centro studi “La Base”, Milano 1988)) - ha scritto che in quel periodo "l'estremismo è la nota dominante... Ogni presunta avanguardia viene incoraggiata, coltivata, blandita... L'informazione corre il grave pericolo di divenire a senso unico". Chi stava dall’altra parte poteva facilmente essere additato sulla stampa dei movimenti extraparlamentari come “servo di Craxi e Montanelli”.
Alla Festa dell’Unità di Modena del settembre 1977 Enrico Berlinguer, segretario del Pci, aveva affermato che “si era alla vigilia dell’ascesa della classe operaia alla direzione del Paese” (in Giorgio Galli, Piombo Rosso, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2004). Nelle elezioni del 20 giugno 1976 il Pci aveva toccato il 34,4% dei voti. L’influenza del Pci nei consigli di fabbrica dei giornali e nei Cdr era fortissima e condizionava di fatto le scelte dei direttori. Nel settembre 1978, in seno all’Associazione lombarda dei giornalisti, una nuova maggioranza (in cui erano confluiti cattolici, socialisti e liberali), guidata da Tobagi, aveva assunto la guida del più potente sindacato regionale, relegando all’opposizione comunisti e cattolici di sinistra. Un fatto inimmaginabile in una stagione contrassegnata, dal febbraio 1978, dalla presenza del Pci nella maggioranza del governo di unità nazionale (Giulio Andreotti ne teneva il comando). Una maggioranza di governo anche se traballante dopo il “delitto Moro” (16 marzo-9 maggio 1978). Nessuna immaginava che una persona, indicata come amica “di Craxi e Montanelli”, potesse finire automaticamente nelle liste di proscrizione dei terroristi rossi.
Tobagi nel frattempo era diventato un simbolo come leader del sindacato. Tobagi aveva ben presto percepito nitidamente che il clima attorno a lui era diventato pericoloso e minaccioso e di questo clima scrive alla moglie Stella in una lettera del Natale 1978: “ …al lavoro affannoso di questi mesi va data una ragione, che io avverto molto forte: è la ragione di una persona che si sente intellettualmente onesta, libera e indipendente e cerca di capire perché si è arrivati a questo punto di lacerazione sociale, di disprezzo dei valori umani [...] per contribuire a quella ricerca ideologica che mi pare preliminare per qualsiasi mutamento, miglioramento nei comportamenti collettivi....Nell’Associazione [...] il motivo per cui mi sono addossato quella parte è un altro: un gesto di solidarietà verso quei colleghi, che considero anche amici, coi quali ho condiviso tante esperienze negli ultimi due anni. Un senso di solidarietà, un modo di non ragionare solo in termini di utilitarismo personale”. Tobagi era tornato a parlare di Mario Borsa la sera del 27 maggio 1980 (la sera prima del delitto), nel dibattito che si svolse al Circolo della Stampa sul tema "Fare cronaca fra segreto professionale e segreto istruttorio". Il dibattito aveva trattato il problema delle fonti: "Mi permetto dl citare — disse Walter — una persona che ovviamente non ho conosciuto per ragioni di età, ma di cui ho let-to con molto interesse gli scritti e che era un giornalista che tutti noi faremmo bene a riscoprire e che era Mario Borsa. Borsa teorizzava in modo limpido che la libertà di stampa esiste in un Paese quando ci sono almeno due gruppi economici editoriali in concorrenza tra di loro e quindi le notizie che non vengono date da un gruppo sono date dall'altro gruppo. Almeno due gruppi, certo. Debbo dire che la prima volta che io lessi questo principio affermato da Borsa in diversi scritti pensai: come è angusta questa concezione della libertà di stampa quando ci sono tante fonti, tutto questo pluralismo. Era il '72-'73. Sembrava tutto pluralistico. Ecco, io credo che noi faremmo bene anche a riscoprire questa chiarezza di impostazione per cui la diversificazione dei gruppi editoriali è uno degli elementi centrali e probabilmente le difficoltà in cui ci troviamo come giornalisti dipendono anche da questa gestione gelatinosa dei rapporti editoriali che non consentono di stabilire un rapporto diretto tra fonti e non fonti". Parole, queste di Walter, che mantengono una intatta attualità. Il pluralismo delle fonti informativo è un pilastro delle sentenze della Corte costituzionali in tema di libertà di stampa e d’antenna. Torniamo a Mario Borsa, al modello Mario Borsa. Borsa aveva assunto la direzione del Corriere, quando aveva 75 anni, e vi resta per quindici mesi, "un periodo breve ma eccezionalmente intenso, sia per il rilievo delle questioni, in primo luogo il referendum istituzionale, che vengono affrontate sia per l'attività che Borsa svolge come grande tramite, ideologo e pedagogo dei benpensanti che s'affidavano al buon senso del Corriere della Sera". Borsa era un nome famoso: aveva scritto per la "Perseveranza" e poi aveva lavorato da Londra per il “Secolo", allora il più prestigioso foglio milanese. L’impatto con la realtà inglese è decisivo, scrive Tobagi, per la formazione del Borsa giornalista liberale, di un liberalismo che non ha precedenti in Italia. Dal 1911 in poi, Borsa torna a Milano ed è di fatto direttore del Secolo, poi arrivano la guerra e il fascismo e il fascismo ha nel mi-rino Borsa. Partecipa all'attività dell'Associazione lombarda dei giornalisti, stila l'ordine del giorno del congresso nazionale dei giornalisti a Palermo nel settembre del 1924, ma "la battaglia ormai è perduta anche se viene combattuta fino all'ultimo con una dignità e una fede ideale che può rendere meno amara la sconfitta". Per Borsa, scrive Tobagi, non c'è più spazio nei giornali italiani. Borsa nel ’25 lascerà il Corriere della Sera con Luigi e Alberto Alberini. Il regime gli consente soltanto di conservare l'incarico di corrispondente del Times, ma la stampa fascista lo bolla apertamente come un “nemico della Patria”.
Borsa era un esule in Patria. Ho percorso velocemente la vita di Borsa per dire che c'è un parallelismo fra le battaglie di Borsa del 1924 e quelle combattute da Walter Tobagi nella seconda parte degli anni '70. Nella seconda parte degli anni '70 era facile essere sospettati di fascismo se non ci si allineava alle tesi di un fascismo diverso, un fascismo rosso. Chi non si allineava era tacciato di tradimento: la storia sembrava ripetersi. Il Pci era ed appariva ormai vincente, la Dc era in affanno. Gli italiani, o almeno certi italiani, si sa, amano andare sempre in soccorso di chi è o appare vittorioso. Giorgio Galli (in “Piombo rosso”, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2004) scrive che Tobagi, “il giornalista che meglio aveva capito il partito armato, socialista, attivo nell’organizzazione professionale, (era) anche in polemica con quella che riteneva l’egemonia comunista nel più importante quotidiano italiano, peraltro influenzato dalla Loggia P2 di Licio Gelli”. Tobagi nel saggio ricostruisce l'ultimo Borsa, il Borsa che prima di dimettersi dalla direzione del "Corriere" scrive una lettera ai Crespi, proprietari del giornale tornati in sella. Quella lettera è inedita e accompagna il saggio apparso, come dicevo, su "Problemi dell'informazione". Ormai tra gli editori e il direttore si è scavato un fossato. I primi non hanno perdonato all'altro la sua linea sul referendum favorevole alla Repubblica e rassicurante verso quei ceti borghesi che temevano, con l'avvento della Repubblica, il salto nel buio. Borsa scrive, questo è il giudizio di Walter Tobagi, una lettera di esemplare coerenza, rivendicando la sue posizioni e la necessità di proseguire sulla linea tracciata nel primo anno di direzione del giornale. E affronta, senza ambiguità, "le questioni nodali di un giornalismo libero e democratico, le questioni dell'autonomia professionale, di un rapporto con la proprietà che non può imporre al giornalista intollerabili compromessi". Scrive Tobagi al riguardo: "In questo modo Mario Borsa offre la testimonianza più vivida di un giornalismo non servile, ma libero, di un giornalismo che, pur fra tante difficoltà, ha cercato di realizzare in tanti anni di faticosa professione". Ed è questo, se si vuole, il senso ultimo della sua esperienza di giornalista liberale e democratico: la coerenza e la testimonianza di un giornalismo vissuto. "Dite sempre quello che è bene e che vi par tale anche se questo bene non va precisamente a genio ai vostri amici: dite sempre quello che è giusto, anche se ne va della vostra posizione, della vostra quiete, della vostra vita. Siate dunque indipendenti e inchinatevi solo davanti alla libertà, ricordandovi che prima di essere un diritto la libertà è un dovere": sono queste parole di Borsa, che Walter recupera e indica ai colleghi. Tobagi scrive ancora a commento del ruolo del giornalista tracciato da Borsa nelle ultime pagine delle sue "Memorie": "Così, nell'ultima pagina delle Memorie, Borsa ripete il suo atto di fede, con un ottimismo e un volontarismo che rivelano il carattere dell’uomo, convinto e fiducioso nella forza creatrice dell'individuo: che può evitare i condizionamenti, in quanto sia consapevole non del diritto ma del dovere alla libertà, una libertà privata e pubblica che per il giornalista si identifica, innanzitutto, con la libertà di stampa. Per Borsa, certo, questo concetto si collega a una visione semplificata e idealizzata dei rapporti tra i giornali, soprattutto la grande stampa d'informazione, ed i potentati economici e politici. "Basta che in un Paese, è la sua convinzione, esistano due giornali diversi, facenti capo a due gruppi diversi, perché le cose vadano come devono andare, cioè siano soggette al controllo ora dell'uno ora dell'altro. In questo gioco alterno - che permette l'esplicazione della sua funzione politica e morale - sta la libertà di stampa". Può apparire, nota Walter, una visione idealizzata della libertà di stampa; ed è, in modo conseguente, la trasposizione ideologica di un'esperienza storica, l'esperienza che a Borsa è più cara, quella dell'amatissima Inghilterra e quella dell'Italietta liberale. In quest'esperienza storica, Borsa ha visto i giornali svolgere una duplice funzione: non solo strumenti d’informazione, ma anche consiglieri e pedagoghi dell'opinione pubblica, guide ideologiche e morali. Ed è, anche questa, una delle lezioni di Borsa che possono suonare più attuali".
C'erano tanti modi di ricordare Walter Tobagi nel XXV anniversario dell’assassinio. Innanzitutto la sua fede cristiana intensamente professata, il suo riformismo socialista altrettanto intensamente vissuto. Ma ho voluto parlare del giornalista Tobagi, del suo modo di intendere la professione, dei suoi modelli ideali di giornalismo e di come le sue convinzioni politiche e sindacali poggiassero su un fondo democratico radicato e forte. Nella premessa a “Il sindacato riformista” (Sugarco 1977), Tobagi ha scritto: “Per questo è importante andare a rivedere e riconsiderare scelte, obiettivi, comportamenti, risultati del sindacato in due momenti decisivi, durante i quali le organizzazioni dei lavoratori assumono un’importanza strategica e diventano forza nazionale, in quanto colgono nitidamente che la loro possibilità di crescita e di sviluppo – e quindi anche di potere – coincidono con l’affermazione e il consolidamento di un sistema democratico. E’ tale intuizione che fa del sindacato, a partire dal 1906, un elemento basilare di questo sistema, e rende drammatico quanto decisivo lo scontro tra riformisti e rivoluzionari nel Partito socialista e , ancor più, all’interno delle organizzazioni proletarie”. Abbiamo visto che Tobagi si era avvicinato a Mario Borsa nel '72-'73 e che il saggio è stato pubblicato quattro anni dopo. Abbiamo visto che aveva parlato di Francesco ed Edoardo Ruffini, altri maestri liberali, durante il congresso della stampa di Pescara. Un filo lega i Ruffini a Borsa e segna il suo modo di intendere il sindacato e la professione. Il giornalista era davvero per Walter lo "storico dell'istante", il giornalista cioè deve operare, senza farsi condizionare dall’ideologia, sui fatti di tutti i giorni con le tecniche di scavo e di verifica che gli storici usano sui periodi lunghi. C’è da dire che Walter era anche storico di professione. La sua preparazione sofisticata nel campo dei fenomeni sociali e del movimento sindacale – esemplare è la sua “Storia del movimento studentesco e dei marxisti-leninisti in Italia” (Sugar Editore, Milano 1970) – lo avevano portato a comprendere, con anticipo su tutti, che i terroristi rossi non erano “fascisti” o “compagni che sbagliavano”. Venivano dalle fabbriche, erano militanti dei gruppuscoli extraparlamentari dell’ultrasinistra o anche ex-iscritti al Pci. Lo ha documentato Aldo Forbice (Testimone scomodo – Walter Tobagi-Scritti scelti 1975-80, Franco Angeli, Milano 1989), pubblicando 28 articoli di Tobagi sul lavoro, sull’economia e sul sindacato, e altri 42 sugli anni di piombo, compreso quello famoso dal titolo “Non sono samurai invincibili” (20 aprile 1980). Le br sono sconfitte dopo la eliminazione della colonna “imprendibile” di Genova: “A voler essere realisti – scrive Tobagi – si deve dire che il tentativo di conquistare l’egemonia nelle fabbriche è fallito. I terroristi risultano isolati dal resto della classe operaia”. Ha annotato ancora Tobagi in quell’articolo: “La fabbrica era diventata il centro di uno scontro sociale che poi ha trasferito i suoi effetti nella società, nei rapporti politici. I brigatisti hanno cercato di inserirsi in questo processo, in parte raccogliendo il consenso delle avanguardie più intransigenti”. Un’analisi lucida che apre gli occhi anche a chi voleva tenerli chiusi a tutti i costi. Un’analisi che rispecchia il suo credo deontologico: “Poter capire e voler spiegare”. I brigatisti rossi miravano a uccidere, nella loro follia, i riformisti e tutti coloro che davano prestigio allo Stato “borghese” o che, opponendosi all’avanzata del comunismo in Italia, erano ritenuti “nemici di classe”. Tobagi era un nemico perché con le sue analisi aveva svelato il retroterra ideologico dei terroristi, ma ai loro occhi era anche un nemico impersonando una interpretazione fortemente libera e democratica della professione giornalistica vissuta senza “verità ideologiche” prevalenti su quelle storicamente dimostrate attraverso la ricostruzione rigorosa dei fatti. Il taccuino di Walter faceva paura. Il Pm Emilio Alessandrini aveva spiegato i piani dei brigatisti in un’intervista all’Avanti: “Non è caso che le azioni dei brigatisti siano rivolte non tanto a uomini di destra, ma ai progressisti. Il loro obiettivo è intuibilissimo: arrivare allo scontro nel più breve tempo possibile, togliendo di mezzo quel cuscinetto riformista che, in qualche misura, garantisce la sopravvivenza di questo tipo di società”. Tobagi condivideva il giudizio di Alessandrini, quando osserva che “i brigatisti prendevano di mira soprattutto i riformisti”.
Alessandrini e Tobagi erano “personaggi simbolo” sui quali si è abbattuta la ferocia dei killer rossi. Per Tobagi, Alessandrini “rappresentava quella fascia di giudici progressisti ma intransigenti, né falchi chiacchieroni né colombe arrendevoli”. Contro i rischi della superinformazione e della diffusione di notizie di "padre ignoto", si alza ammonitrice la voce di Walter Tobagi, del Tobagi dell’ultimo dibattito al Circolo della Stampa di Milano. Era il 27 maggio 1980. Un discorso ancora oggi attualissimo. Non dobbiamo confondere controinformazione e superinformazione, consapevoli anche che l'apparente controinformazione potrebbe essere «un servizio prestato a una superinformazione di cui sfuggono completamente fini e modalità». Se cade in questo errore, diceva Tobagi, «il giornalista deve chiedersi se fa un servizio giornalistico o se fa un altro servizio, che nel caso specifico è assai meno nobile». Il lettore non può essere destinatario di notizie di «padre ignoto». Al lettore si deve anche dire la fonte che ha diffuso l’informazione «perché se non si fa questo i giornali rischiano di diventare degli strumenti che servono per combattere battaglie per conto terzi». Tobagi suggeriva una via d’uscita alla crisi dei rapporti giudici-giornalisti: dibattimenti rapidi in modo tale che i giudici non siano costretti a nascondere le notizie e i giornalisti non siano costretti a scrivere articoli sulla base di pochi dati. Era il 27 maggio 1980. Nove anni dopo è entrato in vigore il nuovo rito processuale penale. Le cose non sono migliorate. I processi sono sempre lenti. Dai Palazzi di Giustizia continuano a uscire molte notizie di «padre ignoto». Ho voluto ricordare Walter Tobagi attraverso momenti cruciali della sua vita, l'elezione a presidente dell'Associazione lombarda dei giornalisti e il contributo di idee al congresso della stampa di Pescara. Ho voluto ricordare Walter e il suo collegarsi a maestri, come Francesco e Edoardo Ruffini, Mario Borsa nonché le sue analisi sul terrorismo. Il problema del rispetto delle minoranze nel sindacato e quello dell’ancoraggio della professione giornalistica al rigore morale sono sempre attuali, mentre oggi mancano le analisi approfondite sul nuovo terrorismo, quello che ha ucciso Marco Biagi e Massimo d’Antona. C'è in lui una coerenza tra pensiero e azione, l'azione come giornalista e come sindacalista. Ai giornalisti, giovani e meno giovani, va rammentata l'alta ispirazione deontologica di Walter: lavorare con piena libertà di coscienza. Una regola che soprattutto in queste stagioni incerte per il futuro della professione va onorata fino in fondo. Ecco perché Walter ci parlerà continuamente. Egli, come dicevano gli antichi greci, è vivo. E vivrà sempre tra di noi e nel nostro cuore.
(Questo saggio di Franco Abruzzo è la prefazione al libro “La storia del sindacato dei giornalisti da Francesco de Sanctis a Walter Tobagi” a firma Federica Mazza, editore Scheiwiller. E’ stato pubblicato anche in “Tabloid” n. 5/2005, numero consultabile in www.odg.mi.i).
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BIBLIOGRAFIA SU WALTER TOBAGI
TESI DI LAUREA SU WALTER TOBAGI
Diletta D’Amelio, I giornali studenteschi milanesi 1945-1968, Università degli Studi di Milano, 2002-2003.
Federica Mazza, Fnsi, e associazione lombarda dei giornalisti. Storia di un sindacato tra libertà e diritti. Dalle origini a Walter Tobagi, Università degli Studi Milano Bicocca, 2003-2004.
Elisa Martinelli, Informazione e terrorismo di sinistra in Italia (1970-1980). La figura di Walter Tobagi, Università degli Studi di Milano Bicocca, 2006-2007.
SAGGI E OPERE DI WALTER TOBAGI
Storia del movimento studentesco e dei marxisti-leninisti in Italia, Sugar Editore, Milano, 1970.
Gli anni del manganello, F.lli Fabbri Editori, Milano, 1973.
La fondazione della politica salariale della CGIL, Fondazione Feltrinelli, 1974.
I cattolici e l'unità sindacale, Esi CGIL, 1976.
Achille Grandi, sindacalismo cattolico e democrazia sindacale, Il Mulino, 1977.
Mario Borsa giornalista liberale, “Il Corriere della sera” e la svolta dell'agosto 1946, in “Problemi dell’informazione”, Anno I n. 3, luglio-settembre 1976.
La rivoluzione impossibile, l’attentato a Togliatti: violenza politica e reazione popolare, il Saggiatore, Milano, 1978.
Il Psi dal centrosinistra all’autunno caldo, in Storia del partito socialista, Marsilio, 1978.
Giorgio Bocca, vita di un giornalista, Collana I Giornalibri, n. 3/1979, Laterza.
Il sindacato riformista, SugarCo Edizioni, Milano, 1979.
Che cosa contano i sindacati, Rizzoli, Milano 1980.
SCRITTI E OPERE SU WALTER TOBAGI:
AA.VV, Walter Tobagi giornalista, Associazione Lombarda e Provincia di Milano, Milano 2005.
Roberto Arlati e Renzo Magosso, Le carte di Moro e perché Tobagi, Franco Angeli, Milano 2003.
Daniela Biacchessi, Walter Tobagi, Morte di un giornalista, Baldini & Castoldi, Dalai editore, 2005, Parma
Giuseppe Baiocchi e Alessandro Caporali (a cura di), Se un profeta una mattina… - l’opera di Walter Tobagi, Associazione Lombarda dei Giornalisti – Regione Lombardia, Milano, 1990.
Gianluigi Da Rold (a cura di), Walter Tobagi – Il coraggio della ragione (scritti 1964-1980), SugarCo Edizioni, Milano, 1981.
Gianluigi Da Rold, Annientate Tobagi, Bietti, Milano, 2000
Ugo Finetti, Il caso Tobagi, Critica Sociale, Milano, 2005.
Aldo Forbice (a cura di), Testimone scomodo. Walter Tobagi – Scritti scelti 1975-1980, Milano, 1989.
Paolo Franchi e Ugo Intini, Le parole di piombo, Walter Tobagi, la sinistra e gli anni del terrorismo, Mondo operaio, Roma, 2005
Federica Mazza, Il sindacato dei giornalisti, 1877-1980, Da Francesco De Sanctis a Walter Tobagi, con prefazione di Franco Abruzzo, Ordine dei giornalisti della Lombardia e Libri Scheiwiller, Milano, 2005.
Gigi Moncalvo, Oltre la notte di piombo, Edizioni Paoline, Milano, 1984.
Piero Vittorio Scorti, L’affaire Tobagi – Un giallo poltico, Edizioni Montedit, collana Koinè (saggi), Melegnano, 2003.
Piero Vittorio Scorti, Il delitto paga? L’affaire Tobagi, SugarCo Edizioni, Milano, 1985.