INDICE
1) Pubblicare foto raccapriccianti e impressionanti non è diritto di cronaca e costituisce reato Il principio vale per tutti i media - di Franco Abruzzo
2) La sentenza n. 293/2000 della Corte costituzionale: “Il divieto di pubblicazioni a contenuto impressionante o raccapricciante non contrasta con la Costituzione perché è diretto a tutelare la dignità umana”.
3) Sentenza della Cassazione (sezione terza penale) n. 23356 dell’8 giugno 2001: “La pubblicazione di fotografie del cadavere della vittima di un omicidio può costituire reato se le immagini sono caratterizzate da particolari impressionanti e raccapriccianti, lesivi della dignità umana”.
4) Tribunale penale di Monza (27 febbraio 2002): Vittorio Feltri patteggia due mesi di reclusione per la pubblicazione di bambini violentati. Censura (4 febbraio 2003) al giornalista da parte del Cnog (al posto della radiazione inflitta dall’OgL).
5) Immagini raccapriccianti e cronaca bellica (guerra civile in Liberia): il tribunale di Roma (IX sezione penale) assolve (con sentenza 25 novembre 2003) direttore e inviato speciale di Tmc “per l’intrinseco valore informativo delle immagini pur ponendosi, per le scene di violenza documentate, ai confini del limite massimo oltre il quale l’attività di informazione travalica l’indispensabile tutela, anche costituzionale, della dignità delle persone e, conseguentemente, il fatto così come contestato non sussiste”.
6) Documentazione normativa e giurisprudenza
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1. Pubblicare foto raccapriccianti e impressionanti non è diritto di cronaca e costituisce reato Il principio vale per tutti i media.
di Franco Abruzzo*
La libertà di stampa in Italia e nei Paesi del Continente europeo è vigilata dalla legge. Non esiste il diritto di pubblicare quello che si vuole. Lo stesso articolo 21 (sesto comma) della Costituzione “vieta le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume” e annuncia “provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni”. Buon costume significa comune sentimento della morale. I limiti all’esercizio del diritto di cronaca e di critica sono sostanzialmente due e sono racchiuse nell’articolo 2 della legge n. 69/1963 sull’ordinamento della professione giornalistica: il rispetto della dignità della persona e il rispetto della verità sostanziale dei fatti. Questi principi riflettono norme costituzionali e valori affermati in diverse sentenze della Corte costituzionale ew in particolare nella sentenza 112/1993: “Sotto il primo profilo, questa Corte ha da tempo affermato che il “diritto all'informazione” va determinato e qualificato in riferimento ai principi fondanti della forma di Stato delineata dalla Costituzione, i quali esigono che la nostra democrazia sia basata su una libera opinione pubblica e sia in grado di svilupparsi attraverso la pari concorrenza di tutti alla formazione della volontà generale. Di qui deriva l'imperativo costituzionale che il “diritto all'informazione” garantito dall'art. 21 sia qualificato e caratterizzato: a) dal pluralismo delle fonti cui attingere conoscenze e notizie...; b) dall'obiettività e dall'imparzialità dei dati forniti; c) dalla completezza, dalla correttezza e dalla continuità dell'attività di informazione erogata; d) dal rispetto della dignità umana, dell'ordine pubblico, del buon costume e del libero sviluppo psichico e morale dei minori”.
L’articolo 15 della legge n. 47/1948 sulla stampa punisce, con la pena della reclusione da tre mesi a tre anni, la pubblicazione di "stampati i quali descrivano o illustrino, con particolari impressionanti o raccapriccianti, avvenimenti realmente verificatisi o anche soltanto immaginari in modo da poter turbare il comune sentimento della morale o l’ordine familiare o da poter provocare il diffondersi di suicidi o delitti". Questo principio vale per tutti i media. L’articolo 15 è stato esteso al sistema televisivo pubblico e privato dall’articolo 30 (comma 2) della legge n. 223/1990 (o “legge Mammì”).
L’articolo 15 della legge sulla stampa è stato ritenuto legittimo dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 293/2000. In sostanza il divieto di pubblicazioni a contenuto impressionante o raccapricciante non contrasta con la Costituzione perché è diretto a tutelare la dignità umana. “Quello della dignità della persona umana – ha affermato la Corte - è valore costituzionale che permea di sé il diritto positivo e deve dunque incidere sull’interpretazione di quella parte della disposizione in esame che evoca il comune sentimento della morale”. Bisogna intendersi sul concetto di raccapricciante e impressionante. Ci aiuta la giurisprudenza. I giudici hanno ritenuto che fossero raccapriccianti e impressionanti le foto del cadavere di Aldo Moro, quelle del corpo in decomposizione di Alfredino (il piccolo finito nel pozzo di Vermicino); le immagini della contessa Alberica Filo della Torre; le foto delle piccole vittime della pedofilia. “L’articolo 15 della legge sulla stampa del 1948.... non intende andare al di là del tenore letterale della formula quando - ha scritto la Corte costituzionale - vieta gli stampati idonei a “turbare il comune sentimento della morale”. Vale a dire, non soltanto ciò che è comune alle diverse morali del nostro tempo, ma anche alla pluralità delle concezioni etiche che convivono nella società contemporanea. Tale contenuto minimo altro non è se non il rispetto della persona umana, valore che anima l’articolo 2 della Costituzione, alla luce del quale va letta la previsione incriminatrice denunciata. Solo quando la soglia dell’attenzione della comunità civile è colpita negativamente, e offesa, dalle pubblicazioni di scritti o immagini con particolari impressionanti o raccapriccianti, lesivi della dignità di ogni essere umano, e perciò avvertibili dall’intera collettività, scatta la reazione dell’ordinamento. E a spiegare e a dar ragione dell’uso prudente dello strumento punitivo è proprio la necessità di un’attenta valutazione dei fatti da parte dei differenti organi giudiziari, che non possono ignorare il valore cardine della libertà di manifestazione del pensiero. Non per questo la libertà di pensiero è tale da inficiare la norma sotto il profilo della legittimità costituzionale, poiché essa è qui concepita come presidio del bene fondamentale della dignità umana”.
La Cassazione (Sezione Terza Penale, sentenza n. 23356/2001), richiamando l’indirizzo della Consulta, ha affermato - nella vicenda che vedeva coinvolti il direttore e due redattori di un settimanale milanese (condannati dalla Corte d’Appello di Milano alla pena di tre mesi di reclusione e di lire trecentomila di multa ) - che “l’esercizio del diritto di cronaca, pur pienamente legittimo in una società democratica ed aperta, deve salvaguardare come valori fondamentali il comune sentimento della morale e la dignità umana tutelate dall’articolo 2 della Costituzione. I giudici di appello - ha osservato la Suprema Corte - hanno correttamente motivato la loro decisione rilevando che le immagini della vittima dell’omicidio "sono tali da destare impressione e raccapriccio nell’osservatore di normale emotività, improntata ad impulsi di solidarietà umana, pietà per la defunta, rispetto per la sua spoglia, repulsione istintiva verso le ferite efferatamente impresse, salvaguardia della dignità della persona già uccisa in quel modo ed ulteriormente oltraggiata dalla pubblica ostensione del suo corpo, naturale esigenza di riservatezza verso l’intimità fisica personale rinforzata dalla condizione mortale del soggetto".
Il terrorismo si può combattere, come diceva Mc Luhan, anche staccando la spina. Consiglio che la stragrande maggioranza della stampa italiana ha fatto proprio nel caso del filmato orribile sulla decapitazione di Nick Berg.
Il Consiglio dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia e il Consiglio nazionale dell’Ordine hanno fatto proprio l’indirizzo della Corte costituzionale sul piano deontologico nella vicenda di “Libero”, conclusasi con la sanzione della censura per il direttore del quotidiano (radiato dall’Albo in primo grado). “Libero” aveva pubblicato il 28 settembre 2000 otto immagini raccapriccianti di bambini violentati. Il direttore ha patteggiato due mesi di reclusione per questi fatti e ha poi dichiarato al “Foglio” che non avrebbe mai in futuro ripetuto l’errore.
Come corollario finale possiamo dire che le violazioni dell’ordinamento penale implicano anche un attentato alla legalità deontologica della professione giornalistica.
*presidente dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia
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2. Sentenza n. 293/2000 della Corte costituzionale: “Il divieto di pubblicazioni a contenuto impressionante o raccapricciante non contrasta con la Costituzione perché è diretto a tutelare la dignità umana”.
REPUBBLICA ITALIANA. IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 15 della legge 8 febbraio 1948, n. 47 (Disposizioni sulla stampa), promosso con ordinanza emessa il 17 febbraio 1999 dalla Corte di cassazione nel procedimento penale a carico di Corvi Luigi e altri, iscritta al n. 275 del registro ordinanze 1999 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 20, prima serie speciale, dell’anno 1999.
Visti gli atti di costituzione di Corvi Luigi e di La Cava Cristina nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 4 aprile 2000 il Giudice relatore Francesco Guizzi;
uditi gli avvocati Paola Balducci e Caterina Malavenda per Corvi Luigi, Franco Coppi e Caterina Malavenda per La Cava Cristina e l’Avvocato dello Stato Paolo di Tarsia di Belmonte per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. — A seguito della pubblicazione sul settimanale “Visto” delle fotografie scattate dalla polizia giudiziaria in occasione della scoperta del cadavere di A.F.dT. venivano incriminati C.V., L.C. e M.M. per i delitti di ricettazione, pubblicazione di immagini coperte da segreto e di fotografie impressionanti e raccapriccianti, atte a turbare il comune sentimento della morale.
Assolti nei due gradi di merito dalle prime due imputazioni, gli imputati proponevano ricorso per cassazione in ordine alla terza, deducendo diversi motivi, fra i quali l’illegittimità costituzionale della norma incriminatrice, l’art. 15 della legge 8 febbraio 1948, n. 47 (Disposizioni sulla stampa), sì che il Collegio giudicante, aderendo alla eccezione, sollevava questione di legittimità costituzionale in riferimento agli artt. 21, 25 e 3 della Costituzione.
2. — Osserva il rimettente che l’art. 15 della legge sulla stampa, richiamando le sanzioni stabilite dall’art. 528 del codice penale, punisce come reato la fattispecie degli “stampati i quali descrivano o illustrino, con particolari impressionanti o raccapriccianti, avvenimenti realmente verificatisi o anche soltanto immaginari, in modo da poter turbare il comune sentimento della morale o l’ordine familiare o da poter provocare il diffondersi di suicidi o delitti”.
Tre sono gli elementi della condotta previsti: la descrizione o l'illustrazione di avvenimenti, anche immaginari, su stampati; l'uso di particolari impressionanti o raccapriccianti; le modalità idonee a turbare la morale corrente o l’ordine delle famiglie, ovvero a favorire il diffondersi dei suicidi o dei delitti.
La questione sarebbe rilevante ai fini del decidere e non manifestamente infondata.
La genericità e l’indeterminatezza della norma incriminatrice, nella parte in cui utilizza il parametro del “comune sentimento della morale” quale requisito del fatto, violerebbe l’art. 25 della Costituzione. La condotta punibile - osserva il giudice a quo - non dovrebbe essere rimessa a valutazioni soggettive, variabili e non definibili a priori, ma legata a previsioni legislative sufficientemente determinate. Significativamente, la Corte di appello avrebbe convenuto con tale censura, almeno nella parte riguardante il richiamo al “comune sentimento della morale”; tuttavia ha creduto di superare il problema, proponendo una lettura della incriminazione tale da ovviare alla genericità della previsione: la violazione della morale comune verrebbe in considerazione solo quando essa sia così marcata da destare la sensazione o il raccapriccio.
Il Collegio rimettente ritiene però non appagante questa interpretazione, atteso che la genericità del riferimento alla morale, priva di oggettività giuridica, sarebbe verificabile proprio in base allo scarso numero di precedenti esistente, di contro al profluvio di immagini impressionanti o raccapriccianti che sarebbero sotto i nostri occhi.
Il giudice a quo ipotizza altresì la lesione dell’art. 3 della Costituzione, perché - rispetto a tutti coloro che diffondono immagini o notizie a mezzo stampa - verrebbero assoggettati a sanzione soltanto gli autori o i responsabili di immagini o notizie ritenute impressionanti o raccapriccianti.
Infine, l’indebita estensione del divieto costituzionale concernente le sole pubblicazioni contrarie al buon costume, fino a ricomprendere - con la norma incriminatrice - le pubblicazioni contrarie alla morale comune, costituirebbe violazione dell’art 21, sesto comma, della Costituzione, dal momento che si introduce un concetto più ampio di quello vietato dalla disposizione costituzionale, quindi restrittivo della libertà ivi stabilita. E anche a voler ritenere come aventi un analogo contenuto le due espressioni, la fattispecie risulterebbe comunque indeterminata, ricandendo nella prima delle doglianze.
3. — Si sono costituite le parti private chiedendo l’accoglimento della questione.
La difesa concorda con la censura del rimettente e, in ispecie, con quella riguardante la violazione dei principi di tassatività e determinatezza della fattispecie penale, palesandosi assolutamente vago il turbamento della "morale comune" quale requisito della condotta. In particolare si osserva che la morale sarebbe cosa diversa rispetto all'impressione o al raccapriccio suscitati dalle immagini censurate. Attraverso la locuzione usata (“in modo da poter turbare il comune sentimento della morale o l'ordine familiare”), il legislatore avrebbe inteso porre un limite alla tutela penale, stabilendo che non ogni immagine impressionante o raccapricciante verrebbe ad assumere, secondo la diversa opinione del giudice dell’appello, una rilevanza penale. Aderendo alle valutazioni della Corte di cassazione, la difesa delle parti private respinge tale interpretazione (“segno di un chiaro disagio ermeneutico”) e giunge alla conclusione che essa si risolverebbe in una interpretatio abrogans, poiché la morale comune scadrebbe di rilievo e finirebbe col coincidere con un altro elemento della condotta. Al contrario, costruita senza evento, essendo soddisfatta dal semplice pericolo, la fattispecie determinerebbe l'impossibilità di restringere il campo applicativo, così determinando la violazione della regola costituzionale.
Si tratterebbe di una situazione simile a quella già esaminata da questa Corte nello scrutinio del delitto di plagio, conclusosi con una declaratoria di illegittimità della disposizione incriminatrice per essere tale reato accertabile soltanto attraverso “ i parametri culturali propri del giudicante” (sentenza n. 96 del 1981). E’ vero, proseguono le difese, che per le questioni di costituzionalità sollevate in riferimento all'art. 25 della Costituzione la Corte costituzionale ha dichiarato la non fondatezza di quelle concernenti le fattispecie penali, all'apparenza indeterminate, che consentono però una interpretazione univoca a seguito dell'individuazione di principi certi e determinati da parte della giurisprudenza di legittimità (sentenze nn. 31 del 1995 e 122 del 1993), ma nel caso di specie ciò non sarebbe possibile per l’esiguo numero delle pronunce. Né una lettura della disposizione in senso costituzionalmente adeguato potrebbe dare certezza e definizione al concetto di “morale comune” contenuto nella fattispecie incriminatrice.
4. — E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura dello Stato, che ha concluso per l’infondatezza della questione, sostenendo che il ricorso a locuzioni proprie del linguaggio e dell'intelligenza comuni è consentito - come si rileva dalla giurisprudenza costituzionale - perché spetterebbe al giudice dare a esse un contenuto concreto. Tale compito sarebbe dunque assolto dalla giurisprudenza, che potrebbe rinvenire ragioni giustificative dell'elasticità del contenuto normativo nei mutamenti connessi ai diversi momenti storici. L'art. 15 della legge sulla stampa sarebbe infatti diretto a tutelare non solo la comune morale, ma anche l'ordine familiare e l'ordine pubblico.
Perché il fatto si configuri come reato occorre che l'espressione narrativa o visiva sia palesemente suggestiva e denoti “un'insensibilità morale dell'autore”. La norma incriminatrice richiederebbe, cioè, un quid pluris: l'idoneità del documento a destare sensazione o raccapriccio, il che basterebbe a scongiurare la pretesa violazione dei parametri costituzionali invocati.
5. ‹ In una memoria successiva i difensori delle parti costituite hanno insistito nella richiesta di una declaratoria di illegittimità costituzionale della disposizione denunciata, rilevando, da un lato, la frequente circolazione di immagini “forti”, potenzialmente qualificabili come raccapriccianti o impressionanti e, dall’ altro, il profondo mutarsi della sensibilità collettiva.
La Corte dovrebbe quindi censurare l’art. 15 in esame, per la “sopravvenuta irragionevolezza”, analogamente a quanto affermato nelle sentenze nn. 370 del 1996 e 519 del 1995.
Considerato in diritto
1. — Viene all’esame della Corte, con riferimento agli artt. 25, 21 e 3 della Costituzione, la questione di legittimità dell’art. 15 della legge 8 febbraio 1948, n. 47 (Disposizioni sulla stampa), che sanziona penalmente, ai sensi dell’art. 528 del codice penale, l’utilizzazione di “stampati i quali descrivano o illustrino, con particolari impressionanti o raccapriccianti, avvenimenti realmente verificatisi o anche soltanto immaginari, in modo da poter turbare il comune sentimento della morale e l’ordine familiare o da poter provocare il diffondersi di suicidi o delitti”. Esso lederebbe, infatti, il principio di tassatività e determinatezza delle fattispecie penali, quello della libertà di stampa e i principi di ragionevolezza e uguaglianza, perché non offrirebbe idoneo fondamento giustificativo alla punizione di coloro che diffondono siffatte immagini.
2. — L’art. 15 della legge n. 47 del 1948 dispone che si applichi l’art. 528 del codice penale ai fatti riguardanti gli “stampati i quali descrivano o illustrino, con particolari impressionanti o raccapriccianti, avvenimenti realmente verificatisi o anche soltanto immaginari”.
La previsione penale esige, come elemento della fattispecie legale, che tali stampati siano formati in modo “da poter turbare il comune sentimento della morale o l’ordine familiare o da poter provocare il diffondersi di suicidi o delitti”. Essa è all’esame di questa Corte per indeterminatezza, violazione del principio di uguaglianza e indebita limitazione della libertà di stampa, ma soltanto nella parte in cui dispone che questi stampati siano idonei a “turbare il comune sentimento della morale”.
3. — La questione non è fondata.
Con riguardo all’art. 21, sesto comma, della Costituzione, questa Corte non può non ricordare che tale articolo - nel vietare le pubblicazioni contrarie al buon costume - demanda alla legge la predisposizione di meccanismi e strumenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni del precetto costituzionale.
L’art. 15 della legge sulla stampa del 1948, esteso anche al sistema radiotelevisivo pubblico e privato dall’art. 30, comma 2, della legge 6 agosto 1990, n. 223, non intende andare al di là del tenore letterale della formula quando vieta gli stampati idonei a “turbare il comune sentimento della morale”. Vale a dire, non soltanto ciò che è comune alle diverse morali del nostro tempo, ma anche alla pluralità delle concezioni etiche che convivono nella società contemporanea. Tale contenuto minimo altro non è se non il rispetto della persona umana, valore che anima l’art. 2 della Costituzione, alla luce del quale va letta la previsione incriminatrice denunciata.
Solo quando la soglia dell’attenzione della comunità civile è colpita negativamente, e offesa, dalle pubblicazioni di scritti o immagini con particolari impressionanti o raccapriccianti, lesivi della dignità di ogni essere umano, e perciò avvertibili dall’intera collettività, scatta la reazione dell’ordinamento. E a spiegare e a dar ragione dell’uso prudente dello strumento punitivo è proprio la necessità di un’attenta valutazione dei fatti da parte dei differenti organi giudiziari, che non possono ignorare il valore cardine della libertà di manifestazione del pensiero. Non per questo la libertà di pensiero è tale da inficiare la norma sotto il profilo della legittimità costituzionale, poiché essa è qui concepita come presidio del bene fondamentale della dignità umana.
4. — Così intesa la figura delittuosa, si possono superare anche le residue censure.
La descrizione dell’elemento materiale del fatto-reato, indubbiamente caratterizzato dal riferimento a concetti elastici, trova nella tutela della dignità umana il suo limite, sì che appare escluso il pericolo di arbitrarie dilatazioni della fattispecie, risultando quindi infondate le censure di genericità e indeterminatezza.
Quello della dignità della persona umana è, infatti, valore costituzionale che permea di sé il diritto positivo e deve dunque incidere sull’interpretazione di quella parte della disposizione in esame che evoca il comune sentimento della morale. Nella stessa chiave interpretativa si dissolvono i dubbi sul fondamento della previsione incriminatrice. Onde non v’è lesione degli artt. 3, 21 e 25 della Costituzione.
PER QUESTI MOTIVI LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 15 della legge 8 febbraio 1948, n. 47 (Disposizioni sulla stampa), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 21, sesto comma, e 25 della Costituzione, con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma,nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 luglio 2000.
F:to:
Cesare MIRABELLI, Presidente
Francesco GUIZZI, Redattore
Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere
Depositata in cancelleria il 17 luglio 2000.
Il Cancelliere F.to: FRUSCELLA
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3. Sentenza della Cassazione (sezione terza penale) n. 23356 dell’8 giugno 2001: “La pubblicazione di fotografie del cadavere della vittima di un omicidio può costituire reato se le immagini sono caratterizzate da particolari impressionanti e raccapriccianti, lesivi della dignità umana”.
Pubblicare fotografie raccapriccianti della scena di un delitto può essere reato, in quanto si rischia di turbare il comune sentimento della morale. Questo il principio stabilito dalla terza sezione penale della corte di Cassazione che si è occupata del caso di due giornalisti di un noto settimanale che avevano pubblicato le foto relative al "delitto dell'Olgiata" e, per questo, erano stati condannati dalla Corte di appello di Milano. La Suprema Corte, pur annullando la condanna per intervenuta prescrizione, non ha mancato di sottolineare l'attualità della norma della legge sulla stampa che punisce le pubblicazioni a contenuto impressionante o raccapricciante, rilevando che il diritto di cronaca, pur legittimo in una società democratica ed aperta, deve salvaguardare il comune sentimento della morale e della dignità umana, evitando ogni inutile eccesso, nel rispetto del cosiddetto limite della continenza del fatto narrato. In altre parole il prodotto giornalistico, articolo o fotografia che sia, deve comunque rispettare delle prescrizioni: in questo caso, sostengono i giudici della terza sezione penale della Cassazione, la pubblicazione delle foto della donna uccisa nulla aggiungeva dal punto di vista dell'informazione e ha invece provocato un ulteriore oltraggio alla vittima e ai suoi familiari.
Il testo della sentenza
Suprema Corte di Cassazione, Sezione Terza Penale, sentenza n.23356/2001 (Presidente: A. Malinconico; Relatore: A. Postiglione)
FATTO E DIRITTO
La Corte di Appello di Roma, con sentenza in data 25/5/1998, in parziale riforma di quella del Tribunale di Roma del 3/2/1995, condannava M. M., C. L.e L. C. a mesi tre di reclusione L. 300 mila di multa per il reato di cui all'art.15 legge n.47/48 [1].
La Corte riteneva manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art.15 legge n.47/48 - disposizioni sulla stampa -in relazione all'art. 25 della Costituzione, escludendo che la norma penale violi i principi di tassatività e determinatezza.
Nel merito la Corte riteneva che tutti gli imputati (il M. nella qualità di direttore del Settimanale (omissis), il C. e C. L., quali autori dell'articolo) si erano resi responsabili del reato, perché, in concorso tra loro e con un pubblico ufficiale non identificato, avevano redatto e pubblicato un articolo sul n. 35, anno 3 del predetto settimanale , intitolato "Nella villa del delitto", corredandolo con tre fotografie a colori riproducenti le immagini del cadavere della contessa A. F. D. T., così come era stata rinvenuta nella casa all'Olgiata nella immediatezza dell'omicidio, perpetrato il 10/7/1991 con particolari impressionanti e raccapriccianti delle tracce sul corpo e sugli indumenti, delle nudità del cadavere e delle modalità di esecuzione del delitto, tali da turbare il comune sentimento della morale e l'ordine familiare.
Secondo la Corte l'elemento oggettivo del reato sarebbe stato integrato dalla peculiarità del caso, considerata la natura delle immagini ed il carattere insistito e quasi martellato dell'intero articolo, foto più testo, non giustificato dal normale esercizio del diritto di cronaca.
Secondo la Corte il reato era ascrivibile a tutti gli imputati, perché le foto erano state certamente viste anche dagli autori dell'articolo, per il preciso e puntuale riferimento ad esse nel contenuto dell'articolo pubblicato sul settimanale.
Contro questa sentenza gli imputati hanno proposto ricorso per Cassazione, deducendo violazione di legge, omessa ad erronea motivazione sotto vari profili:
a) la questione di legittimità costituzionale dell'art. 15 l. 47/48, in relazione agli artt. 3 e 25, 2° comma Costituzione può porsi, perché la norma penale opera un rinvio cosi generico e vago al concetto di comune sentimento della morale da rendere non solo difficile, ma impossibile definire l'oggetto giuridico che la norma intende tutelare;
b) nel caso in esame trattavasi di esercizio del diritto di cronaca e le immagini riproducevano un evento reale ed andavano valutate nel contesto dell'articolo pubblicato e non isolatamente, considerando anche l'elemento soggettivo degli autori della pubblicazione, che intendevano esecrare il delitto e rappresentarlo senza voler offendere il sentimento morale del pubblico;
c) doveva essere escluso il concorso nel reato dei due giornalisti (L. C. e C. L.), perché estranei alla condotta di fabbricazione, pubblicazione e diffusione, imputabili all'editore, che aveva fornito le foto incriminate.
Rileva la Corte che i ricorsi non possono essere accolti. Occorre premettere che con la sentenza n. 293/2000 la Corte Costituzionale ha già dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 15 della legge 8 febbraio 1948 n. 47 (disposizione sulla Stampa), sollevato, in riferimento agli artt. 3,21 sesto comma e 25 della Costituzione. La Corte di Cassazione condivide le argomentazioni della sentenza sopra indicata:
"L'art. 15 della legge n. 47 del 1948 dispone che si applichi l'art. 528 del codice penale ai fatti riguardanti gli "stampati i quali descrivano o illustrino, con particolari impressionanti o raccapriccianti, avvenimenti realmente verificatisi o anche soltanto immaginari .
La previsione penale esige, come elemento della fattispecie legale, che tali stampati siano formati in modo "da poter turbare il comune sentimento della morale o l'ordine familiare o da poter provocare il diffondersi di suicidi o delitti". Essa è all'esame di questa Corte per indeterminatezza, violazione del principio di uguaglianza e indebita limitazione della libertà di stampa, ma soltanto nella parte in cui dispone che questi stampati siano idonei a "turbare il comune sentimento della morale".
L'art. 15 della legge sulla stampa del 1948, esteso anche al sistema radiotelevisivo pubblico e privato dall'art. 30, comma 2, della legge 6 agosto 1990, n. 223, non intende andare al di là del tenore letterale della formula quando vieta gli stampati idonei a "turbare il comune sentimento della morale". Vale a dire, non soltanto ciò che è comune alle diverse morali del nostro tempo, ma anche alla pluralità delle concezioni etiche che convivono nella società contemporanea. Tale contenuto minimo altro non è se non in rispetto della persona umana, valore che anima l'art. 2 della Costituzione, alla luce del quale va letta la previsione incriminatrice denunciata.
Solo quando la soglia dell'attenzione della comunità civile è colpita negativamente. e offesa, dalle pubblicazioni di scritti o immagini con particolari impressionanti o raccapriccianti, lesivi della dignità di ogni essere umano, e perciò avvertibili dall'intera collettività, scatta la reazione dell'ordinamento. E a spiegare e a dar ragione dell'uso prudente dello strumento punitivo è proprio la necessità di un'attenta valutazione dei fatti da parte dei differenti organi giudiziari, che non possono ignorare il valore cardine della libertà di manifestazione del pensiero. Non per questo la libertà di pensiero è tale da inficiare la norma sotto il profilo della legittimità costituzionale, poiché essa è qui concepita come presidio del bene fondamentale della dignità umana".
Non possono essere, perciò, accolte le pur pregevoli osservazioni sollevate dalla difesa di M. M., perché è bensì vero che la descrizione dell'elemento materiale del fatto reato e della condotta è caratterizzata dal riferimento a concetti elastici affidati alla prudente valutazione del giudice nel caso concreto, ma non si può negare che nel nostro - come in altri ordinamenti - il legislatore possa rinviare a concetti, che evolvono secondo il costume sociale, ma attengono ad un bene giuridico reale, ossia il comune sentimento della morale e della dignità umana tutelata dall'art. 2 della Costituzione che l'esercizio del diritto di cronaca, pur pienamente legittimo in una società democratica ed aperta, deve salvaguardare come valore comune, non solo per un dovere di deontologia professionale ma - in casi estremi - per un dovere giuridico.
Nel merito la sentenza impugnata ha motivato in modo corretto e coerente in relazione al caso:
Le immagini della vittima dell'omicidio sono infatti tali da destare impressione e raccapriccio nell'osservatore di normale emotività, improntato ad impulsi di solidarietà umana, pietà per la defunta, rispetto per la sua spoglia, repulsione istintiva verso le ferite efferatamente impresse, senso di dignità della persona già uccisa in quel modo ed ulteriormente oltraggiata dalla pubblica ostensione del suo corpo, naturale esigenza di riservatezza verso l'intimità fisica personale rinforzata dalla condizione mortale del soggetto: insomma tutto quel complesso dì valori spirituali e sociali che, avvertiti come tali dalla comunità con immediatezza di consenso, costituiscono quello che secondo l'art. 15 cit. è il comune sentimento della morale ed intende salvaguardare dal pericolo di turbamento insito in un particolare modo eccessivo e socialmente inadeguato dell'informazione, cosi rispecchiando valori costituzionali che controbilanciano il diritto alla libera manifestazione del pensiero e perciò costituiscono limiti interni all'esercizio del diritto medesimo. Ciò posto non hanno alcun fondamento due specifiche argomentazioni del gravame: non quella che secondo l'interpretazione fatta propria dal Tribunale per l'integrazione del reato basterebbe la semplice fotografia di un cadavere, perché, mentre nessun raccapriccio può indurre la visione di una persona deceduta per cause naturali, qui si versa in una ipotesi ben diversa - e neppure quella secondo cui l'attuale bombardamento mediatico avrebbe indotto una tale assuefazione da far mutare il comune sentimento della morale, perché tale affermazione deve comunque misurarsi con la peculiarità del caso, e cioè con il carattere insistito e quasi martellato che presenta l'intero articolo (foto più testo)".
Trattasi di valutazione - sullo specifico caso concreto - che esulano dalla sfera del giudice di legittimità.
Egualmente incensurabile, perché correttamente motivata, è la decisione della Corte di Appello di Milano in ordine alla piena consapevolezza e volontarietà di tutti gli imputati (Direttori e giornalisti) di pubblicare un articolo integrato da fotografie estremamente crude sulla persona uccisa, fotografie che anche gli autori dell'articolo avevano visto.
Per la configurabilità del reato in oggetto non è necessario un dolo specifico, essendo sufficiente la consapevolezza e volontarietà della condotta.
Come è stato precisato nella sentenza impugnata per quanto riguarda la configurabilità dell'esimente di cui all'art. 51 cod. pen. in relazione all'art. 21 Costituzione è noto che il diritto di cronaca, come ogni diritto, si definisce per mezzo dei suoi stessi limiti, che consentono di precisarne il contenuto e di determinare l'ambito di esercizio. Tali limiti secondo il costante insegnamento della giurisprudenza di legittimità (ad es. Cass. V, n. 7632 del 6/7/92, Melchiorre) sono costituiti tra l'altro dalla pertinenza del fatto narrato, e cioè dall'oggettivo interesse che il fatto riveste per l'opinione pubblica e dalla correttezza con cui il fatto viene esposto (cosiddetta continenza), essendo estraneo all'interesse sociale, che giustifica la discriminante in parola, ogni inutile eccesso.
Poiché dalla sentenza impugnata non emergono in modo evidente cause di non punibilità ex art. 129 cod. pen. , ma anzi è stata motivata la penale responsabilità degli imputati, la Corte deve dichiarare estinto il reato perché è decorso il termine massimo di prescrizione (a partire dalla pubblicazione dell'articolo nell'agosto 1991).
Vanno, invece, confermate le statuizioni civili.
PER QUESTI MOTIVI
La Corte Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il reato è estinto per prescrizione; Conferma le statuizioni civili.
Depositata in Cancelleria l'8 giugno 2001.
Il 20 novembre 2000 era stato radiato dal Consiglio dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia
4. Tribunale penale di Monza (27 febbraio 2002): Vittorio Feltri patteggia due mesi di reclusione per la pubblicazione di foto di bambini violentati. Censura (4 febbraio 2003) al giornalista da parte del Cnog (al posto della radiazione inflitta dall’OgL).
''Feltri assolto'' titolava il 5 febbraio 2003 il quotidiano Libero, riferendo la decisione dell'Ordine nazionale dei giornalisti sul procedimento disciplinare contro il direttore per la pubblicazione di foto di bimbi violentati. ''Il direttore di Libero è stato condannato'' ha precisato subito una nota dell'Ordine nazionale, spiegando che è stata solo modificata la sanzione (non la radiazione, come il 20 novembre 2000 aveva deciso l'Ordine lombardo, in primo grado, ma la censura). L’articolo 53 della legge professionale dice: “La censura, da infliggersi nei casi di abusi o mancanze di grave entità, consiste nel biasimo formale per la trasgressione accertata”. A Feltri era stato contestato il seguente addebito: <Aver disposto, nella sua qualità di direttore di «Libero», la pubblicazione alla pagina 3 dell’edizione del 29 settembre 2000 del quotidiano di sette fotografie impressionanti e raccapriccianti di bambini ricavate da un «sito pornografico reso disponibile dai pedofili russi», e di una ottava fotografia a pagina 4 (raffigurante «una scena di violenza tratta dal video di pedofilia sequestrati dalla magistratura»), fotografie che appaiono tutte contrarie al buon costume e tali, «illustrando particolari raccapriccianti e impressionanti», «da poter turbare il comune sentimento della morale e l’ordine familiare». La pubblicazione delle 8 fotografie integra la violazione degli articoli 2 e 48 della legge m. 69/1963 sull’ordinamento della professione giornalistica in relazione all’articolo 21 (VI comma) della Costituzione e all’articolo 15 della legge n. 47/1948 sulla stampa».
La nota dell'Ordine nazionale spiega anche che al termine del dibattito, nel quale erano state proposte diverse sanzioni, per lo più di sospensione dall'albo, ''il Consiglio nazionale, modificando il giudizio dell'Ordine della Lombardia che aveva deciso la radiazione, gli ha comminato la sanzione della censura. Lo scrutinio segreto - conclude la nota - ha dato il seguente esito: 46 voti a favore, 42 contrari e una scheda bianca''.
Per quanto riguarda, invece, la sanzione a Vittorio Feltri, il segretario dell'Ordine Vittorio Roidi, ha chiarito all’Ansa che nel procedimento contro il direttore di Libero ''c'è stato un lungo dibattito. C'era la radiazione fatta dall'Ordine di Milano, c'era la proposta della Commissione ricorsi che era stata di un anno di sospensione, e altre proposte di sospensione più lievi e poi la proposta di censura. Secondo lo statuto dell'Ordine - spiega ancora Roidi - si inizia la votazione a scrutinio segreto dalla proposta più lieve, quindi in questo caso dalla censura che è passata alla prima votazione con 46 voti a favore contro 42 contrari''.
Per gli stessi fatti (la pubblicazione di foto di bimbi violentati) Vittorio Feltri ha patteggiato il 27 febbraio 2002 davanti al Tribunale di Monza una condanna a due mesi di reclusione poi commutata in pena pecuniaria. L’accusa penale riguardava la violazione dell’articolo 15 della legge n. 47/1948 sulla stampa (la pubblicazione, appunto, di foto impressionanti e raccapriccianti).
“La pubblicazione di immagini raccapriccianti e impressionanti non rientra nel diritto di cronaca”: l’impostazione dell’Ordine di Milano è stata, quindi, ritenuta fondata e corretta sia dal Consiglio nazionale dell’Ordine sia dal Tribunale di Monza. La violazione del principio fissato nell’articolo 15 della legge sulla stampa costituisce anche violazione deontologica in quanto l’articolo 2 della legge professionale pone come limite al diritto insopprimibile della libertà di informazione e di critica il rispetto della persona umana, cioè il valore-cardine rappresentato dall’articolo 2 della Costituzione.
La Corte Costituzionale, con sentenza n. 293 del 17 luglio 2000, ha dichiarato non fondata la questione sollevata dalla Cassazione, in quanto ha ritenuto che le pubblicazioni vietate dall’articolo 15 della legge sulla stampa siano quelle lesive della dignità umana e perciò avvertibili dall’intera collettività. La persona umana – ha precisato la Corte Costituzionale – è tutelata dall’articolo 2 della Costituzione, in base al quale deve essere interpretato l’articolo 15 della legge sulla stampa; la descrizione dell’elemento materiale del fatto-reato, indubbiamente caratterizzato dal riferimento a concetti elastici, trova nella tutela della dignità umana il suo limite, sì che appare escluso il pericolo di arbitrarie dilatazioni della fattispecie, risultando quindi infondate le censure di genericità e indeterminatezza.
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La sentenza del Tribunale di Monza
SENTENZA DI APPLICAZIONE DELLA PENA SU RICHIESTA DELLE PARTI
(artt. 444, 448 c.p.p.)
TRIBUNALE DI MONZA - Ufficio del Giudice per le Indagini Preliminari
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Giudice Dott.ssa Rosaria PASTORE
all'udienza in Camera di Consiglio ex artt. 444 - 447 c.p.p. del 27 febbraio 2002 ha pronunciato la seguente SENTENZA nei confronti di:
FELTRI. Vittorio, nato a Bergamo il 25.6.1943; residente a Ponteranica in via Maresana nr. 33; Difensore di Fiducia: Avv. Salvatore Lo Giudice, del foro di Milano, munito di Procura Speciale.
IMPUTATO
In concorso con Massano Massimo e GarneroFranco (posizioni "stralciate")
del reato p. e p. dagli artt.110 c.p.,15 Legge 47/48, in relazione all'art. 528 c.p.:
poiché, in concorso fra loro, il primo nella qualità di direttore (ex art. 7 L 633/1941), il secondo nella qualità di legale rappresentante della "Vittorio Feltri Editore e C. srI" (gestore della testata giornalistica), il terzo nella qualità di editore e direttore responsabile del quotidiano "Libero", allo scopo di farne distribuzione e di esporle pubblicamente, mettevano in circolazione immagini oscene (rappresentanti situazioni di pornopedofilia) -attraverso la loro pubblicazione sul quotidiano "Libero"- riportanti particolari impressionanti e raccapriccianti, tali da poter turbare il comune sentimento della morale.
Con la recidiva specifica reiterata e infraquinquennale per Feltri Vittorio
In Paderno Dugnano il 29.9.2000
MOTIVAZIONE
- Letti gli atti del procedimento penale sopra indicato e valutata la richiesta ex art. 444 c.p.p. nell'interesse dell'imputato FELTRI Vittorio avanzata dal difensore-procuratore speciale all'esito della notificazione degli avvisi ex art. 415 bis c.p.p. e consentita dal P.M. procedente con nota del 4 gennaio 2002 ;
- rilevato che la pena concordata dalle parti ai sensi degli artt. 444 e segg. c.p.p. risulta correttamente determinata ma espressa in "Lire" con la conseguente necessità di una modificazione che tenga conto dell'entrata in vigore della "moneta unica" lasciando immutata la determinazione della pena detentiva come da inizialmente concordata;
-richiamato quanto verbalizzato, di conseguenza, all'odierna udienza e indicato di seguito il "rinnovato" calcolo della sanzione così determinata:
P. B. = concessa la circostanza attenuante di cui all'art. 62 nr. 1) c.p. ritenuta equivalente alla contestata recidiva: Mesi 3 di reclusione e 350 Euro di multa, calcolata in relazione al reato ex art. 15 L. 47/48 in relazione all'art. 528 c.p., ridotta per effetto del rito alla sanzione richiesta pari a Mesi 2 di reclusione e a 235 Euro di multa;
Sottolineato che, per la sanzione detentiva, risulta richiesta la sostituzione nella corrispondente sanzione pecuniaria ex art. 53 L. 689/81 e che, anche per tale calcolo, la somma risulta espressa in lire per cui si impone adeguata rideterminazione anche di tale profilo della "pena concordata tra le parti";
Evidenziato che la sostituzione di mesi 2 di reclusione è pari ad Euro 2.324,06 e che a tale somma deve aggiungersi quella della multa concordata in Euro 235, la pena finale e complessiva da ritenere definitivamente "patteggiata" ex art. 444 c.p.p. all'odierna udienza è di Euro 2.559,06;
Richiesta espressamente non subordinata alla concessione della sospensione condizionale della pena e, anzi, comprensiva di esplicita istanza i non concessione di tale beneficio di legge.
- Ritenuto che sussistono tutti i requisiti di ammissibilità della richiesta, in quanto la qualificazione giuridica dei fatti nonché l'applicazione e la comparazione delle circostanze come prospettate dalle parti appaiono correttamente determinate;
- considerato che non sussiste alcuna delle ipotesi di cui all'art. 129 c.p.p., emergendo dagli atti univoci elementi che escludono una pronuncia di proscioglimento tenuto conto:
degli articoli di stampa oggetto di denuncia, delle immagini fotografiche che ne corredano l'impaginazione e degli accertamenti di P.G. acquisiti agli atti;
- ritenuta, infine, la ravvisabilità della circostanza attenuante ex art. 62 nr. 1) e.p. in considerazione del movente etico che risulta avere inequivocabilmente spinto l'imputato a commettere il reato in contestazione, nella convinzione di ristabilire un principio morale o sociale offeso che risulta obiettivamente già emergere dal tenore degli articoli di stampa corredati dalle immagini fotografiche in questione ma che risulta, anche e soprattutto, ulteriormente e dichiaratamente ribadita direttamente dal FELTRI con l' "articolo di fondo" pubblicato sul medesimo giornale in data 29 settembre 2000 (cui si rimanda);
ne deriva che, data tale premessa, non v'è dubbio che l'intervento dell'imputato - così come sopra motivato ed oggettivamente desumibile dai fatti - risulti integrare gli estremi per la ravvisabilità dell'attenuante in questione posto che "... per la sussistenza della circostanza attenuante comune dei motivi di particolare valore morale o sociale non è sufficiente che il movente della condotta sia suscettibile di una valutazione etica positiva, ma è necessario che l'agente abbia commesso il reato per realizzare uno scopo spiccatamente nobile e altruistico. Oggettivamente conforme alla morale ed ai costumi della collettività…" (Cass. Pen. sez. I, 6 giugno 1991, n. 6205, Poli);
-Visti e applicati gli artt. 444. e segg. c.p.p.,
P.Q.M.
APPLICA su richiesta delle parti a carico di FELTRI Vittorio in ordine al reato ascrittogli, concessa la circostanza attenuante comune ex art. 62/1°co. r. l) c.p. ritenuta equivalente alla contestata recidiva e già operata la riduzione per effetto del rito, la pena di Mesi 2 di reclusione e 235 Euro; Sostituisce la pena detentiva come sopra. indicata nella corrispondente sanzione pecuniaria pari ad Euro 2.324,06 e, così, per una sanzione finale e complessiva di Euro 2.559,06;
Consegue per legge l'esonero dalla condanna alle sanzioni accessorie ed al pagamento delle spese processuali.
Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di competenza.
Monza, lì 27 febbraio 2002
IL GIUDICE
Dott.ssa Rosaria PASTORE
Depositata in Cancelleria in pari data
Il Cancelliere
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5) Immagini raccapriccianti e cronaca bellica (guerra civile in Liberia): il tribunale di Roma (IX sezione penale) assolve (con sentenza 25 novembre 2003) direttore e inviato speciale di Tmc “per l’intrinseco valore informativo delle immagini pur ponendosi, per le scene di violenza documentate, ai confini del limite massimo oltre il quale l’attività di informazione travalica l’indispensabile tutela, anche costituzionale, della dignità delle persone e, conseguentemente, il fatto così come contestato non sussiste”.
TRIBUNALE ROMA - 25 NOVEMBRE 2003
GIUDICE ESTENSORE: BATTISTINI
PARTI: SOMMAJUOLO E GIROLA
Radiotelevisione
• Trasmissioni a contenuto impressionante o raccapricciante
• Telegiornale • Servizio giornalistico sulle atrocità di un conflitto civile
• Elemento oggettivo del reato • Insussistenza (art. 30 comma 2 l. 6 agosto 1990 n. 223, art. 15 l. 8 febbraio 1948 n. 47; C.p. art. 528)
Non integra l'elemento oggettivo del reato previsto e punito dall'art. 15 l. 8 febbraio 1948 n. 47 la trasmissione, durante un telegiornale, di un servizio giornalistico sulle atrocità di un conflitto civile, avvenuto con modalità obiettivamente percepibili come dotate di intrinseco valore informativo. (Nella specie trattavasi di immagini, tra le quali quelle in primo piano di cadaveri putrefatti, teste mozzate e scheletri impiccati, trasmesse durante il telegiornale delle ore 19,30 dall’emittente televisiva Telemontecarlo, accompagnate da commenti e seguite da una intervista telefonica).
Radiotelevisione
• Attività di informazione diretta a documentare scene di violenza
• Offesa al comune sentimento della morale Insussistenza (art. 30 comma 2 l. 6 agosto 1990 n. 223, art. 15 l. 8 febbraio 1948 n. 47; C.p. art. 528)
Il comune sentimento della morale, non può ritenersi aggredito dall'attività di informazione che, pur ponendosi, per le scene di violenza documentale, ai confini del limite massimo oltre il quale essa travalica la tutela della dignità personale, tuttavia, proprio per la sua intrinseca natura, non entri in contrasto con esso.
Il Tribunale ordinario di Roma in composizione monocratica, IX sezione dibattimentale penale, in persona del dott. Massimo Battistini, alla pubblica udienza del 25 novembre 2003 ha pronunziato e pubblicato mediante lettura del dispositivo la seguente sentenza nel procedimento penale di primo grado nei confronti di:
‑ Sommajuolo Armando nato a Roma e ivi elettivamente domiciliato ex art. 161 c.p.p. in Piazza della Marina n. 1;
‑ Girola Pier Michele nato a Torino ed elettivamente domiciliato ex art. 161 c.p.p. in Roma, Piazza della Balduina n. 49, presso la Direzione di TMC.
Imputati del reato p. e p. dagli artt. 15 Legge n. 47/1948, 30 comma secondo Legge n. 223/90 e 110, 528 c.p., perché, in concorso tra di loro, il primo realizzava ed il secondo, in qualità di direttore del telegiornale, decideva di mandare in onda, un servizio giornalistico relativo alla guerra civile in Liberia ‑ trasmesso durante il telegiornale delle ore 19,30 dall'emittente televisiva Telemontecarlo ‑ contenente immagini impressionanti e raccapriccianti tra le quali quelle in primo piano di cadaveri putrefatti, di teste mozzate e di scheletri impiccati, non indispensabili ai fini del racconto del fatto di cronaca e tali da turbare il comune sentimento della morale.
Con l'assistenza del cancelliere B3 dott. Roberto Ponzi e con l'intervento del pubblico ministero dott. Roberto Alfonsi, vice procuratore onorario delegato, e dell'avv. Luca Marafioti, difensore di fiducia degli imputati.
Le parti hanno concluso nel modo seguente:
il pubblico ministero: assoluzione perché il fatto non sussiste;
il difensore degli imputati: per Sommajuolo assoluzione perché il fatto non sussiste, in subordine perché il fatto non costituisce reato, in subordine per mancanza di dolo; per Girola assoluzione per non aver commesso il fatto.
MOTIVAZIONE. ‑ Il pubblico ministero, con decreto del 27 novembre 2002 ritualmente notificato (in rinnovazione del decreto in data 5 marzo 2002), disponeva la citazione a giudizio degli imputati affinché gli stessi rispondessero del reato di cui in epigrafe.
Preliminarmente deve rilevarsi che alla data di pronuncia della presente sentenza non è decorso il termine di prescrizione del reato contestato atteso l'intervento, ai fini del termine ordinario, degli atti interruttivi costituiti dal decreto penale di condanna emesso il 27 gennaio 1998 e dal decreto di giudizio immediato del 4 marzo 1998 relativi a fase anteriore al presente processo (non compiutamente illustrata dal pubblico ministero) e, ai fini del termine massimo, dell'ordinanza di sospensione del decorso della prescrizione pronunciata in data 30 maggio 2003 stante il rinvio del processo per legittimo impedimento del difensore degli imputati.
Per quanto attiene alla ricostruzione del fatto dalla denuncia presentata in data 22 maggio 1996 da Pietro Ballerini Puviani, acquisita con l'accordo delle parti in luogo della testimonianza del predetto, emerge che il denunciante ha inoltrato in data 15 maggio 1996, per via postale, all'Autorità Garante per l'Editoria un esposto. Da quest'ultimo, integralmente trascritto nella denuncia, emerge che il Ballerini Puviani il giorno 8 marzo 1996 alle ore 20.00 ha acceso la televisione e ha assistito al telegiornale messo in onda dalla rete Telemontecarlo. Secondo l'esponente tra i vari servizi di cronaca estera ne è stato trasmesso, con particolare enfasi, uno riguardante la guerra combattuta in Liberia, corredato da primi piani di scene raccapriccianti che mostravano particolari di cadaveri semi decomposti, scheletri umani sino ad arrivare al «gran finale», annunciato con voce compiacente dal commentatore di turno, alla proiezione cioè di un primissimo piano di una testa mozzata a un giovane di colore (presumibilmente un combattente), collocata su di un ceppo al centro di una piccola piazza e attorno alla quale si pavoneggiava il giovane miliziano evidentemente orgoglioso del proprio trofeo. Il Ballerini Puviani affermava, inoltre, che le immagini erano di una crudezza e di una violenza tali che perfino lui stesso, pur non più adolescente e in grado di affrontare i fatti della vita, ne è rimasto profondamente scosso nonché alquanto disgustato. L'esponente sottolineava anche di aver personalmente rilevato che l'emittente Canale 5 ha preferito mostrare analoghe immagini soltanto nel corso del telegiornale di tarda serata, avvertendo prima che se ne sconsigliava la visione a un pubblico non adulto, e evidenziava, altresì, che non può non essere posto un limite invalicabile alla diffusione televisiva ‑ purtroppo sempre più frequente ‑ di immagini così gratuitamente violente in orari in cui notoriamente il pubblico è in buona parte costituito da bambini o adolescenti, non in grado di assimilare spettacoli senza riportare traumi, le cui conseguenze potrebbero essere di gravissima portata quanto allo sviluppo della personalità e del carattere. Il Ballerini Puviani esponeva, inoltre, che la visione di tali immagini da parte di minori non potrebbe (o dovrebbe) essere inibita a opera dei genitori in quanto è ormai dato di comune esperienza che nell'orario di primissima serata la stragrande maggioranza delle famiglie italiane è solita tenere la televisione accesa risultando di fatto impossibile interrompere repentinamente la visione nel caso di servizi trasmessi dai telegiornali che, come è noto, scorrono rapidissimi, spaziando dalla cronaca rosa a quella nera senza soluzione di continuità. L'esponente, infine, esprimeva ulteriori varie considerazioni sugli effetti che immagini di morte possono recare sulla personalità dei minori e chiedeva all'Autorità Garante, previa l'acquisizione e la visione della registrazione di cui sopra, l'adozione dei provvedimenti di competenza preannunciando che analoga «segnalazione» sarebbe stata fatta all'«autorità penale» per l'accertamento della commissione di eventuali reati, così come di fatto è avvenuto con la denuncia in argomento.
Il teste della difesa Edgardo Gulotta, sentito in merito alla trasmissione dell'8 maggio 1996, ha dichiarato che all'epoca era uno dei capi redattori, che normalmente il contenuto del telegiornale viene predisposto nell'ambito di una riunione della redazione in cui viene operata la scelta delle notizie e dei filmati, direttamente prodotti o pervenuti anche tramite l'Eurovisione, che meritano di essere riportati e che ciò di fatto è avvenuto anche per la trasmissione oggetto del presente processo («ricordo che queste vicende liberiane erano delle vicende un po' misteriose, come tutte quelle che arrivano dall'Africa, ci sono delle zone un po' dimenticate, anche dalle agenzie difficili da coprire, per le quali arrivano poche immagini complesse, per dire l'Afghanistan un'altra parte di queste zone da cui sono arrivate pochissime immagini per molti anni, tanto per citarne uno, la Liberia era uno di questi casi, non si avevano immagini, si aveva notizia di guerre tribali, di scontri sanguinosissimi, ma non si avevano notizie. Quel giorno, per la prima volta, arrivavano delle immagini, ahimé, crude, forti, che testimoniavano quello che stava accadendo, la guerra civile, quella che si stava svolgendo in Liberia. La scelta fu di far vedere delle immagini forti per... ‑ attenzione, c'è una guerra della quale si parla molto poco, che provocava molti morti, che è crudelissima, che è cruentissima, che è inumana.»).
Il teste ha anche dichiarato che l'imputato Girola era il direttore responsabile del telegiornale e che nel caso specifico era perfettamente a conoscenza del contenuto del telegiornale per aver partecipato alla riunione decisionale sopra descritta («il direttore vedeva, come noi, le immagini che scorrevano e naturalmente, proprio per scelta alcune volte si decideva di fare alcune cose e altre volte decidevamo di non farle, ci fu anche una riflessione su questo... se non ricordo male c'era anche una cosa che accompagnava il servizio che, come, dire un'opinione, non ricordo, ecco, qualche cosa del genere che era proprio a testimonianza della crudezza... di questa guerra dimenticata...»).
L'imputato Armando Sommajuolo spontaneamente ha dichiarato di svolgere da numerosi anni l'attività di giornalista e, in particolare, di essere un inviato speciale nello specifico settore delle guerre africane.
L'imputato quanto al fatto ha dichiarato, tra l'altro, quanto segue:
«Arrivarono queste immagini, immagini naturalmente molto forti, in un'altra occasione noi l'avremmo sicuramente censurata, in quel caso ci fu una riunione, ne parlammo a lungo e decidemmo di passarla e le dirò, Signor Giudice, che comunque, col senno del poi, quella fu, a mio parere, mi consenta, una decisione azzeccata perché naturalmente non fummo i soli a passare quelle immagini, "Il Corriere della Sera" le mise credo non so se in prima pagina o comunque mise la fotografia, ne parlarono altre televisioni in tutto il mondo e naturalmente ci fu una presa di coscienza, il nostro Parlamento... ci furono delle interpellanze parlamentari e addirittura queste immagini arrivarono fino alle Nazioni Unite e si decise, sulla base di quelle immagini, di far intervenire una missione, chiamiamola così, di pace, un intervento umanitario. Questo intervento ci fu, mi pare arrivarono i paracaduti francesi, si fece un cordone sanitario, questa gente fu fatta evacuare e si salvarono delle vite. Allora questo è un caso, un caso sintomatico, voglio dire, io sono stato in Afghanistan, in Pakistan, in Somalia, a Timor Est, ne ho viste, ma nessuno si sogna, si sveglia la mattina di far vedere in un telegiornale la gente massacrata a colpi di macete come ho visto io e come, tra l'altro, alcune televisioni hanno passato, però quello era un caso particolare; c'era una famiglia, io l'ho segnato anche qua, la famiglia Maconi, una famiglia di italiani che era bloccata, che non faceva altro che attaccarsi al telefono e dire ‑ guardate che noi siamo in pericolo ‑ c'erano dei missionari che telefonava, dicevano ‑ per favore fate qualcosa ‑ e nessuno si smuoveva. Quella è stata una decisione presa, diciamo, coscientemente. Quindi ecco, vorrei dire soltanto questo. Tra l'altro quelle immagini furono girate da una giornalista che si chiamava Corinne Dufka che entrò in Liberia quasi di nascosto perché il problema è che non c'erano immagini, non c'erano immagini perché la gente aveva paura anche di andarci, gli stessi giornalisti perché là li ammazzavano, sono morti quattro o cinque giornalisti in quel periodo, questa giornalista riuscì ad entrare anche con una troupe della Roiter, scattò delle fotografie, scattò queste immagini che fecero il giro del mondo e tra l'altro vinse un premio prestigioso... Quindi io concludo in questo modo, la nostra fu una decisione presa coscientemente e basta.».
Il Sommajulo, infine, con riferimento a una domanda sulla possibilità di visione delle immagini da parte di bambini, ha spontaneamente dichiarato: «in quel caso quell’immagine rappresentava la notizia e per quanto riguarda un nostro codice interno per passare quell'immagine sarebbe stato comunque in qualche modo un non far fronte a quello che era... sì, una sorta di autocensura e, ripeto, il fatto che poi quell'immagine abbia avuto una tale ripercussione in tutto il mondo da suscitare un intervento umanitario, in qualche modo direi che il rischio a mio parere in quel caso andava corso».
La difesa dell'imputato ‑ in relazione alla trasmissione in data 8 maggio 1996 ‑ ha prodotto copia del «promo», copia dei titoli dei servizi, copia del titolo del servizio sulla guerra in Liberia, copia del testo del servizio sulla guerra in Liberia letto dal conduttore Sommajuolo, copia della fotografia inviata tramite agenzia contenente immagine identica a quella trasmessa dal telegiornale di TMC, copia dell'articolo pubblicato sul Corriere della Sera 1'8 maggio 1996 corredato dalle fotografie scattate da Corinne Dufka, copia di e‑mail inviata da Padre Efrem Tresoldi contenente un giudizio sulla trasmissione di immagini analoghe a quelle in argomento, lettere inviate da Gerardo Caglioni, Padre dei Missionari Saveriani, e da Claudio Marano, responsabile del Centre Jeunes Kamenge di Bujumbura-Burundi e varie copie di fotografie pubblicate su quotidiani e periodici riproducenti scene di guerra violente.
Gli elementi acquisiti nel corso del dibattimento hanno consentito di ricostruire esattamente le modalità dello svolgimento del fatto e il ruolo degli imputati.
La copia integrale della trasmissione, compreso il «promo» ossia il preannuncio del contenuto del telegiornale, la relazione tecnica del Centro Carabinieri Investigazioni Scientifiche contenente alcune delle immagini estrapolate dalle videocassette in atti e la riproduzione scritta del contenuto della trasmissione prodotta dalla difesa consentono di affermare che in data 8 maggio 1996 sono state trasmesse su Telemontecarlo alcune immagini della guerra liberiana tra cui quelle di cadaveri, scheletri e una testa mozzata esposta a mo' di trofeo.
Dalla testimonianza del Gulotta e dalle spontanee dichiarazioni dell'imputato Sommajuolo è emerso che la decisione di trasmettere le immagini è stata frutto di una meditata, comune e volontaria decisione della redazione e, quindi, anche del direttore responsabile Girola di talché correttamente è stato contestato nei confronti degli imputati il concorso nella realizzazione del fatto e appaiono inconferenti le prospettazioni difensive circa l'assenza in capo al Girola della qualità di delegato al controllo delle trasmissioni, prevista dall'art. 30 della L. 6 agosto 1990 n. 223.
Ciò posto deve rilevarsi che l'art. 15 della legge 8 febbraio 1948 n. 47 prevede l'applicabilità dell'art. 528 c.p. anche «nel caso di stampati i quali, descrivano o illustrino, con particolari impressionanti o raccapriccianti, avvenimenti realmente verificatisi e anche soltanto immaginari, in modo da poter turbare il comune sentimento della morale o l'ordine familiare o da poter provocare il diffondersi di suicidi o delitti». L'art. 30, 2° comma, della legge 6 agosto 1990 n. 223 ha esteso, per intuibili ragioni, la sanzione penale al sistema radiotelevisivo pubblico e privato («Si applicano alle trasmissioni le disposizioni di cui agli artt. 14 e 15 della. L. 8 febbraio 1948 n. 47»). Così come ritenuto dalla Corte Costituzionale, investita della questione di legittimità costituzionale del citato art. 15 con riferimento agli artt. 3, 21, 6° comma, e 25 della Costituzione, la descrizione dell'elemento materiale del fatto‑reato, indubbiamente caratterizzato dal riferimento a concetti elastici, trova nella tutela della dignità umana il suo limite, sì che appare escluso il pericolo di arbitrarie dilatazioni della fattispecie. Secondo la Corte «solo quando la soglia dell'attenzione della comunità civile è colpita negativamente, e offesa, dalle pubblicazioni di scritti o immagini con particolari impressionanti o raccapriccianti, lesivi della dignità di ogni essere umano, e perciò avvertibili dall'intera collettività, scatta la reazione dell'ordinamento. E a spiegare e a dar ragione dell'uso prudente dello strumento punitivo è proprio la necessità di un'attenta valutazione dei fatti da parte dei differenti organi giudiziari, che non possono ignorare il valore cardine della libertà di manifestazione del pensiero. Non per questo la libertà di pensiero è tale da inficiare la norma sotto il profilo della legittimità costituzionale, poiché essa è qui concepita come presidio del bene fondamentale della dignità umana».
L'attenta valutazione cui ha fatto riferimento la Corte impone, innanzitutto, di rilevare che le immagini riprese dalla nota fotoreporter Corinne Dufka andate in onda durante il telegiornale condotto dal Sommajulo, pubblicate anche dalla stampa, testimoniavano, in modo fedele, la cruda realtà dei gravissimi fatti che stavano accadendo in Liberia e nel corso del servizio è andata in onda, oltre al commento del conduttore, anche un'intervista telefonica a padre Efrem Tresoldi, all'epoca direttore della rivista Nigrizia, avente a oggetto la drammatica situazione liberiana.
Le modalità di presentazione del servizio giornalistico, oltre che nell'intenzione degli imputati, devono ritenersi obiettivamente percepibili come volte a denunciare all'opinione pubblica gli orrori della guerra liberiana in considerazione del commento e dell'intervento telefonico di un religioso. E di fatto la notizia non era la guerra che, come noto, contiene in sé il concetto di violenza ma le atrocità non assolutamente indispensabili al conflitto, quali il taglio e l'esposizione sulla pubblica via della testa di un nemico, che hanno caratterizzato le guerre africane (da alcuni documenti su tali guerre è possibile rilevare che sono stati consistentemente impiegati i c.d. «bambini soldati» il cui compito era quello di stanare gli adulti nella boscaglia e ai quali era riservato come «premio» la testa mozzata della preda). Pur non potendosi escludere negli imputati la probabile concorrente finalità di aumentare l'audience che per ragioni di concorrenza spesso caratterizza l'operato di chi gestisce la televisione, ben difficilmente lo spettatore medio può aver decontestualizzato le immagini e averle percepite come offensive del sentimento morale o dell'ordine familiare. Quanto all'aspetto della visibilità delle immagini da parte dei minori, reale oggetto della denuncia del Ballerini Puviani, deve rilevarsi che sia durante il «promo» che all'interno del telegiornale, sia pur succintamente, è stato fatto un riferimento alla natura delle immagini (titolo: «Una testa mozzata come trofeo. Un'immagine terribile che arriva dalla Liberia dove infuria la guerra civile. Il servizio e il parere di un esperto, padre Efrem Tresoldi direttore di Nigrizia») idoneo all'eventuale inibizione della visione delle immagini da parte degli adulti che hanno l'obbligo di costante vigilanza sui minori. In merito deve solamente rimproverarsi agli imputati, sotto il profilo dell'adeguata professionalità, di non aver dato avvertimento più incisivo e analogo a quello previsto dal punto n. 2 del codice di autoregolamentazione nei rapporti tra TV e minori stipulato nell'anno 1997 (ossia successivamente al fatto) che già all'epoca, in considerazione del crescente processo di attenzione nei confronti della tutela dei minori da parte dei giornalisti (si pensi alla Carta di Treviso del 1990 e al successivo Vademecum del 1995), ben poteva essere dato così come ha fatto, opportunamente, l'emittente Canale 5.
In definitiva le immagini per l'intrinseco valore informativo non contrastano con quel complesso di valori spirituali e sociali che, avvertiti come tali dalla comunità con immediatezza di consenso, costituiscono quello che secondo la norma incriminatrice è il comune sentimento della morale pur ponendosi, per le scene di violenza documentate, ai confini del limite massimo oltre il quale l'attività di informazione travalica l'indispensabile tutela, anche costituzionale, della dignità delle persone e, conseguentemente, il fatto così come contestato non sussiste.
* Per i non molti precedenti sull'art. 15 l. 47/1948 v. Cass. 27 aprile 2001 (in Foro it., 2001, II, 446), nonché il merito della stessa controversia T. Roma 3 febbraio 1995 (in questa Rivista, 1996, 43; e in Crit. diritto 1995, 241 con nota di A. BEVERE). Inoltre Trib. Milano 10 ottobre 1995 (in questa Rivista, 1996, 47); Cass. 9 giugno 1982, VALENTINi (in Cass. pen., 1984, 417 e in Riv. pen., 1983, 637) riguardanti le foto dell'on. Moro all'obitorio, nonché quelli citati in A. JANNUZZI ‑ V. FERRANTE, I reati nella legislazione sulla stampa, Milano, 1978, p. 233. In dottrina v. P. NUVOLONE, Il diritto penale della stampa, Padova, 1971, p. 256 ss.
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6. Documentazione normativa e giurisprudenza
Costituzione. Articolo 2. La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
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Legge 8 febbraio 1948 n. 47 sulla stampa
Articolo 15. Pubblicazioni a contenuto impressionante o raccapricciante.
Le disposizioni dell'art. 528 del Codice penale si applicano anche nel caso di stampati i quali descrivano o illustrino, con particolari impressionanti o raccapriccianti, avvenimenti realmente verificatisi o anche soltanto immaginari, in modo da poter turbare il comune sentimento della morale o l'ordine familiare o da poter provocare il diffondersi di suicidi o delitti (9) (10/cost).
(9) Vedi la L. 17 giugno 1975, n. 355V.
(10) La Corte costituzionale, con sentenza 11-17 luglio 2000, n. 293 (Gazz. Uff. 26 luglio 2000, n. 31, serie speciale), ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 15, sollevata in riferimento agli artt. 3, 21, sesto comma, e 25 della Costituzione.
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Legge 3 febbraio 1963 n. 69 sulla professione giornalistica
Articolo 2. Diritti e doveri.
E' diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà di informazione e di critica, limitata dall'osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui ed è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti, osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede.
Devono essere rettificate le notizie che risultino inesatte, e riparati gli eventuali errori.
Giornalisti e editori sono tenuti a rispettare il segreto professionale sulla fonte delle notizie, quando ciò sia richiesto dal carattere fiduciario di esse, e a promuovere lo spirito di collaborazione tra colleghi, la cooperazione fra giornalisti e editori, e la fiducia tra la stampa e i lettori.
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Giurisprudenza
E' infondata, in riferimento agli art. 3, 21 comma 6, 2 e 25 cost. la q.l.c. dell'art. 15 l. 8 febbraio 1948 n. 47, (Disposizioni sulla stampa), nella parte in cui, sanzionando penalmente, ai sensi dell'art. 528 c.p., l'utilizzazione di stampati i quali descrivono o illustrano, con particolari impressionanti o raccapriccianti, avvenimenti realmente verificatisi o anche soltanto immaginari in modo da poter turbare il comune sentimento della morale e l'ordine familiare o da poter provocare il diffondersi di suicidi o delitti, lederebbe i principi di tassatività e determinatezza delle fattispecie penali, di libertà della stampa e di ragionevolezza e uguaglianza, perché non offrirebbe idoneo fondamento giustificativo alla punizione di coloro che diffondono siffatte immagini. (Corte cost. 17-07-2000, n. 293; Corvi c. Pres. Cons. ; FONTI Riv. Pen., 2000, 881)
Non è fondata, con riferimento agli art. 3, 21 comma 6 e 25 cost., la q.l.c. dell'art. 15 l. 8 febbraio 1948 n. 47 (Disposizioni sulla stampa) - il quale, nel sanzionare penalmente, ai sensi dell'art. 528 c.p., l'utilizzazione di "stampati i quali descrivano o illustrino, con particolari impressionanti o raccapriccianti, avvenimenti realmente verificatisi o anche soltanto immaginari, in modo da poter turbare il comune sentimento della morale e l'ordine familiare o da poter provocare il diffondersi di suicidi o delitti", lederebbe il principio di tassatività e determinatezza della fattispecie, quello della libertà di stampa e i principi di ragionevolezza e eguaglianza, perchè non offrirebbe idoneo fondamento giustificativo alla punizione di coloro che diffondano siffatte immagini - in quanto la disposizione impugnata, estesa anche al sistema radiotelevisivo pubblico e privato dall'art. 30comma 2 l. 6 agosto 1990 n. 223, non intende andare al di là del tenore letterale della formula quando vieta gli stampati idonei a "turbare il comune sentimento della morale", vale a dire, non soltanto ciò che è comune alle diverse morali del nostro tempo, ma anche alla pluralità delle concezioni etiche che convivono nella società contemporanea, e cioè il contenuto minimo del rispetto della persona umana, valore che anima l'art. 2 cost., alla luce del quale va letta la previsione incriminatrice denunciata; sicchè, la descrizione dell'elemento materiale del fatto-reato, indubbiamente caratterizzato dal riferimento a concetti elastici, trova nella tutela della dignità umana il suo limite. (Corte cost. 17-07-2000, n. 293; Corvi c. Pres. Cons ; FONTI Giur. Costit., 2000, 2239; Dir. Informazione e Informatica, 2000, 617).
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Non è fondata la q.l.c. dell'art. 15 della l. 8 febbraio 1948, n. 47 (Disposizioni sulla stampa), sollevata, in riferimento agli art. 3, 21 comma 6 e 25 cost., nella parte in cui sanziona, ai sensi dell'art. 528 c.p., l'utilizzazione di "stampati i quali descrivano o illustrino, con particolari impressionanti o raccapriccianti, avvenimenti realmente verificatisi o anche soltanto immaginari, in modo da poter turbare il comune sentimento della morale e l'ordine familiare o da poter provocare il diffondersi di suicidi o delitti" (la Corte ha in particolare osservato che la descrizione dell'elemento materiale del fatto-reato, indubbiamente caratterizzato dal riferimento a concetti elastici, trova nella tutela della dignità umana il suo limite, sì che appare escluso il pericolo di arbitrarie dilatazioni della fattispecie, risultando quindi infondate le censure di genericità e indeterminatezza). (Corte cost. 17-07-2000, n. 293; Corvi c. Pres. Cons ; FONTI Cass. Pen., 2001, 7; Giur. It., 2001, 668 nota di FENUCCI; Legisl. Pen., 2000, 968).
E' manifestamente infondata, in riferimento all'art. 21, comma 6, e 25, comma 2, cost., la q.l.c. dell'art. 15 l. 8 febbraio 1948 n. 47, il quale, estendendo la norma incriminatrice dell'art. 528 c.p. agli "stampati i quali descrivano o illustrino, con particolari impressionanti o raccapriccianti, avvenimenti realmente verificatisi o anche soltanto immaginari, in modo da poter turbare il comune sentimento della morale e l'ordine familiare o da poter provocare il diffondersi di suicidi o delitti, violerebbe il principio di determinatezza dell'illecito penale e amplierebbe il limite del "buon costume" posto dalla Costituzione alle pubblicazioni a stampa, in quanto tale previsione - come già ritenuto con la sentenza n. 293 del 2000 - sfugge alle censure prospettate dal momento che, pur facendo indubbiamente perno su concetti elastici, trova il suo limite di operatività nel rispetto della persona umana che animal'art. 2 cost., alla luce del quale essa va pertanto letta. (Corte cost. (Ord.) 05-04-2002, n. 92; Pres. Cons. e E.M. e altri; FONTI Giur. Costit., 2002, 814)
Va disposto, in parziale accoglimento dell'istanza di chi lamenti la pubblicazione su un periodico, a solo fine di lucro ed a notevole distanza di tempo dal fatto di cronaca cui si riferiscono, di fotografie raccapriccianti e idonee a turbare il comune sentimento della morale (nella specie: si trattava di due immagini del corpo decomposto di Alfredo Rampi, il bambino tragicamente perito in un pozzo di Vermicino, scattate al momento del suo recupero), il sequestro delle fotografie originali, delle copie e dei relativi negativi. (Pret. Roma 16-06-1982; Bizzari c. Soc. ed. Rizzoli; FONTI Foro It., 1984, I, 616).
Pubblicare foto “choc” non è diritto di cronaca
Rispondono del reato di pubblicazioni a contenuto impressionante o raccapricciante, previsto dall'art. 15 1. n. 47 del 1948, il direttore di un settimanale e i due giornalisti autori di un art. pubblicato col corredo di fotografie a colori riproducenti le immagini del cadavere di una donna uccisa, cosi come rinvenuto nell'immediatezza dell'omicidio, con particolari impressionanti e raccapriccianti delle tracce sul corpo e sugli indumenti, e delle nudità del corpo medesimo e delle modalità di esecuzione del delitto, tali da turbare il comune sentimento della morale e l'ordine delle famiglie. (Cass. pen. Sez.III 27-04-2001; Corvì e Corvi e altri; FONTI Foro It., 2001, II, 446).