Caro Franco, la crisi dell’Istituto di previdenza è ormai incontrovertibile. Le entrate contributive non coprono le uscite e ogni ordinaria ipotesi di soluzione viene negata dalle condizioni in cui si trova la professione. Oggi l’Istituto può essere ancora gestito ma, così com’è, non potrà più garantire quella continuità finora conosciuta. L’Inpgi è entrato in crisi perché l’intero sistema giornalistico è in crisi. Due sono stati gli elementi scatenanti: l’avvento delle tecnologie e il mutamento politico del confronto ideologico. Il primo ha cancellato il mestiere, il secondo ha imposto nuovi valori. A fronte di tale rivoluzione gli editori non hanno saputo reagire proponendo tempestivamente il rinnovamento degli apparati e degli obiettivi mentre i giornalisti sono rimasti al palo di una logica defunta.
Ora, dal precipitato di queste cose, emerge un’unica e sola necessità: quella di rifondare l’intera struttura organizzativa della categoria poiché è cambiato - e sempre più rapidamente continuerà a cambiare - il modo e il contenuto dei giornalismi moderni. Il mestiere è passato da impianto artigianale a condizione di alta specializzazione tecnologica. Per cui è impensabile – pena la morte – di governare il rinnovamento professionale attraverso istituti – Ordine, Sindacato, Previdenza - la cui ragione e le cui organizzazioni appartengono a pensieri superati dalla storia mentre l’informazione - planetaria, diretta, immediata – imporrebbe rinnovate qualificazioni, tutele e certezze. Basterà ricordare a questo proposito che gli accessi professionali sono tuttora privi di chiari e istituzionali percorsi; che la rappresentatività sindacale è segnata dalla totale assenza di visioni organiche e prospettiche; che il servizio previdenziale è bloccato dentro logiche derivate da concetti che hanno fatto il loro tempo .
Per questi motivi bisognerebbe oggi ritrovare il coraggio e la consapevolezza di quei colleghi che settant’anni fa, all’indomani della guerra, rifondarono quadri e organizzazioni per ridare dignità civile e serietà d’impegno al giornalismo italiano.
In altre parole, oggi bisognerebbe convocare gli stati generali della categoria. E lì, in quella sede, disegnare non soltanto il contorno mobile e moderno della professione ma fissarne pure le prospettive più immediatamente prossime. E poi cercare, dove è possibile, l’intesa operativa dei divenire editoriale, sinergico ed europeo poiché non ci sarà mai giornalismo onesto se mancherà la visione imprenditoriale del lavoro. E, infine, dentro tale quadro, discutere compiutamente per ricostituire il giusto equilibrio destinato a presiedere le sorti del servizio previdenziale, nostra garanzia di libera e doverosa autonomia.
Allo stato, caro Franco, non vedo alternativa diversa da questa per uscire dalle paludi in cui è oggi la professione. Mi rendo conto: occorre – come è stato detto – coraggio e consapevolezza. Purtroppo, non è merce facilmente reperibile ma con un po’ di umiltà forse si potrebbe provare. E intanto, attraverso le opportune decisioni, l’Inpgi dovrebbe accendere qualche luce in più lungo i suoi corridoi: la luce non deve far paura a nessuno. E poi dire chiaramente che il tempo dell’opulenza è finito perché è finito un certo giornalismo e che perciò alcune “generosità” non sono più possibili. Oggi si può avere soltanto ciò che si è dato. Per questo, ad esempio, le coperture pensionistiche ai colleghi parlamentari, destinatari per altro di cospicui vitalizi statali, adesso dovrebbe rappresentare un pleonasmo fuori luogo. Magari in compagnia di qualche altro “pleonasmo” per così dire statutario che ha fatto il suo tempo.