Gli obiettivi dei promotori sono concretamente questi: eliminare i finanziamenti ai giornali (compresi quelli di partito), alle tv e alle radio; lasciare le tv e le radio senza leggi e i giornalisti in balia del mercato (ma resteranno soltanto gli “ordini” degli editori). Con l'abrogazione della legge n. 69/63 si otterrebbe unicamente una mutilazione nella tutela della libertà del giornalista, della sua dignità professionale ed in ultima analisi, della libertà di informazione. Deve perciò ritenersi che la proposta di referendum non sia ammissibile, ai sensi del secondo comma dell'art. 75 della Costituzione, in quanto mirante all'abrogazione di una legge costituzionalmente vincolata. I Consigli dell’Ordini sono giudici disciplinari anche rispetto al Codice di procedura penale (artt. 114 e 115) e al “Codice deontologico relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica” (Allegato A del Dlgs n. 196/2003-Testo unico sulla privacy).
Senza la legge sulla professione di giornalista (69/1963) i cronisti diventerebbero degli impiegati del computer e di internet. Questa affermazione si comprende SOLTANTO se si tiene presente che le regole della professione in Italia sono fissate per legge e, quindi, formano un vincolo che obbliga tutti a determinati comportamenti. L’anomalia italiana nasce dalla Costituzione, che vuole un esame di Stato per accedere alle varie professioni intellettuali. L’esame di stato presuppone un percorso formativo determinato sempre dalla legge. Nessuno disconosce che quella dei giornalista sia anch’essa una professione intellettuale. Se è così, deve rispettare gli stessi vincoli delle altre professioni. L’Europa vuole che le professioni intellettuali regolamentate si possano esercitare a patto che gli interessati abbiano una laurea almeno triennale.
La legge professionale 69/1963 (con gli articoli 2 e 48 dedicati alla deontologia) fissa delle regole ed esalta dei valori, che possono riassumersi così: 1) la libertà di informazione e di critica come diritto insopprimibile dei giornalisti; 2) la tutela della persona umana e il rispetto della verità sostanziale dei fatti principi da intendere come limiti alle libertà di informazione e di critica; 3) l'esercizio delle libertà di informazione e di critica ancorato ai doveri imposti dalla buona fede e dalla lealtà; 4) il dovere di rettificare le notizie inesatte; 5) il dovere di riparare gli eventuali errori; 6) il rispetto del segreto professionale sulla fonte delle notizie, quando ciò sia richiesto dal carattere fiduciario di esse; 7) il dovere di promuovere la fiducia tra la stampa e i lettori; 8) il mantenimento del decoro e della dignità professionali; 9) il rispetto della propria reputazione; 10) il rispetto della dignità dell'Ordine professionale; 11) il dovere di promozione dello spirito di collaborazione tra i colleghi; 12) il dovere di promozione della cooperazione tra giornalisti ed editori. Le "regole" fissate dal legislatore sono il perno dell’autonomia dei giornalisti: l’editore non può impartire al direttore disposizioni in contrasto con la deontologia professionale.
La parola Ordine significa riconoscimento giuridico di una professione, nel caso particolare della professione di giornalista. L’Ordine, inoltre, è la deontologia. Nel caso specifico le "regole" fissate dal legislatore sono il perno, come afferma il nostro contratto di lavoro, dell’autonomia dei giornalisti. I Consigli degli Ordini sono per legge i giudici disciplinari e in questo campo fanno la loro parte, certamente con alti e bassi.
E’ da sottolineare l’importanza strategica per una società democratica del nuovo diritto fondamentale dei cittadini all’informazione ("corretta e completa"), costruito dalla Corte costituzionale sulla base dell’articolo 21 della Costituzione e dell’articolo 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (che è legge "italiana" dal 1955). Questo nuovo diritto fondamentale presuppone la presenza e l’attività di giornalisti vincolati a una deontologia specifica e a un giudice disciplinare nonché a un esame di Stato, che ne accerti la preparazione come prevede l’articolo 33 della Costituzione.
Le considerazioni sopra esposte consentono di risalire alle ragioni che hanno spinto il Parlamento nel 1963 a tutelare la professione di giornalista. L’eventuale abrogazione della legge n. 69/1963 sull’ordinamento della professione giornalistica comporterà questi rischi:
1) quella dei giornalisti non sarà più una professione intellettuale riconosciuta e tutelata dalla legge.
2) risulterà abolita la deontologia professionale fissata negli articoli 2 e 48 della legge professionale n. 69/1963.
3) senza la legge n. 69/1963, cadrà per giornalisti (ed editori) la norma che impone il rispetto del "segreto professionale sulla fonte delle notizie". Nessuno in futuro darà una notizia ai giornalisti privati dello scudo del segreto professionale.
4) senza legge professionale, direttori e redattori saranno degli impiegati di redazione vincolati soltanto da un articolo (2105) del Codice civile che riguarda gli obblighi di fedeltà verso l’azienda. Il direttore non sarà giuridicamente nelle condizioni di garantire l’autonomia della sua redazione.
5) una volta abolito l’Ordine, scomparirà l’Inpgi. I giornalisti finiranno nel calderone dell’Inps, regalando all’Inps un patrimonio di 2.500 miliardi di vecchie lire (immobili e riserve).
Governo e Parlamento devono preoccuparsi di riformare le leggi sugli ordini e i collegi nonché di tutelare i saperi dei professionisti. La formazione e gli esami per l’accesso devono essere delegati a un altro soggetto (l’Università) anche per garantire il rispetto del principio costituzionale dell’imparzialità. Non possono essere i professionisti a giudicare chi debba entrare nella cittadella delle professioni. E’ condivisibile, infatti, quella parte del decreto legislativo 300/1999 sul riordino dei ministeri che affida l’accesso alle professioni - e quindi anche della professione giornalistica - all’Università. Oggi deve essere tolto agli editori il potere che hanno dal 1928 di “fare” i giornalisti. I giornalisti devono nascere soltanto in Università.
Non bisogna dimenticare: a) che l’Ordine ha cercato di liberalizzare la professione creando 21 scuole di giornalismo; b) che i suoi minimi tariffari non sono vincolanti (come vuole l’Europa); c) che l’Europa, con la direttiva 36/2005 (“Zappalà”) ha dato disco verde gli Ordini e ai Collegi italiani. Quella direttiva e poi il dlgs 30/2006 (“La Loggia”) hanno stabilito che le professioni intellettuali si possono svolgere sia in via autonoma sia in via dipendente. Vogliamo rimanere professionisti e non tornare alla stagione mortificante del “mestiere”. Senza Ordine, infatti, rimarranno soltanto gli ordini degli editori.
Bisogna smetterla, una volta per sempre, di confondere l’ordinamento repubblicano della professione di giornalista con quello fascista. Con il regio decreto 384/1928, il Governo Mussolini ha creato l’Albo (non l’Ordine) dei giornalisti, Albo gestito da un comitato di 5 giornalisti operante all’interno dei sindacati regionali fascisti dei giornalisti. L’articolo 7 della legge 2307/1925 – che prefigurava la nascita di un Ordine dei Giornalisti – non è stato mai attuato dal regime, perché, con la nascita delle corporazioni (1926), la rappresentanza delle professioni è stata affidata ai sindacati fascisti. L’Ordine dei Giornalisti è nato nel 1963 su iniziativa di due eminenti personalità della democrazia repubblicana, Aldo Moro e Guido Gonella. Conclusione: riforma dell’Ordine sì, abrogazione no!
Franco Abruzzo
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
COMUNICATO
Annuncio di tre richieste di referendum popolari (Gazzetta Ufficiale n. 46 del 23-2-2008 pag. 9-10)
1) Ai sensi degli articoli 7 e 27 della legge 25 maggio 1970, n. 352, si annuncia che la Cancelleria della Corte Suprema di Cassazione, in data 22 febbraio 2008 ha raccolto a verbale e dato atto della dichiarazione resa da 12 cittadini italiani, muniti dei prescritti certificati di iscrizione nelle liste elettorali, di voler promuovere una proposta di referendum popolare previsto dall'art. 75 della Costituzione sul seguente quesito:
«Volete voi che siano abrogate:
A) la legge 25 febbraio 1987, n. 67, recante «Disciplina delle imprese editrici e provvidenze per l'editoria» limitatamente all'art. 9, comma 6 il cui testo letterale è il seguente «Alle imprese editrici di quotidiani o periodici che attraverso esplicita menzione riportata in testata risultino essere organi di partiti politici rappresentati in almeno un ramo del Parlamento è corrisposto:
a) un contributo fisso annuo di importo pari al 30 per cento della media dei costi risultanti dai bilanci degli ultimi due esercizi, inclusi gli ammortamenti e comunque non superiore a 1
miliardo e 500 milioni per i quotidiani e 300 milioni per i periodici;
b) un contributo variabile calcolato secondo i parametri previsti dal precedente comma quinto per i quotidiani, ridotto ad un sesto, un dodicesimo o un ventiquattresimo e rispettivamente per i periodici settimanali, quindicinali o mensili, per i suddetti periodici viene comunque corrisposto un contributo fisso di 200 milioni nel caso di tirature medie superiori alle 10.000 copie»;
B) la legge 7 agosto 1990, n. 250, recante «Provvidenze per l'editoria e riapertura dei termini, a favore delle imprese radiofoniche, per la dichiarazione di rinuncia agli utili di cui all'art. 9, comma 2, della legge 25 febbraio 1987, n. 67, per l'accesso ai benefici di cui all'art. 11 della legge stessa» limitatamente all'art. 11, comma 10 il cui testo letterale è il seguente: «A decorrere dal 1° gennaio 1991, alle imprese editrici di quotidiani o periodici che, anche attraverso esplicita menzione iportata in testata, risultino essere organi o giornali di forze politiche che abbiano un proprio rappresentante in almeno un ramo del Parlamento alla data di entrata in vigore della presente legge e che all'ultima elezione abbiano conseguito almeno un seggio al Parlamento europeo, è corrisposto:
a) un contributo fisso annuo di importo pari al 40 per cento della media dei costi risultanti dai bilanci degli ultimi due esercizi, inclusi gli ammortamenti, e comunque non superiore a lire2 miliardi e 500 milioni per i quotidiani e lire 600 milioni per i periodici;
b) un contributo variabile, calcolato secondo i parametri previsti dal comma 8, per i quotidiani, ridotto ad un sesto, un dodicesimo od un ventiquattresimo rispettivamente per i periodici settimanali, quindicinali o mensili; per i suddetti periodici viene comunque corrisposto un contributo fisso di lire 400 milioni nel caso di tirature medie superiori alle 10 mila copie»?»
Dichiarano, altresì, di eleggere domicilio presso lo studio dell'avv. Enrico Grillo - via Roccatagliata Ceccardi n. 1 int. 14 - 16121 Genova.
2) Ai sensi degli articoli 7 e 27 della legge 25 maggio 1970, n. 352, si annuncia che la Cancelleria della Corte Suprema di Cassazione, in data 22 febbraio 2008 ha raccolto a verbale e dato atto della dichiarazione resa da 12 cittadini italiani, muniti dei prescritti certificati di iscrizione nelle liste elettorali, di voler promuovere una proposta di referendum popolare previsto dall'art. 75 della Costituzione sul seguente quesito:
«Volete Voi che sia abrogato il decreto legislativo 31 luglio 2005, n. 177, recante «testo unico
della radiotelevisione»?»
Dichiarano, altresì, di eleggere domicilio presso lo studio dell'avv. Enrico Grillo - via
Roccatagliata Ceccardi n. 1 int. 14 - 16121 Genova.
3) Ai sensi degli articoli 7 e 27 della legge 25 maggio 1970, n. 352, si annuncia che la Cancelleria della Corte Suprema di Cassazione, in data 22 febbraio 2008 ha raccolto a verbale e dato atto della dichiarazione resa da 12 cittadini italiani, muniti dei prescritti certificati di iscrizione nelle liste elettorali, di voler promuovere una proposta di referendum popolare previsto dall'art. 75 della Costituzione sul seguente quesito:
«Volete Voi che sia abrogata la legge 3 febbraio 1963, n. 69, recante «Ordinamento della
professione di giornalista»?».
Dichiarano, altresì, di eleggere domicilio presso lo studio dell'avv. Enrico Grillo - via
Roccatagliata Ceccardi n. 1 int. 14 - 16121 Genova.