1.7.2015 - Avete appena cominciato a leggere questo hypercorsivo. Vi avverto: non è breve. Né facile. Cercherò di semplificarlo al massimo, ma la storia che sto per raccontare assomiglia molto a un labirinto.
Perdersi è un attimo.
Quindi, rispetto al solito, occorre un pizzico di attenzione in più.
Da parte mia, certo; ma anche da parte vostra.
Secondo avvertimento: sembra una fiction, invece è tutto vero.
Parliamo di una rapina da 95 milioni di euro.
Ai danni di chi?
Se v’interessa saperlo, armatevi di pazienza che si comincia…
C’era una volta un giornale fondato da Antonio Gramsci. Si chiamava l’Unità. La prima uscita in edicola fu il 12 febbraio 1924. L’ultima il 30 luglio del 2014.
Novant’anni, cinque mesi e spiccioli di vita.
O, per meglio dire, di storia.
Era, infatti, il quotidiano del Partito comunista italiano, il vecchio Pci. E quando il Pci è morto ammazzato, il 3 febbraio 1991, l’Unità è diventato prima il giornale del Partito democratico della sinistra (Pds), poi dei Democratici di sinistra (Ds) e infine del Partito democratico (Pd). Tanto che Matteo Renzi ha voluto chiamare l’ultima festa nazionale del suo partito (il Pd, appunto) festa dell’Unità.
Tutto chiaro fin qui?
Bene.
Ora comincia il guazzabuglio.
E sì, perché se bussate a via Sant’Andrea delle Fratte 16, sede del Pd, a due passi dal celeberrimo Largo del Nazareno di cui al famoso patto; ecco se bussate lì e chiedete notizie della defunta Unità, vi rispondono innalzando l’immagine delle tre scimmie: non vedo, non sento, non parlo.
Come mai?
Perché il giornale si è lasciato alle spalle un debituccio mica da ridere: 95 milioni di euro.
Sì sì, avete letto bene: 95 milioni di euro.
Che il Pd, fin qui, non ha nessuna intenzione di pagare.
E che – oplà! – si pretende siano pagati dai contribuenti italiani.
Non ci credete?
Continuate a leggere e vedrete che non racconto balle.
Ma, prima, facciamo qualche passo indietro.
Anzi facciamone esattamente 10.
Così tutto risulterà più chiaro, ok?
1.Dal 1924 al 1996 l’Unità è l’”Organo del Partito comunista italiano”, come si può leggere sotto la testata. Per molti anni campa alla grande. Poi, con il crollo del muro di Berlino nel 1989, cominciano i guai. S’arresta, infatti, il flusso di denaro dalla disintegrata Urss (Unione delle repubbliche socialiste sovietiche) al Pci. E il giornale, così come il partito, non riesce più a far tornare i conti. Viene deciso, allora, di privatizzarlo. Ma, naturalmente, all’italiana. Ossia, si trovano degli imprenditori amici e li si prega di prendere in mano la patata bollente (in cambio di che cosa? Non lo sapremo mai, temo…).
2.Così, nel 1997 la proprietà della testata passa a due giovanotti della Roma bene: Alfio Marchini, rampollo di una famiglia ricchissima di costruttori fondata dal nonno (che regalò al Pci la storica sede di via delle Botteghe Oscure: per la sua conclamata vicinanza ai comunisti fu soprannominato “calce e martello” ); e Giampaolo Angelucci, rampollo di una famiglia altrettanto facoltosa che opera nella sanità (il padre si è fatto da solo: era un portantino, ora è il più ricco tra i parlamentari italiani). Tutto a posto? No, purtroppo…
3.Crollato il muro e scomparso il Pci, infatti, affonda, inevitabilmente, anche il giornale. E la società editrice si squaglia. Così il 28 luglio 2000 l’Unità muore una prima volta. E perché risorga bisogna trovare un nuovo imprenditore amico. Arriva, provvidenziale, uno del ramo, Alessandro Dalai, proprietario della Dalai Baldini & Castoldi, che porta con sé dentro la Nie (Nuova iniziativa editoriale) una cordata di volenterosi. Risultato: l’Unità torna in edicola il 28 marzo 2001. Finalmente al sicuro? Magari... Dalai getta la spugna già nel 2003 per dissidi con i vertici del partito (che non mette soldi ma vuole comandare) e lascia la poltrona di presidente a Marialina Marcucci, rampolla di una ricchissima famiglia impegnata nel settore farmaceutico.
4.Cinque anni dopo, il 20 maggio 2008, nuovo cambio di proprietà: l’Unità passa nelle mani di Renato Soru, fondatore di Tiscali, al tempo governatore della Regione Sardegna e oggi deputato europeo del Pd. E’ suo il 98% della Nie. E’ lui che nomina il nuovo direttore, una donna, la prima nella storia del giornale: Concita De Gregorio, inviata de la Repubblica (memorizzate il suo nome, vi prego: capirete perché).
5.Soru, però, resiste solo fino al 13 giugno del 2012. Poi cede. O meglio: resta nella Nie, ma rinuncia alla maggioranza. A favore di chi? Entrano nell’azionariato una società di comunicazione che fa capo al Pd, una società legata alla Lega delle cooperative e un nuovo imprenditore amico. E’ Maurizio Mian, ricchissimo erede di una dinastia farmaceutica, che ha venduto l’azienda di famiglia, l’Istituto Gentili, ha fatto fare al denaro guadagnato il giro del mondo e, infine, l’ha blindato in una fondazione intitolata al suo cane, il pastore tedesco Gunther, sul quale ha costruito una montagna di balle. Ridete pure, ma tra gli azionisti dell’Unità compare anche la Gunther Reform Holding. Nel frattempo Concita, fiutata l’aria, pensa bene di dare le dimissioni (7 luglio 2011) e…
6.…nonostante i milioni versati da…Gunther, i conti precipitano un’altra volta. Di nuovo l’Unità affonda. Ma di nuovo spunta un salvatore. E’ il turno di Matteo Fago, enfant prodige della new economy. Nel novembre 2013 diventa lui l’azionista di maggioranza del quotidiano. Senza rendersi conto di aver comprato l’ultimo biglietto per il…Titanic.
7.L’11 giugno 2014, infatti, passati appena otto mesi, la nuova proprietà targata Fago annuncia di aver messo in liquidazione la sfigatissima Nie. Le casse sono vuote, il capolinea è dietro l’angolo. Il 30 luglio l’Unità esce, per l’ultima volta, in bianco. Sì, in bianco: una bandiera bianca che annuncia la resa. Ci sarà una terza resurrezione?
8.Passa quasi un anno. Improvvisamente, la svolta. Domenica 3 maggio 2015, a Bologna, parlando dal palco della festa nazionale del Pd, Renzi annuncia: “Stiamo vedendo con Cuperlo alcune idee bislacche per l’Unità che tornerà in edicola”. Idee bislacche?
9.Pochi giorni dopo ecco un altro imprenditore amico farsi avanti. E’ Guido Veneziani, editore di stampa popolare (Vero, Stop, Rakam, Miracoli), molto, molto rampante e neotifoso del premier. Ci siamo? No. Passano un paio di settimane, infatti, e…zac! Veneziani finisce in mano alla magistratura con l’accusa di bancarotta fraudolenta per il crac della Roto Alba, storico stabilimento tipografico della congregazione dei Paolini (quelli di Famiglia Cristiana) acquistato dall’editore nel 2012. Addio rilancio? Macchè!
10.L’Unità da martedì 30 giugno 2015 riappare in edicola grazie a una nuova compagine azionaria. Socio di maggioranza è la società Piesse, detenuta al 60% da Guido Stefanelli, amministratore delegato del gruppo Pessina Costruzioni, e al 40% dal costruttore Massimo Pessina, presidente, appunto, del gruppo Pessina Costruzioni, adeguatamente “massaggiato” da il Fatto quotidiano per i suoi trascorsi. E – fate bene attenzione - tra malizie, insinuazioni e smentite, messo nel tritatutto da il Giornale e Libero per un megappalto edilizio ottenuto a La Spezia con la benedizione del Pd. I due quotidiani di area centrodestra, infatti, hanno individuato una curiosa sequenza temporale. Prima mossa: l’assegnazione dell’affare spezzino da 175 milioni di euro alla Pessina Costruzioni (denari pubblici, erogati dal ministero della Salute, a guida Pd; e dalla regione Liguria, allora a guida Pd) è avvenuta il 21 maggio. Seconda mossa: il varo della nuova compagine azionaria dell’Unità è avvenuto il 22 maggio. Quidi, sono passate appena 24 ore tra un evento e l’altro. Solo un caso? Per completare il quadro del quotidiano, Stefanelli è l’amministratore delegato della società editrice Unità srl, già alle prese con problemi sindacali, mentre alla direzione siede Erasmo D’Angelis, un fedelissimo renziano, affiancato da Vladimiro Ilic Frulletti (che per la defunta Unità seguiva come un’ombra Renzi). Entrambi arrivano (indovinate un po’?) dalla Toscana…
Stop.
Tutto chiaro?
Lo spero.
L’Unità, quindi, è alla terza resurrezione (Lazzaro, al confronto, era un dilettante).
Tuttavia, come potete immaginare, crisi dopo crisi si sono accumulati debiti su debiti.
Fino ad arrivare alla montagna di cui parlavamo all’inizio: 95 milioni di euro.
Chi deve pagarli?
Nel Paese in cui gli eredi di Enrico Berlinguer, pur continuando a proclamare la loro diversità etica, si sono bellamente dimenticati da tempo la questione morale (Mafia capitale docet), ecco che scatta l’inghippo ai danni del popolo bue.
Così, a meno di un miracolo, a pagare sarà, come sempre, Pantalone…
Infatti, il governo di sinistra guidato da Romano Prodi (l’Ulivo, ricordate?) ha scodellato una bella legge ad hoc che ha permesso di scaricare i debiti del quotidiano sulla Presidenza del Consiglio dei ministri, cioè sulle spalle dei contribuenti.
Oplà!
Il colpo di mano è stato fatto in piena estate con la legge numero 224 dell’11 luglio 1998. Prendersi la briga di leggerla e avere mal di testa è un attimo: non ci si capisce niente.
L’inghippo sta tutto nell’articolo 4.
Traducendolo dal burocratese all’italiano, dice che se un partito non può pagare i debiti del suo giornale e non gli si può pignorare nulla, allora i debiti passano in carico alla Presidenza del Consiglio, cioè ai contribuenti italiani.
Una porcata.
Un’autentica porcata che Milena Gabanelli con il suo Report ha raccontato in maniera magistrale: potete vedere l’inchiesta cliccando qui. E mi sarete grati per avervi segnalato una bella pagina di giornalismo che documenta una brutta storia di politica.
Ma torniamo ai debiti.
Davvero il Pd non possiede nulla da vendere per onorarli?
Balle.
Il Pd ha un patrimonio (2.400 immobili e altri beni) che gli permetterebbero di pagare sull’unghia e rimanere comunque proprietario di un tesoro.
E allora perché non scuce nemmeno un centesimo?
Perché un tipo con i baffi alla Stalin, il senatore Ugo Sposetti, ha blindato il tesoro appartenuto al Pci in un complicato e inespugnabile fortino di fondazioni-cassaforte formalmente estranee al Pd. Che risulta, così, nullatenente…
Capito?
Non vi sfugge, naturalmente, il conflitto di interessi piombato su Matteo il Chiacchierone, come lo chiama Giampaolo Pansa. Renzi 1, da segretario del partito, riporta l’Unità in edicola e, fin qui, si è ben guardato dal rottamare Sposetti con il suo dedalo di fondazioni. Renzi 2, presidente del Consiglio, si ritrova un’ingiunzione di pagamento per i debiti del giornale.
E quindi?
Allergico a tutto ciò che ha un portato negativo, come ben sanno i lettori di Radio Monteceneri, Matteo ha affidato al sottosegretario agli Esteri, Benedetto Della Vedova, il compito di rispondere a una interrogazione parlamentare del Movimento 5 stelle che voleva vederci chiaro. Si è scoperto, così, che l’Avvocatura dello Stato e l’Agenzia delle Entrate stanno studiando il dossier per conto di Palazzo Chigi.
Vedremo a quale conclusione giungeranno.
Sappiate, comunque, che intrecciata a questa storiaccia ce n’è un’altra.
Brutta.
Anzi, bruttissima.
Poiché dall’Unità c’è stato il fuggi fuggi generale, la povera Concita e altri 26 ex giornalisti della testata gramsciana sono stati costretti a pagare di tasca propria una serie di pesanti ingiunzioni per cause civili perdute in primo grado.
Di solito, in questi casi, provvede l’editore.
Ma l’editore, cioè la Nie, non esiste più.
E, così, direttore e redattori si sono visti accollare la spesa (centinaia di migliaia di euro).
Stop.
Per il momento ci fermiamo qui.
La buona notizia è che l’Unità da oggi torna in edicola (una curiosità: la raccolta pubblicitaria è stata affidata a System 24, la concessionaria de Il Sole 24 Ore, il giornale di Confindustria: Giancarlo Pajetta si starà rivoltando nella tomba...).
Quanto al resto, non resta che attendere.
La faccenda dei debiti è completamente in mano a Renzi 1 (il segretario) e a Renzi 2 (il presidente del Consiglio).
Speriamo, renzianamente, che sia #lavoltabuona.
Di più: che arrivi - per Concita e gli altri 26; per i contribuenti italiani; e per le banche creditrici - #unasoluzionepulita. - TSTO IN http://www.tvsvizzera.it/radio-monteceneri/Hypercorsivi/Come-scaricare-sui-contribuenti-95-milioni-di-debiti-5667448.html