“Così muore un poeta” è stato scritto a proposito della tragica fine di Pier Paolo Pasolini, quarant’anni fa esatti; ma si potrebbe dire anche “così muore un kamikaze”, un guerrigliero del pensiero, un disperato censore di un mondo ai suoi occhi fattosi sempre più insapore e schiavo di un capitalismo scellerato e ingordo. Pasolini aveva appena finito di girare il suo film-testamento, “Salò o le centoventi giornate di Sodoma”, quando nella notte tra il primo e il 2 novembre del 1975 trovò la morte in una puzzolente discarica presso l’idroscalo di Ostia. Rivisto oggi, quel film lascia sgomenti. Non ci può essere indignazione morale per il “mondo offeso” che possa giustificare quel catalogo di turpitudini, talmente didascaliche, e si potrebbe anche dire pedagogiche nelle intenzioni dell’autore, da sembrare inverosimile, assurdo, ma anche – e per fortuna – grottesco.
Perché Pier Paolo Pasolini sentì il bisogno di girare quel film? Forse in questa risposta c’è la spiegazione della sua fine violenta, quella notte. E non è oltraggioso nei riguardi della sua memoria, oggi, cercare in lui, soltanto in lui, la chiave del mistero. E’ noto che in risposta a una omologazione dei comportamenti e del pensiero, ai suoi occhi ormai irreversibile, con lucida disperazione Pasolini metteva a punto tutta una serie di oltraggi alla propria vita e a quella altrui. Di questo i suoi amici più intimi (Moravia e Nico Naldini in testa) sono stati sempre convinti. Per questo, all’inizio, ho usato quel termine, “kamikaze”, che può suonare, mi rendo conto, oltre che irriverente, fuorviante.
Dopo tanto lottare, dopo tanto “gettare il proprio corpo nella lotta” (questa è una frase che ricorre nelle opere di Pasolini), forse egli si era arreso, forse non gli restava che darsi in pasto al mostro che ormai l’ossessionava: l’eterno fascismo che, ai suoi giorni – e figuriamoci ai nostri! – aveva preso le sembianze di un consumismo che aveva stravolto fisionomia e abitudini di un tempo che aveva visto volteggiare, nella notte, le lucciole.
Chi ha ucciso Pasolini? Ormai si può dare per buona la versione giudiziaria (fu il diciassettenne Pino Pelosi a massacrarlo) o, al contrario, credere nel complotto, nell’omicidio politico. Qui, questo non importa. Qui si vuol soltanto riflettere sui fatti nudi e crudi, ed è un fatto che, quella notte, nel “rimorchiare” un borgataro minorenne nei pressi della stazione Termini di Roma, l’autore di “Una vita violenta” scelse di morire. Ed è in questo che ci assale lo sbigottimento, nel constatare le due realtà presenti nell’unica persona di Pasolini. Due realtà non scisse, ma perfettamente coincidenti e conviventi; non un dottor Jekyll e signor Hyde, ma un solo individuo, un essere umano che, come tutti i suoi simili, nasconde in sé un abisso di orrori. Ma forse si può semplicemente dire che ogni uomo e ogni donna custodisce in sé l’ignoto.
In una sua poesia, Pasolini scrisse: “…mi piace infangarmi perché il fango è materia povera e perciò pura; / che adoro la luce soltanto se è senza speranza”. Ecco, sono parole come queste ad avere autorizzato in tanti a dire “così muore un poeta”. Ma quella notte, all’idroscalo di Ostia, era morto un uomo, vale a dire il mistero più grande della vita sulla Terra.
Devo queste riflessioni a un bel libro, appena pubblicato da Renzo Paris, un intellettuale che fu amico dell’autore di “Le ceneri di Gramsci” (“Pasolini ragazzo a vita”, Elliot edizioni, pagine 185, euro 18,50). A proposito del ritrovamento del cadavere straziato di Pasolini, in quella ormai lontana mattina del giorno dei morti, Paris annota che quel corpo era stato gettato nella lotta “per sfamare la voglia di morte del mondo, come in una vecchia forma di martirio”. Lo sgomento, appunto di non poter dire altro. Lo sgomento di avere nel ricordo (e nella coscienza) un uomo, un poeta, un regista che forse è stato il più importante intellettuale del secondo Novecento italiano.