Roma, 26 marzo 2008. È reato creare una falsa identità su internet spacciandosi per un’altra persona. Lo ha stabilito la Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione (sentenza 46674/2007) confermando la condanna per il reato di sostituzione di persona emessa dalla Corte di Appello di Firenze nei confronti di un ragazzo che, al fine di procurarsi un vantaggio e di recare danno ad una sua amica, aveva creato un account di posta elettronica apparentemente intestato a lei e successivamente, utilizzandolo, aveva allacciato rapporti con utenti della rete internet a nome della ragazza, inducendo in errore sia il gestore del sito sia gli utenti. Il giovane si era difeso sostenendo che chiunque aveva la possibilità di attivare un account di posta elettronica con un nominativo diverso dal proprio, anche di fantasia. La Suprema Corte, pur ammettendo che questo “è pacificamente vero”, hanno rigettato il ricorso del ragazzo affermando che il reato sussiste perché oggetto della tutela penale è “l’interesse riguardante la pubblica fede”, in quanto questa può essere sorpresa da inganni relativi alla vera essenza di una persona o alla sua identità o ai suoi attributi sociali, e poiché si tratta di inganni che possono superare la ristretta cerchia d'un determinato destinatario, “il legislatore ha ravvisato in essi una costante insidia alla fede pubblica, e non soltanto alla fede privata e alla tutela civilistica del diritto al nome”; nel caso in esame, infatti, il soggetto indotto in errore non è tanto l'ente fornitore del servizio di posta elettronica, quanto piuttosto gli utenti della rete, i quali, ritenendo di interloquire con una determinata persona, in realtà inconsapevolmente si sono trovati ad avere a che fare con una persona diversa. Tanto più che i messaggi contenuti nelle e – mail erano spediti non solo da un soggetto diverso da quello che appariva offrirli, ma per di più anche di sesso diverso. (da: www. cittadinolex.it)
...........................
Suprema Corte di Cassazione, Sezione Quinta Penale, sentenza n.46674/2007
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
QUINTA SEZIONE PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri.:
Dott. Fazzioli Edoardo Presidente
1. Dott. Calabrese Renato Luigi Consigliere
2. Dott. Amato Alfonso Consigliere
3. Dott. Marasca Gennaro Consigliere
4. Dott. Oldi Paolo Consigliere
Ha pronunciato la seguente
SENTENZA/ORDINANZA
Sul ricorso proposto da:
1) A. A. M. nato il 31/03/1970
Avverso Sentenza del 25/11/2005
Corte d'appello di Firenze
Visti gli atti, la sentenza ed il ricorso;
Udita in Pubblica Udienza la relazione fatta dal consigliere
Calabrese Renato Luigi;
Udito il Procuratore generale in persona del
Dr. Antonello Mura
Che ha concluso per
Il rigetto del ricorso
Udito, per la
Uditi i difensori Avv. Marco Rocchi
O S S E R V A
Con l'impugnata sentenza è stata confermata la dichiarazione di colpevolezza di A. M. A. in ordine al reato p.e. p. dagli artt. 81, 494 cp, contestatogli «perché, al fine di procurarsi un vantaggio e di recare un danno ad A. T. , creava un account di posta elettronica, (…), apparentemente intestato a costei, e successivamente, utilizzandolo, allacciava rapporti con utenti della rete internet al nome della T. , e così induceva in errore sia il gestore del sito sia gli utenti, attribuendosi il falso nome della T. » [1].
Ricorre per cassazione il difensore deducendo violazione di legge per l'erronea applicazione dell'art. 494 cp e per la mancata applicazione dell'art. 129 cpp.
Lamenta che non siano state confutate dalla corte fiorentina le critiche rivolte al convincimento di colpevolezza espresso dal primo giudice siccome basato sulla duplice errata considerazione, inerente la prima alla tutela di stampo civilistico al nome e allo pseudonimo, l'altra, piu' propriamente tecnico-informatica, alla sostenuta necessità di fornire all'ente gestore del servizio telefonico l'esatta indicazione anagrafica al momento della richiesta di fornitura della prestazione telematica.
Tali doglianze non possono essere condivise.
Oggetto della tutela penale, in relazione al delitto preveduto nell'art. 494 cp., è l'interesse riguardante la pubblica fede, in quanto questa può essere sorpresa da inganni relativi alla vera essenza di una persona o alla sua identità o ai suoi attributi sociali. E siccome si tratta di inganni che possono superare la ristretta cerchia d'un determinato destinatario, così il legislatore ha ravvisato in essi una costante insidia alla fede pubblica, e non soltanto alla fede privata e alla tutela civilistica del diritto al nome.
In questa prospettiva, è evidente la configurazione, nel caso concreto, di tutti gli elementi costitutivi della contestata fattispecie delittuosa.
Il ricorrente disserta in ordine alla possibilità per chiunque di attivare un «account» di posta elettronica recante un nominativo diverso dal proprio, anche di fantasia. Ciò è vero, pacificamente. Ma deve ritenersi che il punto del processo che ne occupa sia tutt'altro.
Infatti il ricorso non considera adeguatamente che, consumandosi il reato «de quo» con la produzione dell'evento conseguente all'uso dei mezzi indicati nella disposizione incriminatrice , vale a dire con l'induzione di taluno in errore, nel caso in esame il soggetto indotto in errore non è tanto l'ente fornitore del servizio di posta elettronica, quanto piuttosto gli utenti della rete, i quali, ritenendo di interloquire con una determinata persona (la T.), in realtà inconsapevolmente si sono trovati ad avere a che fare con una persona diversa.
E non vale obiettare che «il contatto non avviene sull'intuitus personae, ma con riferimento alle prospettate attitudini dell'inserzionista», dal momento che non è affatto indifferente, per l'interlocutore, che «il rapporto descritto nel messaggio» sia offerto da un soggetto diverso da quello che appare offrirlo, per di piu' di sesso diverso.
E' appena il caso di aggiungere, per rispondere ad altra, peraltro fugace, contestazione difensiva, che l'imputazione ex art. 494 cpp debitamente menzionata pure il fine di recare – con la sostituzione di persona – un danno al soggetto leso: danno poi in effetti, in tutta evidenza concretizzato, nella specie, come il capo B) della rubrica (relativo al reato di diffamazione, peraltro poi estinto per remissione della querela) nitidamente delinea nella subdola inclusione della persona offesa in una corrispondenza idonea a ledere l'immagine e la dignità (sottolinea la sentenza impugnata che la T. , a seguito dell'iniziativa assunta dall'imputato, «si ricevette telefonate da uomini che le chiedevano incontri a scopo sessuale»).
Il ricorso va pertanto respinto, con le conseguenze di legge.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
Così deciso in Roma l'8 novembre 2007
Il consigliere est.
Il Presidente
DEPOSITATA IN CANCELLERIA
IL 14 DICEMBRE 2007.