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Chiesti 3 referendum popolari
per abrogare la legge sull'editoria,
il codice della radiotelevisione
e la legge del 1963
sull'Ordine dei giornalisti.

SAGGIO DI FRANCO ABRUZZO:
“PERCHÉ DIFENDO
L’ORDINE
DEI GIORNALISTI”

Senza Ordine rimarranno soltanto gli ordini degli editori. L’eventuale abrogazione della legge n. 69/1963 sull’ordinamento della professione giornalistica comporterà questi rischi: 1) quella dei giornalisti non sarà più una professione intellettuale riconosciuta e tutelata dalla legge; 2) risulterà abolita la deontologia professionale fissata negli articoli 2 e 48 della legge professionale n. 69/1963; 3) senza la legge n. 69/1963, cadrà per giornalisti (ed editori) la norma che impone il rispetto del "segreto professionale sulla fonte delle notizie". Nessuno in futuro darà una notizia ai giornalisti privati dello scudo del segreto professionale; 4) senza legge professionale, direttori e redattori saranno degli impiegati di redazione vincolati soltanto da un articolo (2105) del Codice civile che riguarda gli obblighi di fedeltà verso l’azienda. Il direttore non sarà giuridicamente nelle condizioni di garantire l’autonomia della sua redazione; 5) Il Contratto non avrà il sostegmo deontoloogioco della legge professionale vincolante anche per gli editori, che oggi non possono impartire al direttore e al collettivo redazionale disposizioni in contrasto con quella legge; 6) una volta abolito l’Ordine, scomparirà l’Inpgi. I giornalisti finiranno nel calderone dell’Inps, regalando all’Inps un patrimonio di 3mila miliardi di vecchie lire (immobili e riserve).

IN CODA LA SENTENZA 11/!968
DELLA CORTE COSTITUZIONALE:
"L’Ordine dei Giornalisti è legittimo".

Gli obiettivi dei promotori dei referendum “grilleschi”  sono concretamente questi: eliminare i finanziamenti ai giornali (compresi quelli di partito), alle tv e alle radio; lasciare le tv e le radio  senza leggi e i giornalisti in balia del mercato (ma resteranno soltanto gli “ordini” degli editori).  Con l'abrogazione della legge n. 69/63 si otterrebbe unicamente una mutilazione nella tutela della libertà del giornalista, della sua dignità professionale ed in ultima analisi, della libertà di informazione. Deve perciò ritenersi che la proposta di referendum non sia ammissibile, ai sensi del secondo comma dell'art. 75 della Costituzione, in quanto mirante all'abrogazione di una legge costituzionalmente vincolata.  I Consigli dell’Ordini sono giudici disciplinari anche rispetto al Codice di procedura penale (artt. 114 e 115) e al “Codice deontologico relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica” (Allegato A del Dlgs n. 196/2003-Testo unico sulla privacy).


Senza la legge sulla professione di giornalista (69/1963) i cronisti diventerebbero degli impiegati del computer e di internet. Questa affermazione si comprende SOLTANTO  se si tiene presente che le regole della professione in Italia sono fissate per legge e, quindi, formano un vincolo che obbliga tutti a determinati comportamenti. L’anomalia italiana nasce dalla Costituzione, che vuole un esame di Stato per accedere alle varie professioni intellettuali. L’esame di stato presuppone un  percorso formativo determinato sempre dalla legge. Nessuno disconosce che quella dei giornalista sia anch’essa una professione intellettuale. Se è così, deve rispettare gli stessi vincoli delle altre professioni. L’Europa vuole che le professioni intellettuali regolamentate si possano esercitare a patto che gli interessati abbiano una laurea almeno triennale.


La legge professionale 69/1963  (con gli articoli 2 e 48 dedicati alla deontologia) fissa delle regole ed esalta dei valori, che possono riassumersi così: 1)  la libertà di informazione e di critica come diritto insopprimibile dei giornalisti; 2)  la tutela della persona umana e  il rispetto della verità sostanziale dei fatti principi da intendere come limiti alle libertà di informazione e di critica; 3) l'esercizio delle libertà di informazione e di critica ancorato ai doveri imposti dalla buona fede e dalla lealtà; 4)  il dovere di rettificare le notizie inesatte; 5)  il dovere di riparare gli eventuali errori; 6) il rispetto del segreto professionale sulla fonte delle notizie, quando ciò sia richiesto dal carattere fiduciario di esse; 7) il dovere di promuovere la fiducia tra la stampa e i lettori; 8) il mantenimento del decoro e della dignità professionali; 9) il rispetto della propria reputazione; 10)  il rispetto della dignità dell'Ordine professionale; 11)  il dovere di promozione dello spirito di collaborazione tra i colleghi; 12)  il dovere di promozione della cooperazione tra giornalisti ed editori. Le "regole" fissate dal legislatore sono il perno dell’autonomia dei giornalisti: l’editore non può impartire al direttore disposizioni in contrasto con la deontologia professionale.


La parola Ordine significa riconoscimento giuridico di una professione, nel caso particolare della professione di giornalista. L’Ordine, inoltre, è la deontologia. Nel caso specifico le "regole" fissate dal legislatore sono il perno, come afferma il nostro contratto di lavoro, dell’autonomia dei giornalisti. I Consigli degli Ordini sono per legge i giudici disciplinari e in questo campo fanno la loro parte, certamente con alti e bassi.


E’ da sottolineare l’importanza strategica per una società democratica del nuovo diritto fondamentale dei cittadini all’informazione ("corretta e completa"), costruito dalla Corte costituzionale sulla base dell’articolo 21 della Costituzione e dell’articolo 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (che è legge "italiana" dal 1955). Questo nuovo diritto fondamentale presuppone la presenza e l’attività di giornalisti vincolati a una deontologia specifica e a un giudice disciplinare nonché a un esame di Stato, che ne accerti la preparazione come prevede l’articolo 33 della Costituzione.


Le considerazioni sopra esposte consentono di risalire alle ragioni che hanno spinto il Parlamento nel 1963 a tutelare la professione di giornalista. L’eventuale abrogazione della legge n. 69/1963 sull’ordinamento della professione giornalistica comporterà questi rischi:


1) quella dei giornalisti non sarà più una professione intellettuale riconosciuta e tutelata dalla legge.


2) risulterà abolita la deontologia professionale fissata negli articoli 2 e 48 della legge professionale n. 69/1963.


3) senza la legge n. 69/1963, cadrà per giornalisti (ed editori) la norma che impone il rispetto del "segreto professionale sulla fonte delle notizie". Nessuno in futuro darà una notizia ai giornalisti privati dello scudo del segreto professionale.


4) senza legge professionale, direttori e redattori saranno degli impiegati di redazione vincolati soltanto da un articolo (2105) del Codice civile che riguarda gli obblighi di fedeltà verso l’azienda. Il direttore non sarà giuridicamente nelle condizioni di garantire l’autonomia della sua redazione.


5) Il Contratto non avrà il sostegno deontologico della legge professionale vincolante anche per gli editori, che oggi non possono impartire al direttore e al collettivo redazionale disposizioni in contrasto con quella legge.


6)   una volta abolito l’Ordine, scomparirà l’Inpgi. I giornalisti finiranno nel calderone dell’Inps, regalando all’Inps un patrimonio di  3mila miliardi di vecchie lire (immobili e riserve).


Governo e Parlamento devono preoccuparsi di riformare le leggi sugli ordini e i collegi nonché di tutelare i saperi dei professionisti. La formazione e gli esami per l’accesso devono essere delegati a un altro soggetto (l’Università) anche per garantire il rispetto del principio costituzionale dell’imparzialità. Non possono essere i professionisti a giudicare chi debba entrare nella cittadella delle professioni. E’ condivisibile, infatti, quella parte del decreto legislativo 300/1999 sul riordino dei ministeri che affida l’accesso alle professioni - e quindi anche della professione giornalistica - all’Università. Oggi deve essere tolto agli editori il potere che hanno dal 1928 di “fare” i giornalisti. I giornalisti devono nascere soltanto in Università.


Non bisogna dimenticare: a) che l’Ordine ha cercato di liberalizzare la professione creando 21 scuole di giornalismo; b) che i suoi minimi tariffari non sono vincolanti (come vuole l’Europa); c) che l’Europa, con la direttiva 36/2005 (“Zappalà”) ha dato disco verde gli Ordini e ai Collegi italiani. Quella direttiva e poi il dlgs 30/2006 (“La Loggia”) hanno stabilito che le professioni intellettuali si possono svolgere sia in via autonoma sia in via dipendente. Vogliamo rimanere professionisti e non tornare alla stagione mortificante del “mestiere”. Senza Ordine, infatti, rimarranno soltanto gli ordini degli editori.


Bisogna smetterla, una volta per sempre, di confondere l’ordinamento repubblicano della professione di giornalista con quello fascista. L’articolo 7 della legge 2307/1925 – che prefigurava la nascita di un Ordine dei Giornalisti – non è stato mai attuato dal regime, perché intervenne la legge 563/1926 sull’organizzazione sindacale di tutte le professioni. A questa disciplina giuridica fondamentale si adeguò necessariamente il  Regio decreto 384/1928, che determinò la nascita dell’Albo (non dell’Ordine) dei giornalisti, Albo gestito da un comitato di 5 giornalisti operante all’interno dei sindacati regionali fascisti dei giornalisti. L’Ordine dei Giornalisti è nato nel 1963 su iniziativa di due eminenti personalità  della democrazia repubblicana, Aldo Moro e Guido Gonella. Conclusione: riforma dell’Ordine sì, abrogazione no!


Franco Abruzzo


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V2-DAY. LORENZO DEL BOCA A GRILLO: “SENZA ORDINE ANCORA PIÙ DISORDINE. VAFFÀ NON SI PUÒ CHE RISPONDERE 'VAFFA TU’”.


 ROMA, 24 aprile 2008. No all'abolizione dell'Ordine del giornalisti e del finanziamento pubblico ai giornali: è il senso della nota con la quale il presidente dell'Ordine nazionale, Lorenzo Del Boca, si oppone ai due punti di forza della protesta di Beppe Grillo alla vigilia del secondo Vaffa-Day, in programma domani a Torino. Se l'Ordine sparisse «la qualità dell'informazione avrebbe un sussulto positivo? No, con tutta evidenza!», sottolinea Del Boca, convinto che «semmai, occorrerebbe un'azione contraria» e cioè «rafforzare l'Ordine dei giornalisti in modo che le sue azioni possano essere più tempestive e più efficaci». Sì dunque a una «necessaria» modifica della legge del 1963, «per rendere più moderna e attuale un'istituzione che, comunque la si voglia considerare, è un baluardo di libertà e di indipendenza». Per Del Boca, «senza Ordine, non soltanto non migliorerebbe la qualità dei giornali e dei telegiornali, ma la categoria sarebbe consegnata all'editore che deciderebbe di pubblicare soltanto quello che gli interessa». E se questo già avviene, «avverrebbe con maggiore frequenza e senza la possibilità di opporre alcuna resistenza». Analogo il commento per l'abolizione del finanziamento pubblico ai giornali. Pur ammettendo che «alcune testate ricevono delle sovvenzioni senza meritarle» e che è necessario applicare «controlli più incisivi e più severi», Del Boca sottolinea che «cancellare totalmente l'iniziativa avrebbe come conseguenza il silenzio di voci che non hanno la possibilità di camminare da sole». Critiche, infine, a Grillo anche per questioni di stile. «Quella del 'vaffà è precisamente una strada che impedisce, di per sè, una collaborazione costruttiva. Al 'vaffà - conclude - non si può che rispondere 'vaffà tu». (ANSA).


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V2-Day, Giorgio Merlo, parlamentare del Pd e vicepresidente Vigilanza Rai: “No all'abolizione ordine dei giornalisti 


Roma,    24/04/08. ''È curioso festeggiare il 25 aprile attaccando l'informazione, presumo anche quella libera e indipendente'': è il commento di Giorgio Merlo, parlamentare del Pd e vicepresidente Vigilanza Rai, a proposito della manifestazione di Beppe Grillo a Torino. 


''Il V2-Day di Piazza san Carlo a Torino - prosegue Merlo - dovrebbe celebrare l'attacco finale all'informazione e a tutto ciò che tutela e garantisce il settore, a partire anche dall'Ordine dei giornalisti, che va sicuramente rinnovato ma certamente non abolito. È altresì curioso, e credo anche molto significativo, confrontare le parole responsabili ed autorevoli del Capo dello Stato pronunciate oggi a Roma per i 100 anni della Fnsi e gli slogan che accompagnano questa anomala manifestazione organizzata dal popolo dei vaffa''. ''Non due modi diversi di giudicare il giornalismo libero ed indipendente - conclude - ma due modi alternativi di intendere e praticare la democrazia nel nostro paese. Con tutto rispetto per il popolo dei vaffa e di chi vuol abolire anche il ruolo democratico ed essenziale dell' informazione nel nostro paese''. (ANSA)


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V2-Day, Maurizio Gasparri: “Grillo è un trombone e non conta nulla” 


Roma,    23/04/08. ''Grillo è un trombone e non conta nulla in questo Paese''. Lo ha detto Maurizio Gasparri in una vivace discussione con un esponente delle liste civiche di Grillo a proposito del V2-Day in programma il 25 aprile a Torino, che si è svolta oggi a margine delle celebrazioni del centenario Fnsi.  Gasparri ha anche difeso la legge che porta il suo nome ed era criticata dal suo interlocutore: ''è una legge rispettosa della libertà d'informazione. Non ha visto del resto quanta gente ci ha votato?''. Poi, alla risposta critica del suo interlocutore in merito, ha replicato: ''Lei è un fascista, visto che dice che le elezioni non sono valide''. Ha preso le distanze dal V2-Day anche Franco Siddi, segretario della Federazione della stampa: ''Non abbiamo bisogno di Er Piotta per dire chi siamo e cosa dobbiamo fare. Ci sono migliaia di giornalisti che lavorano ogni giorno con intensità, serietà, intensità soffrendo e pagando prezzi alti''. (ANSA)


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SENTENZA n. 11/ 968 della  CORTE COSTITUZIONALE                         

L’Ordine dei Giornalisti  è  legittimo

a) perché  “lascia integro  il  diritto  di  tutti  di  esprimere il proprio   pensiero   attraverso   il   giornale”.                                  


b)  perché l’Albo è obbligatorio soltanto per coloro che  “manifestano il pensiero” per professione.                                 


c) perché tutela, con la deontologia, “la libertà degli iscritti nei confronti del contrapposto potere economico del datori  di  lavoro, compito, questo, che supera di  gran  lunga  la  tutela  sindacale  del diritti  della  categoria  e che perciò può essere assolto solo da un Ordine a struttura democratica che con i suoi poteri di  ente  pubblico vigili,  nei  confronti  di tutti e nell'interesse della collettività, sulla rigorosa osservanza  di  quella  dignità  professionale  che  si  traduce, anzitutto e soprattutto, nel non abdicare mai alla libertà di informazione e di critica e nel non cedere a sollecitazioni che possano comprometterla”.    


                                                    


“La Corte osserva che, se è vero  che ove il soggetto interessato non trovi un  giornale  che  lo  assuma come   praticante   egli  non  potrà  mai  intraprendere  la  carriera giornalistica, è altrettanto vero che neppure il giornalista  iscritto può  svolgere  la  sua attività professionale se non trova un editore  disposto ad assumerlo: il che dimostra che ci  si  trova  di  fronte  a conseguenze  che  non derivano dalla legge in esame, ma dalla struttura  privatistica delle imprese editoriali, nell'ambito della quale  la  non discriminazione può essere assicurata soltanto dalla concorrenza della  molteplicità delle iniziative giornalistiche”.                         


 


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Pubblichiamo la parte conclusiva della sentenza 11/1968 con la quale la Corte costituzionale ha riconosciuto la legittimità dell’Ordine dei Giornalisti nato con la legge  63/1969:


Considerato in diritto                         


4. - Ciò posto, la Corte osserva che per un'esatta valutazione del fondamento della  questione  sottoposta  al  suo  esame  occorre  tener presente  che la legge impugnata, realizzando un proposito espresso fin dal 1944 dal legislatore democratico (art. 1 del D.L.  Lt.  23  ottobre 1944, n. 302), disciplina l'esercizio professionale giornalistico e non l'uso del giornale come mezzo della libera manifestazione del pensiero: sicché è  esatto  quanto  sostengono  sia  la  difesa dell'Ordine di Sicilia sia l'Avvocatura dello Stato, che essa non tocca il diritto che a "tutti" l'art. 21 della Costituzione riconosce. Questo sarebbe  certo violato  se  solo  gli iscritti all'albo fossero legittimati a scrivere sui giornali, ma è da escludere che una  siffatta  conseguenza  derivi dalla  legge.  Ne  costituisce  riprova,  oltre  l'oggetto  stesso  del  provvedimento, l'esplicita  disposizione  contenuta  nell'art.  35:  il quale,  in  quanto  subordina  l'iscrizione nell'elenco del pubblicisti alla prova che  il  soggetto  interessato  abbia  svolto  un'"attivita' pubblicistica  regolarmente  retribuita  per almeno due anni", dimostra che la stessa legge considera pienamente lecita anche la collaborazione ai giornali che non sia ne' occasionale ne' gratuita. Senza che ci  sia bisogno  di  affrontare questioni di interpretazione non essenziali per la presente decisione,  appare  certo  che  l'art.  35  circoscrive  la  portata   del   divieto   sancito  nell'art.  45,  limita  l'estensione dell'obbligo di iscrizione all'albo  e,  in  definitiva,  conferma  che l'appartenenza   all'Ordine   non  è  condizione  necessaria  per  lo  svolgimento di un'attività giornalistica che  non  abbia  la  rigorosa caratteristica della professionalità.                                 


    5.  -  Questa  conclusione,  tuttavia,  non  esaurisce la questione sottoposta alla Corte. L'esperienza dimostra che il giornalismo, se  si alimenta   anche   del   contributo  di  chi  ad  esso  non  si  dedica professionalmente, vive soprattutto attraverso l'opera  quotidiana  del professionisti. Alla loro libertà si connette, in un unico destino, la  libertà  della  stampa  periodica,  che  a  sua  volta  è  condizione essenziale di quel libero confronto di idee  nel  quale  la  democrazia affonda  le  sue  radici vitali. E nessuno può negare che una legge la  quale, pur lasciando integro  il  diritto  di  tutti  di  esprimere  il proprio   pensiero   attraverso   il   giornale,   ponesse  ostacoli  o discriminazioni  all'accesso  alla  professione  giornalistica   ovvero sottoponesse  i  professionisti  a misure limitative o coercitive della loro libertà, porterebbe un grave e pericoloso attentato  all'art.  21 della Costituzione.                                                    


Sotto  questo  secondo  profilo della questione, che di certo e' il piu' delicato, la Corte deve in primo luogo accertare se  l'istituzione stessa  di un Ordine giornalistico e l'obbligatorietà della iscrizione nell'albo non costituiscano di per se' una violazione  della  sfera  di libertà di chi al giornalismo voglia professionalmente dedicarsi.     


La  Corte  ritiene  che  a  tale  interrogativo  si  debba dare una risposta negativa.                                                     


Chi tenga presente il complesso mondo della  stampa  nel  quale  il giornalista  si  trova  ad operare o consideri che il carattere privato delle imprese editoriali ne condiziona le possibilità di  lavoro,  non può  sottovalutare  il rischio al quale è esposto la sua libertà né può negare la necessità di misure e di strumenti a salvaguardarla.   Per la decisione della presente questione - alla quale  resta  estranea la rilevanza degli ulteriori  profili  di  pubblico  interesse   (fra   i   quali   quello   inerente all'osservanza  del canoni della deontologia professionale) soddisfatti  dalla legge - è in vista di tale finalità che va valutata la funzione che l'Ordine può svolgere. Il fatto che il giornalista esplica la  sua attività  divenendo  parte  di  un  rapporto di lavoro subordinato non rivela la superfluità di un apparato che  (secondo l'avviso della difesa  del ricorrente) si giustificherebbe  solo  in  presenza  di  una  libera professione,   tale  il  senso  tradizionale.  Quella  circostanza,  al contrario, mette in risalto l'opportunità che  i  giornalisti  vengano associati  in  un  organismo che, nei confronti del contrapposto potere economico del datori  di  lavoro,  possa  contribuire  a  garantire  il  rispetto  della  loro  personalità  e,  quindi,  della  loro libertà: compito, questo, che supera di  gran  lunga  la  tutela  sindacale  del diritti  della  categoria  e che perciò può essere assolto solo da un Ordine a struttura democratica che con i suoi poteri di  ente  pubblico vigili,  nei  confronti  di tutti e nell'interesse della collettività, sulla rigorosa osservanza  di  quella  dignità  professionale  che  si  traduce, anzitutto e soprattutto, nel non abdicare mai alla libertà di informazione e di critica e nel non cedere a sollecitazioni che possano comprometterla.                                                         


Si deve tuttavia ribadire che questa conclusione positiva è valida  solo  se  le  norme  che  disciplinano  l'Ordine  assicurino a tutti il diritto di accedervi e non attribuiscano ai suoi organi poteri di  tale ampiezza da costituire minaccia alla libertà dei soggetti. E in questa  ulteriore direzione va ora rivolta l'indagine affidata alla Corte.     


    6  -  Il  divieto  posto nell'art. 45, come si e' detto, condiziona all'iscrizione  nell'albo  il  legittimo  esercizio  della  professione giornalistica, ed esso, a causa del disposto contenuto nell'art. 36, si risolve in un divieto assoluto per gli stranieri che siano cittadini di  uno  Stato  che  non  pratichi  il trattamento di reciprocita'. Da cio' scaturisce la necessita' di accertare se esso non sia in contrasto  con l'art.  21  della  Costituzione  che  a tutti, e non ai soli cittadini, garantisce il fondamentale diritto di esprimere liberamente e con  ogni mezzo il proprio pensiero.                                              


 La  Corte - anche richiamando quanto esposto al n. 4 - ritiene che,  in se considerato, il presupposto del trattamento di reciprocità  per l'accesso  alla  professione  giornalistica  non  sia  illegittimamente stabilito, e cio' perche' e' ragionevole che in tanto lo straniero  sia ammesso  ad  un'attivita'  lavorativa  in  quanto al cittadino italiano  venga assicurata una pari possibilita' nello Stato al  quale  il  primo appartiene.   Questa   giustificazione,   pero',  non  puo'  estendersi  all'ipotesi dello straniero che sia cittadino  di  uno  Stato  che  non  garantisca l'effettivo esercizio delle liberta' democratiche e, quindi, della  piu'  eminente manifestazione di queste. In tal caso, atteso che ad un regime siffatto puo'  essere  connaturale  l'esclusione  del  non cittadino   dalla   professione   giornalistica,   il   presupposto  di  reciprocita'  rischia  di  tradursi  in  una  grave  menomazione  della liberta'  di  quei  soggetti  ai quali la Costituzione - art. 10, terzo comma - ha voluto offrire asilo politico  e  che  devono  poter  godere almeno in Italia di tutti quei fondamentali diritti democratici che non siano strettamente inerenti allo status civitatis.                     


Limitatamente  a  questa  parte,  dunque,  l'art.  45  deve  essere  dichiarato costituzionalmente illegittimo.                             


7. - Passando all'esame  delle  norme  che  disciplinano  l'accesso  all'albo,  devono essere presi in considerazione gli artt. 29, 33, 34 e 35  della  legge,  che  formano  oggetto  dell'impugnativa  ritualmente proposta dal pretore di Catania.                                       


Ad avviso della Corte, i dubbi di costituzionalità manifestati dal giudice a quo non appaiono  fondati.                                     


 L'art. 29 richiede per l'iscrizione nell'elenco del professionisti, fra  l'altro,  l'iscrizione  nel  registro del praticanti e l'esercizio della pratica per almeno  diciotto  mesi:  dal  combinato  disposto  di questa  norma  e  degli artt. 33 e 34 discende, secondo il pretore, che  l'accesso al registro  del  praticanti  e,  mediatamente,  all'albo  è rimesso  alla  completa discrezionalità degli editori, del direttori e degli altri giornalisti già iscritti. La Corte osserva che, se è vero  che ove il soggetto interessato non trovi un  giornale  che  lo  assuma come   praticante   egli  non  potrà  mai  intraprendere  la  carriera giornalistica, è altrettanto vero che neppure il giornalista  iscritto può  svolgere  la  sua attività professionale se non trova un editore  disposto ad assumerlo: il che dimostra che ci  si  trova  di  fronte  a conseguenze  che  non derivano dalla legge in esame, ma dalla struttura  privatistica delle imprese editoriali, nell'ambito della quale  la  non discriminazione può essere assicurata soltanto dalla concorrenza della  molteplicità delle iniziative giornalistiche.                         


Neppure  può  dirsi  che  il secondo comma dell'art. 34, in quanto  richiede che  lo  svolgimento  della  pratica  sia  comprovata  da  una dichiarazione  motivata  del  direttore  del  giornale, all'arbitrio di questi rimetta  la  valutazione  di  un  presupposto  per  l'iscrizione  nell'elenco  del  giornalisti.  In  effetti,  poiché  non  risulta che  l'Ordine abbia il potere di esprimere  un  giudizio  di  ammissibilità basato  sull'apprezzamento  del modo in cui l'interessato ha esercitato  la pratica, si deve concludere che la motivazione  del  direttore  deve avere  ad  oggetto  solo  gli  elementi  formali  del rapporto (durata, continuita') e non può mai  tradursi  in  un  sindacato  sul  pensiero espresso dal praticante.                                               


Non  si  vede,  infine,  in che modo il Consiglio dell'Ordine possa esercitare  poteri  arbitrari  in  ordine   all'iscrizione   nell'albo: chiamato   a  verificare  la  sussistenza  di  elementi  tassativamente indicati dalla legge ed a prendere atto  del  giudizio  positivo  delle prove  di  esame  predisposte per un accertamento tecnico, il Consiglio non può neppure liberamente  valutare  la  buona  condotta  (art.  31, secondo comma) del richiedente, ma deve accertarla sulla base di fatti, secondo  canoni  elaborati  in base ad una consolidata tradizione e con l'esclusione di ogni apprezzamento di atteggiamenti  che  costituiscano estrinsecazione  delle  libertà  garantite  dalla Costituzione. Val la pena di aggiungere che la legge impone che i provvedimenti  di  rigetto  della  domanda  siano  motivati  (art.  30)  e predispone su di essi il controllo giurisdizionale (art.    63),  assicurando  in  tal  modo  la repressione di ogni abuso.                                             


    Del  pari  non  fondata  è  la  questione  relativa al primo comma dell'art. 35, impugnato nella parte  in  cui  stabilisce  che  al  fine dell'iscrizione nell'elenco dei pubblicisti il richiedente deve offrire la  dimostrazione  di  aver  svolto  attività retribuita da almeno due anni. Il timore espresso dal giudice a quo che questa norma consenta un sindacato sulle pubblicazioni non ha  ragione  di  essere,  perché  la certificazione  dei  direttori  e  la  esibizione  degli  scritti  sono  elementi richiesti solo al fine di consentire che  venga  accertato  se l'attività  sia stata esercitata né occasionalmente ne' gratuitamente e per il tempo richiesto dalla legge, e non anche allo scopo di imporre o di permettere una valutazione di merito capace  di  risolversi,  come  afferma l'ordinanza, in "una forma larvata di censura ideologica".     


    8.   -   Poiché   l'ordinanza   denunzia   che   l'obbligatorietà dell'iscrizione nell'albo, sancita dal denunziato art. 45, rimette alla piena "discrezionalità altrui" l'esercizio  del  diritto  riconosciuto dall'art.  21  della  Costituzione,  con  conseguente  violazione anche  dell'art. 3, la Corte non può sottrarsi al compito di esaminare  altre disposizioni   della   legge   che   possano   incidere   sul   diritto all'iscrizione nell'albo, e ciò non per  esercitare  un  controllo  su norme  che,  per quanto si é detto al n. 2, non sono state ritualmente impugnate, ma solo per accertare se  il  loro  contenuto  sia  tale  da determinare l'illegittimità dell'art. 45.                             


 Sotto  questo profilo ed a questi limitati effetti vengono in esame l'art. 24, che attribuisce al Ministro per la grazia e giustizia l'alta sorveglianza  sui  Consigli  dell'Ordine,   e   le   disposizioni   che conferiscono   ai  Consigli  poteri  disciplinari  che  sull'iscrizione all'albo possono incidere in via  temporanea  (art.  54)  o  definitiva  (art. 55).                                                             


 La  Corte  osserva  che  il  potere  del  Ministro,  corollario del pubblico interesse al  regolare  funzionamento  dei  Consigli,  ha  per contenuto  i provvedimenti indicati nel secondo e nel terzo comma dello stesso art. 24, sicche' nessuna ingerenza e'  consentita  all'esecutivo  sulla   attivita'  amministrativa  relativa  agli  iscritti,  salva  la  implicita possibilita' di segnalare fatti che  ai  sensi  dell'art.  48 possano  giustificare il promovimento dell'azione disciplinare: nel che non si puo' riscontrare, in verita', nessun rischio di abuso.          


La Corte ritiene, del pari, che i poteri disciplinari conferiti  ai  Consigli  non  siano  tali da compromettere la libertà degli iscritti. Due elementi fondamentali  vanno  tenuti  ben  presenti:  la  struttura democratica  del  Consigli,  che  di  per  se' rappresenta una garanzia  istituzionale non  certo  assicurata  dalla  legge  precedentemente  in vigore (D.L. Lt. 23 ottobre 1944, n. 302), in base alla quale la tenuta degli albi e la disciplina degli iscritti sono state affidate per circa  venti  anni  ad  un organo di nomina governativa; e la possibilità del ricorso al Consiglio nazionale ed il successivo esperimento dell'azione giudiziaria nei vari gradi di giurisdizione. L'uno e l'altro concorrono sicuramente ad impedire che l'iscritto  sia  colpito  da  provvedimenti arbitrari. Essi, tuttavia, non sarebbero sufficienti a raggiungere tale scopo,  se  la  legge  stessa  prevedesse, sia pure implicitamente, una responsabilità del giornalista a causa del contenuto dei suoi  scritti e  ammettesse  una  corrispondente possibilità di sanzione, perché in  tal caso  la  libertà  riconosciuta  dall'art.  21  sarebbe  messa  in pericolo  e  l'art.  45  -  norma  di  chiusura dell'intero ordinamento giornalistico - risulterebbe illegittimo.  Ma  la  legge  non  consente affatto  una  qualsiasi  forma  di  sindacato  di  tale  natura.  Se la definizione degli illeciti disciplinari, come è  inevitabile,  non  si articola   in  una  previsione  di  fattispecie  tipiche,  bisogna  pur considerare che la  materia  trova  un  preciso  limite  nel  principio fondamentale  enunciato  dalla stessa legge nell'art. 2. Se la libertà  di informazione e di critica è insopprimibile, bisogna  convenire  che quel  precetto,  più che il contenuto di un semplice diritto, descrive  la funzione stessa del libero giornalista: è il venir  meno  ad  essa, giammai  l'esercitarla  che  può  compromettere  quel  decoro e quella dignità sui quali l'Ordine è chiamato a vigilare.


FRANCO ABRUZZO


 


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In: http://www.francoabruzzo.it/document.asp?DID=2850


Cassazione: firme


insufficienti per i tre


referendum di Grillo


Gasparri sfotte il comico.


 


I quesiti riguardano l'abolizione dell'Ordine dei giornalisti, i finanziamenti pubblici all'editoria e la legge Gasparri sulle frequenze tv. Grillo: “Mi rimetto alla decisione della Cassazione, non la discuto”.


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In: http://www.francoabruzzo.it/document.asp?DID=2870


GIORNALISTI.


I radicali chiedono


il commissariamento


dell’Ordine nazionale:


“Non possono essere


ammessi all’esame di


Stato gli allievi


di scuole e master”.


 


I radicali ignorano che, dopo i “decreti Mussi” del 6 e 9 luglio 2007, le Università italiane sono libere di istituire, al posto degli attuali master, “corsi preordinati all’accesso alla professione giornalistica a numero programmato e con una selezione iniziale per titoli ed esami”.


 


La risposta di Franco Abruzzo


(docente universitario a contratto di “Diritto dell’informazione”)


“I radicali, dimenticando le loro


critiche all’Ordine “corporativo


e chiuso”, raccolgono la protesta


dei giornalisti disoccupati,


che hanno sbagliato bersaglio.


Una mossa nostalgica e contro


la riforma di una professione


che è il perno basilare della vita


democratica della Nazione”


 


La professione giornalistica (italiana), organizzata (ex legge 69/1963) con l’Ordine e l’Albo (in base all’art. 2229 Cc) e costituzionalmente legittima (sentenze 11 e 98/1968, 2/1971, 71/1991, 505/1995 e 38/1997 della Consulta), ha oggi il riconoscimento dell’Unione europea.



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