Gli obiettivi dei promotori dei referendum “grilleschi” sono concretamente questi: eliminare i finanziamenti ai giornali (compresi quelli di partito), alle tv e alle radio; lasciare le tv e le radio senza leggi e i giornalisti in balia del mercato (ma resteranno soltanto gli “ordini” degli editori). Con l'abrogazione della legge n. 69/63 si otterrebbe unicamente una mutilazione nella tutela della libertà del giornalista, della sua dignità professionale ed in ultima analisi, della libertà di informazione. Deve perciò ritenersi che la proposta di referendum non sia ammissibile, ai sensi del secondo comma dell'art. 75 della Costituzione, in quanto mirante all'abrogazione di una legge costituzionalmente vincolata. I Consigli dell’Ordini sono giudici disciplinari anche rispetto al Codice di procedura penale (artt. 114 e 115) e al “Codice deontologico relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica” (Allegato A del Dlgs n. 196/2003-Testo unico sulla privacy).
Senza la legge sulla professione di giornalista (69/1963) i cronisti diventerebbero degli impiegati del computer e di internet. Questa affermazione si comprende SOLTANTO se si tiene presente che le regole della professione in Italia sono fissate per legge e, quindi, formano un vincolo che obbliga tutti a determinati comportamenti. L’anomalia italiana nasce dalla Costituzione, che vuole un esame di Stato per accedere alle varie professioni intellettuali. L’esame di stato presuppone un percorso formativo determinato sempre dalla legge. Nessuno disconosce che quella dei giornalista sia anch’essa una professione intellettuale. Se è così, deve rispettare gli stessi vincoli delle altre professioni. L’Europa vuole che le professioni intellettuali regolamentate si possano esercitare a patto che gli interessati abbiano una laurea almeno triennale.
La legge professionale 69/1963 (con gli articoli 2 e 48 dedicati alla deontologia) fissa delle regole ed esalta dei valori, che possono riassumersi così: 1) la libertà di informazione e di critica come diritto insopprimibile dei giornalisti; 2) la tutela della persona umana e il rispetto della verità sostanziale dei fatti principi da intendere come limiti alle libertà di informazione e di critica; 3) l'esercizio delle libertà di informazione e di critica ancorato ai doveri imposti dalla buona fede e dalla lealtà; 4) il dovere di rettificare le notizie inesatte; 5) il dovere di riparare gli eventuali errori; 6) il rispetto del segreto professionale sulla fonte delle notizie, quando ciò sia richiesto dal carattere fiduciario di esse; 7) il dovere di promuovere la fiducia tra la stampa e i lettori; 8) il mantenimento del decoro e della dignità professionali; 9) il rispetto della propria reputazione; 10) il rispetto della dignità dell'Ordine professionale; 11) il dovere di promozione dello spirito di collaborazione tra i colleghi; 12) il dovere di promozione della cooperazione tra giornalisti ed editori. Le "regole" fissate dal legislatore sono il perno dell’autonomia dei giornalisti: l’editore non può impartire al direttore disposizioni in contrasto con la deontologia professionale.
La parola Ordine significa riconoscimento giuridico di una professione, nel caso particolare della professione di giornalista. L’Ordine, inoltre, è la deontologia. Nel caso specifico le "regole" fissate dal legislatore sono il perno, come afferma il nostro contratto di lavoro, dell’autonomia dei giornalisti. I Consigli degli Ordini sono per legge i giudici disciplinari e in questo campo fanno la loro parte, certamente con alti e bassi.
E’ da sottolineare l’importanza strategica per una società democratica del nuovo diritto fondamentale dei cittadini all’informazione ("corretta e completa"), costruito dalla Corte costituzionale sulla base dell’articolo 21 della Costituzione e dell’articolo 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (che è legge "italiana" dal 1955). Questo nuovo diritto fondamentale presuppone la presenza e l’attività di giornalisti vincolati a una deontologia specifica e a un giudice disciplinare nonché a un esame di Stato, che ne accerti la preparazione come prevede l’articolo 33 della Costituzione.
Le considerazioni sopra esposte consentono di risalire alle ragioni che hanno spinto il Parlamento nel 1963 a tutelare la professione di giornalista. L’eventuale abrogazione della legge n. 69/1963 sull’ordinamento della professione giornalistica comporterà questi rischi:
1) quella dei giornalisti non sarà più una professione intellettuale riconosciuta e tutelata dalla legge.
2) risulterà abolita la deontologia professionale fissata negli articoli 2 e 48 della legge professionale n. 69/1963.
3) senza la legge n. 69/1963, cadrà per giornalisti (ed editori) la norma che impone il rispetto del "segreto professionale sulla fonte delle notizie". Nessuno in futuro darà una notizia ai giornalisti privati dello scudo del segreto professionale.
4) senza legge professionale, direttori e redattori saranno degli impiegati di redazione vincolati soltanto da un articolo (2105) del Codice civile che riguarda gli obblighi di fedeltà verso l’azienda. Il direttore non sarà giuridicamente nelle condizioni di garantire l’autonomia della sua redazione.
5) Il Contratto non avrà il sostegno deontologico della legge professionale vincolante anche per gli editori, che oggi non possono impartire al direttore e al collettivo redazionale disposizioni in contrasto con quella legge.
6) una volta abolito l’Ordine, scomparirà l’Inpgi. I giornalisti finiranno nel calderone dell’Inps, regalando all’Inps un patrimonio di 3mila miliardi di vecchie lire (immobili e riserve).
Governo e Parlamento devono preoccuparsi di riformare le leggi sugli ordini e i collegi nonché di tutelare i saperi dei professionisti. La formazione e gli esami per l’accesso devono essere delegati a un altro soggetto (l’Università) anche per garantire il rispetto del principio costituzionale dell’imparzialità. Non possono essere i professionisti a giudicare chi debba entrare nella cittadella delle professioni. E’ condivisibile, infatti, quella parte del decreto legislativo 300/1999 sul riordino dei ministeri che affida l’accesso alle professioni - e quindi anche della professione giornalistica - all’Università. Oggi deve essere tolto agli editori il potere che hanno dal 1928 di “fare” i giornalisti. I giornalisti devono nascere soltanto in Università.
Non bisogna dimenticare: a) che l’Ordine ha cercato di liberalizzare la professione creando 21 scuole di giornalismo; b) che i suoi minimi tariffari non sono vincolanti (come vuole l’Europa); c) che l’Europa, con la direttiva 36/2005 (“Zappalà”) ha dato disco verde gli Ordini e ai Collegi italiani. Quella direttiva e poi il dlgs 30/2006 (“La Loggia”) hanno stabilito che le professioni intellettuali si possono svolgere sia in via autonoma sia in via dipendente. Vogliamo rimanere professionisti e non tornare alla stagione mortificante del “mestiere”. Senza Ordine, infatti, rimarranno soltanto gli ordini degli editori.
Bisogna smetterla, una volta per sempre, di confondere l’ordinamento repubblicano della professione di giornalista con quello fascista. L’articolo 7 della legge 2307/1925 – che prefigurava la nascita di un Ordine dei Giornalisti – non è stato mai attuato dal regime, perché intervenne la legge 563/1926 sull’organizzazione sindacale di tutte le professioni. A questa disciplina giuridica fondamentale si adeguò necessariamente il Regio decreto 384/1928, che determinò la nascita dell’Albo (non dell’Ordine) dei giornalisti, Albo gestito da un comitato di 5 giornalisti operante all’interno dei sindacati regionali fascisti dei giornalisti. L’Ordine dei Giornalisti è nato nel 1963 su iniziativa di due eminenti personalità della democrazia repubblicana, Aldo Moro e Guido Gonella. Conclusione: riforma dell’Ordine sì, abrogazione no!
Franco Abruzzo
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V2-DAY. LORENZO DEL BOCA A GRILLO: “SENZA ORDINE ANCORA PIÙ DISORDINE. VAFFÀ NON SI PUÒ CHE RISPONDERE 'VAFFA TU’”.
ROMA, 24 aprile 2008. No all'abolizione dell'Ordine del giornalisti e del finanziamento pubblico ai giornali: è il senso della nota con la quale il presidente dell'Ordine nazionale, Lorenzo Del Boca, si oppone ai due punti di forza della protesta di Beppe Grillo alla vigilia del secondo Vaffa-Day, in programma domani a Torino. Se l'Ordine sparisse «la qualità dell'informazione avrebbe un sussulto positivo? No, con tutta evidenza!», sottolinea Del Boca, convinto che «semmai, occorrerebbe un'azione contraria» e cioè «rafforzare l'Ordine dei giornalisti in modo che le sue azioni possano essere più tempestive e più efficaci». Sì dunque a una «necessaria» modifica della legge del 1963, «per rendere più moderna e attuale un'istituzione che, comunque la si voglia considerare, è un baluardo di libertà e di indipendenza». Per Del Boca, «senza Ordine, non soltanto non migliorerebbe la qualità dei giornali e dei telegiornali, ma la categoria sarebbe consegnata all'editore che deciderebbe di pubblicare soltanto quello che gli interessa». E se questo già avviene, «avverrebbe con maggiore frequenza e senza la possibilità di opporre alcuna resistenza». Analogo il commento per l'abolizione del finanziamento pubblico ai giornali. Pur ammettendo che «alcune testate ricevono delle sovvenzioni senza meritarle» e che è necessario applicare «controlli più incisivi e più severi», Del Boca sottolinea che «cancellare totalmente l'iniziativa avrebbe come conseguenza il silenzio di voci che non hanno la possibilità di camminare da sole». Critiche, infine, a Grillo anche per questioni di stile. «Quella del 'vaffà è precisamente una strada che impedisce, di per sè, una collaborazione costruttiva. Al 'vaffà - conclude - non si può che rispondere 'vaffà tu». (ANSA).
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V2-Day, Giorgio Merlo, parlamentare del Pd e vicepresidente Vigilanza Rai: “No all'abolizione ordine dei giornalisti
Roma, 24/04/08. ''È curioso festeggiare il 25 aprile attaccando l'informazione, presumo anche quella libera e indipendente'': è il commento di Giorgio Merlo, parlamentare del Pd e vicepresidente Vigilanza Rai, a proposito della manifestazione di Beppe Grillo a Torino.
''Il V2-Day di Piazza san Carlo a Torino - prosegue Merlo - dovrebbe celebrare l'attacco finale all'informazione e a tutto ciò che tutela e garantisce il settore, a partire anche dall'Ordine dei giornalisti, che va sicuramente rinnovato ma certamente non abolito. È altresì curioso, e credo anche molto significativo, confrontare le parole responsabili ed autorevoli del Capo dello Stato pronunciate oggi a Roma per i 100 anni della Fnsi e gli slogan che accompagnano questa anomala manifestazione organizzata dal popolo dei vaffa''. ''Non due modi diversi di giudicare il giornalismo libero ed indipendente - conclude - ma due modi alternativi di intendere e praticare la democrazia nel nostro paese. Con tutto rispetto per il popolo dei vaffa e di chi vuol abolire anche il ruolo democratico ed essenziale dell' informazione nel nostro paese''. (ANSA)
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V2-Day, Maurizio Gasparri: “Grillo è un trombone e non conta nulla”
Roma, 23/04/08. ''Grillo è un trombone e non conta nulla in questo Paese''. Lo ha detto Maurizio Gasparri in una vivace discussione con un esponente delle liste civiche di Grillo a proposito del V2-Day in programma il 25 aprile a Torino, che si è svolta oggi a margine delle celebrazioni del centenario Fnsi. Gasparri ha anche difeso la legge che porta il suo nome ed era criticata dal suo interlocutore: ''è una legge rispettosa della libertà d'informazione. Non ha visto del resto quanta gente ci ha votato?''. Poi, alla risposta critica del suo interlocutore in merito, ha replicato: ''Lei è un fascista, visto che dice che le elezioni non sono valide''. Ha preso le distanze dal V2-Day anche Franco Siddi, segretario della Federazione della stampa: ''Non abbiamo bisogno di Er Piotta per dire chi siamo e cosa dobbiamo fare. Ci sono migliaia di giornalisti che lavorano ogni giorno con intensità, serietà, intensità soffrendo e pagando prezzi alti''. (ANSA)
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SENTENZA n. 11/ 968 della CORTE COSTITUZIONALE
L’Ordine dei Giornalisti è legittimo
a) perché “lascia integro il diritto di tutti di esprimere il proprio pensiero attraverso il giornale”.
b) perché l’Albo è obbligatorio soltanto per coloro che “manifestano il pensiero” per professione.
c) perché tutela, con la deontologia, “la libertà degli iscritti nei confronti del contrapposto potere economico del datori di lavoro, compito, questo, che supera di gran lunga la tutela sindacale del diritti della categoria e che perciò può essere assolto solo da un Ordine a struttura democratica che con i suoi poteri di ente pubblico vigili, nei confronti di tutti e nell'interesse della collettività, sulla rigorosa osservanza di quella dignità professionale che si traduce, anzitutto e soprattutto, nel non abdicare mai alla libertà di informazione e di critica e nel non cedere a sollecitazioni che possano comprometterla”.
“La Corte osserva che, se è vero che ove il soggetto interessato non trovi un giornale che lo assuma come praticante egli non potrà mai intraprendere la carriera giornalistica, è altrettanto vero che neppure il giornalista iscritto può svolgere la sua attività professionale se non trova un editore disposto ad assumerlo: il che dimostra che ci si trova di fronte a conseguenze che non derivano dalla legge in esame, ma dalla struttura privatistica delle imprese editoriali, nell'ambito della quale la non discriminazione può essere assicurata soltanto dalla concorrenza della molteplicità delle iniziative giornalistiche”.
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Pubblichiamo la parte conclusiva della sentenza 11/1968 con la quale la Corte costituzionale ha riconosciuto la legittimità dell’Ordine dei Giornalisti nato con la legge 63/1969:
Considerato in diritto
4. - Ciò posto, la Corte osserva che per un'esatta valutazione del fondamento della questione sottoposta al suo esame occorre tener presente che la legge impugnata, realizzando un proposito espresso fin dal 1944 dal legislatore democratico (art. 1 del D.L. Lt. 23 ottobre 1944, n. 302), disciplina l'esercizio professionale giornalistico e non l'uso del giornale come mezzo della libera manifestazione del pensiero: sicché è esatto quanto sostengono sia la difesa dell'Ordine di Sicilia sia l'Avvocatura dello Stato, che essa non tocca il diritto che a "tutti" l'art. 21 della Costituzione riconosce. Questo sarebbe certo violato se solo gli iscritti all'albo fossero legittimati a scrivere sui giornali, ma è da escludere che una siffatta conseguenza derivi dalla legge. Ne costituisce riprova, oltre l'oggetto stesso del provvedimento, l'esplicita disposizione contenuta nell'art. 35: il quale, in quanto subordina l'iscrizione nell'elenco del pubblicisti alla prova che il soggetto interessato abbia svolto un'"attivita' pubblicistica regolarmente retribuita per almeno due anni", dimostra che la stessa legge considera pienamente lecita anche la collaborazione ai giornali che non sia ne' occasionale ne' gratuita. Senza che ci sia bisogno di affrontare questioni di interpretazione non essenziali per la presente decisione, appare certo che l'art. 35 circoscrive la portata del divieto sancito nell'art. 45, limita l'estensione dell'obbligo di iscrizione all'albo e, in definitiva, conferma che l'appartenenza all'Ordine non è condizione necessaria per lo svolgimento di un'attività giornalistica che non abbia la rigorosa caratteristica della professionalità.
5. - Questa conclusione, tuttavia, non esaurisce la questione sottoposta alla Corte. L'esperienza dimostra che il giornalismo, se si alimenta anche del contributo di chi ad esso non si dedica professionalmente, vive soprattutto attraverso l'opera quotidiana del professionisti. Alla loro libertà si connette, in un unico destino, la libertà della stampa periodica, che a sua volta è condizione essenziale di quel libero confronto di idee nel quale la democrazia affonda le sue radici vitali. E nessuno può negare che una legge la quale, pur lasciando integro il diritto di tutti di esprimere il proprio pensiero attraverso il giornale, ponesse ostacoli o discriminazioni all'accesso alla professione giornalistica ovvero sottoponesse i professionisti a misure limitative o coercitive della loro libertà, porterebbe un grave e pericoloso attentato all'art. 21 della Costituzione.
Sotto questo secondo profilo della questione, che di certo e' il piu' delicato, la Corte deve in primo luogo accertare se l'istituzione stessa di un Ordine giornalistico e l'obbligatorietà della iscrizione nell'albo non costituiscano di per se' una violazione della sfera di libertà di chi al giornalismo voglia professionalmente dedicarsi.
La Corte ritiene che a tale interrogativo si debba dare una risposta negativa.
Chi tenga presente il complesso mondo della stampa nel quale il giornalista si trova ad operare o consideri che il carattere privato delle imprese editoriali ne condiziona le possibilità di lavoro, non può sottovalutare il rischio al quale è esposto la sua libertà né può negare la necessità di misure e di strumenti a salvaguardarla. Per la decisione della presente questione - alla quale resta estranea la rilevanza degli ulteriori profili di pubblico interesse (fra i quali quello inerente all'osservanza del canoni della deontologia professionale) soddisfatti dalla legge - è in vista di tale finalità che va valutata la funzione che l'Ordine può svolgere. Il fatto che il giornalista esplica la sua attività divenendo parte di un rapporto di lavoro subordinato non rivela la superfluità di un apparato che (secondo l'avviso della difesa del ricorrente) si giustificherebbe solo in presenza di una libera professione, tale il senso tradizionale. Quella circostanza, al contrario, mette in risalto l'opportunità che i giornalisti vengano associati in un organismo che, nei confronti del contrapposto potere economico del datori di lavoro, possa contribuire a garantire il rispetto della loro personalità e, quindi, della loro libertà: compito, questo, che supera di gran lunga la tutela sindacale del diritti della categoria e che perciò può essere assolto solo da un Ordine a struttura democratica che con i suoi poteri di ente pubblico vigili, nei confronti di tutti e nell'interesse della collettività, sulla rigorosa osservanza di quella dignità professionale che si traduce, anzitutto e soprattutto, nel non abdicare mai alla libertà di informazione e di critica e nel non cedere a sollecitazioni che possano comprometterla.
Si deve tuttavia ribadire che questa conclusione positiva è valida solo se le norme che disciplinano l'Ordine assicurino a tutti il diritto di accedervi e non attribuiscano ai suoi organi poteri di tale ampiezza da costituire minaccia alla libertà dei soggetti. E in questa ulteriore direzione va ora rivolta l'indagine affidata alla Corte.
6 - Il divieto posto nell'art. 45, come si e' detto, condiziona all'iscrizione nell'albo il legittimo esercizio della professione giornalistica, ed esso, a causa del disposto contenuto nell'art. 36, si risolve in un divieto assoluto per gli stranieri che siano cittadini di uno Stato che non pratichi il trattamento di reciprocita'. Da cio' scaturisce la necessita' di accertare se esso non sia in contrasto con l'art. 21 della Costituzione che a tutti, e non ai soli cittadini, garantisce il fondamentale diritto di esprimere liberamente e con ogni mezzo il proprio pensiero.
La Corte - anche richiamando quanto esposto al n. 4 - ritiene che, in se considerato, il presupposto del trattamento di reciprocità per l'accesso alla professione giornalistica non sia illegittimamente stabilito, e cio' perche' e' ragionevole che in tanto lo straniero sia ammesso ad un'attivita' lavorativa in quanto al cittadino italiano venga assicurata una pari possibilita' nello Stato al quale il primo appartiene. Questa giustificazione, pero', non puo' estendersi all'ipotesi dello straniero che sia cittadino di uno Stato che non garantisca l'effettivo esercizio delle liberta' democratiche e, quindi, della piu' eminente manifestazione di queste. In tal caso, atteso che ad un regime siffatto puo' essere connaturale l'esclusione del non cittadino dalla professione giornalistica, il presupposto di reciprocita' rischia di tradursi in una grave menomazione della liberta' di quei soggetti ai quali la Costituzione - art. 10, terzo comma - ha voluto offrire asilo politico e che devono poter godere almeno in Italia di tutti quei fondamentali diritti democratici che non siano strettamente inerenti allo status civitatis.
Limitatamente a questa parte, dunque, l'art. 45 deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo.
7. - Passando all'esame delle norme che disciplinano l'accesso all'albo, devono essere presi in considerazione gli artt. 29, 33, 34 e 35 della legge, che formano oggetto dell'impugnativa ritualmente proposta dal pretore di Catania.
Ad avviso della Corte, i dubbi di costituzionalità manifestati dal giudice a quo non appaiono fondati.
L'art. 29 richiede per l'iscrizione nell'elenco del professionisti, fra l'altro, l'iscrizione nel registro del praticanti e l'esercizio della pratica per almeno diciotto mesi: dal combinato disposto di questa norma e degli artt. 33 e 34 discende, secondo il pretore, che l'accesso al registro del praticanti e, mediatamente, all'albo è rimesso alla completa discrezionalità degli editori, del direttori e degli altri giornalisti già iscritti. La Corte osserva che, se è vero che ove il soggetto interessato non trovi un giornale che lo assuma come praticante egli non potrà mai intraprendere la carriera giornalistica, è altrettanto vero che neppure il giornalista iscritto può svolgere la sua attività professionale se non trova un editore disposto ad assumerlo: il che dimostra che ci si trova di fronte a conseguenze che non derivano dalla legge in esame, ma dalla struttura privatistica delle imprese editoriali, nell'ambito della quale la non discriminazione può essere assicurata soltanto dalla concorrenza della molteplicità delle iniziative giornalistiche.
Neppure può dirsi che il secondo comma dell'art. 34, in quanto richiede che lo svolgimento della pratica sia comprovata da una dichiarazione motivata del direttore del giornale, all'arbitrio di questi rimetta la valutazione di un presupposto per l'iscrizione nell'elenco del giornalisti. In effetti, poiché non risulta che l'Ordine abbia il potere di esprimere un giudizio di ammissibilità basato sull'apprezzamento del modo in cui l'interessato ha esercitato la pratica, si deve concludere che la motivazione del direttore deve avere ad oggetto solo gli elementi formali del rapporto (durata, continuita') e non può mai tradursi in un sindacato sul pensiero espresso dal praticante.
Non si vede, infine, in che modo il Consiglio dell'Ordine possa esercitare poteri arbitrari in ordine all'iscrizione nell'albo: chiamato a verificare la sussistenza di elementi tassativamente indicati dalla legge ed a prendere atto del giudizio positivo delle prove di esame predisposte per un accertamento tecnico, il Consiglio non può neppure liberamente valutare la buona condotta (art. 31, secondo comma) del richiedente, ma deve accertarla sulla base di fatti, secondo canoni elaborati in base ad una consolidata tradizione e con l'esclusione di ogni apprezzamento di atteggiamenti che costituiscano estrinsecazione delle libertà garantite dalla Costituzione. Val la pena di aggiungere che la legge impone che i provvedimenti di rigetto della domanda siano motivati (art. 30) e predispone su di essi il controllo giurisdizionale (art. 63), assicurando in tal modo la repressione di ogni abuso.
Del pari non fondata è la questione relativa al primo comma dell'art. 35, impugnato nella parte in cui stabilisce che al fine dell'iscrizione nell'elenco dei pubblicisti il richiedente deve offrire la dimostrazione di aver svolto attività retribuita da almeno due anni. Il timore espresso dal giudice a quo che questa norma consenta un sindacato sulle pubblicazioni non ha ragione di essere, perché la certificazione dei direttori e la esibizione degli scritti sono elementi richiesti solo al fine di consentire che venga accertato se l'attività sia stata esercitata né occasionalmente ne' gratuitamente e per il tempo richiesto dalla legge, e non anche allo scopo di imporre o di permettere una valutazione di merito capace di risolversi, come afferma l'ordinanza, in "una forma larvata di censura ideologica".
8. - Poiché l'ordinanza denunzia che l'obbligatorietà dell'iscrizione nell'albo, sancita dal denunziato art. 45, rimette alla piena "discrezionalità altrui" l'esercizio del diritto riconosciuto dall'art. 21 della Costituzione, con conseguente violazione anche dell'art. 3, la Corte non può sottrarsi al compito di esaminare altre disposizioni della legge che possano incidere sul diritto all'iscrizione nell'albo, e ciò non per esercitare un controllo su norme che, per quanto si é detto al n. 2, non sono state ritualmente impugnate, ma solo per accertare se il loro contenuto sia tale da determinare l'illegittimità dell'art. 45.
Sotto questo profilo ed a questi limitati effetti vengono in esame l'art. 24, che attribuisce al Ministro per la grazia e giustizia l'alta sorveglianza sui Consigli dell'Ordine, e le disposizioni che conferiscono ai Consigli poteri disciplinari che sull'iscrizione all'albo possono incidere in via temporanea (art. 54) o definitiva (art. 55).
La Corte osserva che il potere del Ministro, corollario del pubblico interesse al regolare funzionamento dei Consigli, ha per contenuto i provvedimenti indicati nel secondo e nel terzo comma dello stesso art. 24, sicche' nessuna ingerenza e' consentita all'esecutivo sulla attivita' amministrativa relativa agli iscritti, salva la implicita possibilita' di segnalare fatti che ai sensi dell'art. 48 possano giustificare il promovimento dell'azione disciplinare: nel che non si puo' riscontrare, in verita', nessun rischio di abuso.
La Corte ritiene, del pari, che i poteri disciplinari conferiti ai Consigli non siano tali da compromettere la libertà degli iscritti. Due elementi fondamentali vanno tenuti ben presenti: la struttura democratica del Consigli, che di per se' rappresenta una garanzia istituzionale non certo assicurata dalla legge precedentemente in vigore (D.L. Lt. 23 ottobre 1944, n. 302), in base alla quale la tenuta degli albi e la disciplina degli iscritti sono state affidate per circa venti anni ad un organo di nomina governativa; e la possibilità del ricorso al Consiglio nazionale ed il successivo esperimento dell'azione giudiziaria nei vari gradi di giurisdizione. L'uno e l'altro concorrono sicuramente ad impedire che l'iscritto sia colpito da provvedimenti arbitrari. Essi, tuttavia, non sarebbero sufficienti a raggiungere tale scopo, se la legge stessa prevedesse, sia pure implicitamente, una responsabilità del giornalista a causa del contenuto dei suoi scritti e ammettesse una corrispondente possibilità di sanzione, perché in tal caso la libertà riconosciuta dall'art. 21 sarebbe messa in pericolo e l'art. 45 - norma di chiusura dell'intero ordinamento giornalistico - risulterebbe illegittimo. Ma la legge non consente affatto una qualsiasi forma di sindacato di tale natura. Se la definizione degli illeciti disciplinari, come è inevitabile, non si articola in una previsione di fattispecie tipiche, bisogna pur considerare che la materia trova un preciso limite nel principio fondamentale enunciato dalla stessa legge nell'art. 2. Se la libertà di informazione e di critica è insopprimibile, bisogna convenire che quel precetto, più che il contenuto di un semplice diritto, descrive la funzione stessa del libero giornalista: è il venir meno ad essa, giammai l'esercitarla che può compromettere quel decoro e quella dignità sui quali l'Ordine è chiamato a vigilare.
FRANCO ABRUZZO
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In: http://www.francoabruzzo.it/document.asp?DID=2850
Cassazione: firme
insufficienti per i tre
referendum di Grillo
Gasparri sfotte il comico.
I quesiti riguardano l'abolizione dell'Ordine dei giornalisti, i finanziamenti pubblici all'editoria e la legge Gasparri sulle frequenze tv. Grillo: “Mi rimetto alla decisione della Cassazione, non la discuto”.
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In: http://www.francoabruzzo.it/document.asp?DID=2870
GIORNALISTI.
I radicali chiedono
il commissariamento
dell’Ordine nazionale:
“Non possono essere
ammessi all’esame di
Stato gli allievi
di scuole e master”.
I radicali ignorano che, dopo i “decreti Mussi” del 6 e 9 luglio 2007, le Università italiane sono libere di istituire, al posto degli attuali master, “corsi preordinati all’accesso alla professione giornalistica a numero programmato e con una selezione iniziale per titoli ed esami”.
La risposta di Franco Abruzzo
(docente universitario a contratto di “Diritto dell’informazione”)
“I radicali, dimenticando le loro
critiche all’Ordine “corporativo
e chiuso”, raccolgono la protesta
dei giornalisti disoccupati,
che hanno sbagliato bersaglio.
Una mossa nostalgica e contro
la riforma di una professione
che è il perno basilare della vita
democratica della Nazione”
La professione giornalistica (italiana), organizzata (ex legge 69/1963) con l’Ordine e l’Albo (in base all’art. 2229 Cc) e costituzionalmente legittima (sentenze 11 e 98/1968, 2/1971, 71/1991, 505/1995 e 38/1997 della Consulta), ha oggi il riconoscimento dell’Unione europea.
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