14.4.2016 - Ci risiamo, la discussione sulle pensioni è ripartita, più forte che mai, tutti parlano e fanno proposte, alcune molto interessanti, ma la demagogia regna sovrana soprattutto nei talk show! È ormai difficile fare chiarezza e semplificare una matassa che si complica ogni giorno di più. Proviamo a ristabilire alcuni punti fermi. In materia pensionistica si dovrebbero applicare due regole: parlare poco e quieta non movere et mota quietare.
Primo: la riforma del 2011 fu fatta perché l’Italia era vicina a una crisi finanziaria e ci è stata imposta dal vincolo esterno. Essa ci ha permesso di evitare la catastrofe e fatto riguadagnare un credito internazionale che avevamo perduto e un risparmio di spesa significativo. Attaccare Elsa Fornero è da vigliacchi e irresponsabili, ci si deve ricordare che siamo stati costretti e che non c’erano alternative. La riforma può essere sicuramente migliorata, ma si deve partire dai fatti, non dalla demagogia. Col forte invecchiamento della popolazione, i Paesi Ocse hanno scelto la strada dell’innalzamento dell’età pensionabile, più anni di lavoro, meno di pensione. Le condizioni precarie della nostra finanza pubblica non permettono nel breve una modifica strutturale di questo approccio — mandare in pensione tutti intorno a 60 anni. C’è poco da fare. Chi fa demagogia in tv dovrebbe indicare le coperture finanziarie con cui far fronte a una eventuale controriforma — i frequentatori dei talk show conoscono la dimensione del nostro debito pubblico?
Secondo, il problema è la dissociazione tra pensioni e mercato del lavoro. Il sistema a ripartizione, dove gli attivi pagano per i pensionati, presuppone carriere regolari per 40 anni e oltre. Queste non esistono più, forse ancora solo per il pubblico impiego, per cui l’aumento dell’età pensionabile a 66 anni e oltre si scontra con le espulsioni dal mercato del lavoro prima o dopo i 60 anni — ecco gli esodati.
Terzo, la flessibilità in uscita. Sul piano dell’efficienza e della libertà delle scelte, all’interno di un certo range, una persona dovrebbe essere libera di decidere quando andare in pensione, naturalmente con una correzione attuariale della pensione. In termini strutturali questa strada vuol dire però tornare indietro dalla riforma del 2011, per cui un provvedimento generalizzato di uscita anticipata sarebbe costoso e danneggerebbe le giovani generazioni. Ma d’altro canto qualcosa deve esser fatto, ad esempio per i lavori usuranti, dove lasciare un vincolo a 66 anni appare difficile; oppure prevedendo forme di part-time. Ci si deve però anche chiedere quali coorti di individui potrebbero accettare un’uscita anticipata volontaria con una forte penalizzazione e le implicazioni in termini di equità — escono solo i più ricchi, che hanno altri redditi familiari e patrimoni?
Quarto, la discussione si è concentrata sul reperimento delle risorse per permettere la flessibilità in uscita, cioè sul tipo di penalizzazioni da attuare su chi esce prima. Il 3 oppure il 5 o l’8 per cento? Una correzione attuariale studiata bene sulle pensioni anticipate nel lungo periodo, è vero, non produce effetti, cioè non aumenta il debito pensionistico aggregato — anche se ci vogliono almeno 20 anni — ma nel breve li ha e chi propone la flessibilità fa fatica ad ammetterlo. Per metterla in termini più semplici possibili, una pensione di 1.000 euro se anticipata sarebbe ridotta a 900 euro e l’onere pensionistico nel lungo periodo sarebbe invariato. Nel breve periodo però, c’è una bella differenza, perché l’anticipo anche se solo di un anno di 900 euro, costringe a trovare le coperture da subito, un anno prima, con effetti ovvi sulla spesa e sul disavanzo. La distribuzione nel tempo dell’onere pensionistico complessivo è molto importante. La Commissione europea sarebbe disposta ad accettare riforme che diventano neutrali dopo 20 anni ma che nel breve aumentano la spesa? E che succede se un governo tra x anni rivedesse la strada intrapresa? Si tasserebbero le pensioni anticipate permesse oggi?
Quinto, un’uscita anticipata avrebbe effetti sull’occupazione? La questione cruciale è se ci sia sostituibilità tra pensionandi e giovani nel mercato del lavoro. I dati evidenziano una bassa sostituibilità, con l’eccezione delle qualifiche meno elevate. Dobbiamo aumentare la crescita economica e l’occupazione, non mandare in pensione prima i lavoratori. Constatata l’impossibilità di un ricalcolo contributivo, la strada da esplorare è perciò solo quella di un contributo sulle pensioni al di là di una certa soglia per creare un meccanismo di solidarietà per le pensioni più basse. È una strada difficile e molto delicata — colpiamo anche le pensioni di chi è uscito con meno di 20 anni di contributi? È questa l’unica soluzione per evitare la scure della Corte costituzionale, come avevo proposto insieme a Giuliano Amato anni fa: un meccanismo di solidarietà all’interno del sistema pensionistico, i pensionati più ricchi aiutano quelli più poveri, una pensione di base previdenziale finanziata con un tale prelievo e se necessario integrata dalla fiscalità. Possono essere immaginate diverse modulazioni ma resta da definire un piccolo particolare: dove fissiamo l’asticella? Quali sono le pensioni più elevate? Intorno ai 1.500 o sopra i 3.000 euro? Il limite deve dare un gettito adeguato per finanziare il meccanismo di integrazione — tra i 5 e i 10 miliardi almeno. Tutto facile in teoria, peccato che il prelievo dovrà essere sopportabile sul piano sociale ed elettorale. TESTO IN http://www.corriere.it/opinioni/16_aprile_14/nodo-pensioni-4b7ffaae-01a7-11e6-b513-8228f9f09a00.shtml