1. Guy de Maupassant: Bel-Ami.
in: www.odg.mi.it/node/30735
di Paola Pastacaldi
"Bel-Ami" di Guy de Maupassant (1850-1893) esce nel 1885 a puntate sulla rivista "Gil Blas". È una storia di grande successo imperniata sulla figura del giovane George Duroy, un bello di provincia, che cerca fortuna al sorgere della Terza Repubblica. Ambizioso e cinico, anzi di più, un parvenu assetato di successo e armato di fascino che userà tutto nel fare l'arrampicatore sociale.
Per l' oscuro giovincello, ex sottufficiale, che nessuno si filava, emigrato a Parigi con tre franchi e quaranta in tasca, insufficienti per arrivare alla fine del mese, sarà un giochetto da ragazzi diventare d'un colpo giornalista, redattore, caporedattore e firma del giornale, coronando il tutto con il titolo di barone Du Roy de Cantel.
Bel-Ami divenne popolare come l'idolo delle donne e dei salotti. La sua storia fu ripresa il secolo dopo da tanti film e persino dalle canzonette: negli anni Quaranta si cantava "Sei l'amor di ogni cuor, donne qui, donne lì, bel-Ami".
La "Biblioteca" del Corriere della Sera nel mese di agosto ha inserito il capolavoro di Guy de Maupassant nel suo ricco elenco dei Grandi Romanzi. A distanza di oltre cento anni l'adorabile canaglia, come lo ha definito il "Corriere" nella presentazione, può diventare il pretesto per ben altre riflessioni. Non tanto sugli arrampicatori sociali, ma piuttosto su quelli affini al mondo dell'editoria. Il contesto che fa da sfondo a ogni attimo della storia altro non è che la costruzione di una carriera, quella di un giornalista, con il contorno di trame "sporche" che si tessono nelle redazioni dei giornali. Il contesto alla fine altro non è che la potente macchina dell'informazione e le storture che mette in moto per sopravvivere riccamente.
Maupassant fu vero un giornalista cronista. Non ebbe problemi di rigore o di fedeltà a una testata. Collaborò infatti contemporaneamente per "Le Galois", monarchico e puritano, e per
"Gil Blas", di sinistra e contestatore. Si occupò spesso di cronaca, il
che gli diede ottimi spunti per i suoi racconti.
Rileggere Bel-Ami sotto questa angolatura apre altre porte alla genialità di Guy de
Maupassant, non a caso allievo di Gustav Flaubert, l'autore di "Bouvard
e Pecuchet", il romanzo che fa un'analisi spietata del conformismo
borghese, il quale gli fu amico e lo difese nei momenti più difficili
della sua vita. In Bel-Ami il mondo del giornalismo, la scalata al
potere sono ben affrescati con gusto da pittore. L'autore aveva
conosciuto sia Corot che Courbet e aveva scritto numerosi articoli
sulle mostre di pittura. La sua scrittura ha il sapore dei quadri
impressionisti, ma ha nei contenuti lo stile del cronista. Le
descrizioni del modo di lavorare in un giornale sono dense di dettagli
e Bel-Ami, riletto non dimenticando le problematiche giornalistiche
attuali, dimostra come il giornalista di fama si affermasse grazie alla
sua spacconeria e alle bravate piuttosto che alla serietà e all'impegno.
Un fitto intreccio di relazioni e scoperte fatte nelle alcove costituisce
il vero lavoro di questo giornalista. Ad essere onesti e autocritici,
oggi le questioni di letto o di sesso entrano prepotentemente persino
nella cronaca. E ancora poca importanza viene data al perché di questo
eccesso di curiosità quasi morbosa che i media danno al nudo e alla
sessualità. Nè, a mio avviso, basta certo a spiegarla la vecchia storia
di far vendere di più e subito. Le relazioni sessuali sono diventate
oggi strumenti di potere attraverso i quali si ricattano le persone, un
po' come faceva Bel-Ami? Bel-Ami con freddo cinismo politico e umano
trionfa, con articoli frutto di soffiate mondane fatte dall'amica
Madeleine Forestier, ex moglie dell' amico giornalista che lo aveva
assunto, amante del giornalismo intrigo e firma de plume di un gossip
velenoso sulle segrete faccende dei politici. Ma oggi Bel-Ami, sotto il
profilo etico giornalistico, fa quasi sorridere, perché fa strada grazie a giochetti in alcove,frizzanti almeno quanto quelle descritte dalle telenovele americane.
Esemplare di questo cinismo di vecchia maniera, in senso sia letterario che di costume, è la caduta nelle grinfie erotiche di Bel-Ami della non più giovane moglie dell'editore,
la signora de Marelle, coperta di veli e già prostrata da questo amore impossibile.
Il romanzo di Guy de Maupassant rimane, comunque, un
capitolo fondamentale qualora si volesse redigere una storia
deontologica del giornalismo attraverso i romanzi. Bel-Ami è la prima
tappa di un giornalismo volgare e interessato che ha ceduto i suoi
principi etici ad un bisogno di affermazione quasi egotista del culto
dell'io, che avrà la sua punta massima negli anni odierni.
Il mondo delle comunicazioni commerciali, del marketing, erano solo agli inizi.
Maupassant, nell'ultima pagina, tutto preso dal racconto dell'ultimo
trionfo di de Roy, cioè il matrimonio con la figlia dell'editore (dopo
aver sedotto e abbandonato la madre), scruta il suo uomo con una lente
di ingrandimento e scrive: «Il popolo di Parigi lo contemplava e lo
invidiava. Poi alzando gli occhi intravvide laggiù dietro la place de
la Concorde, la Camera dei deputati, e gli sembrò di essere sul punto
di passare, d'un balzo, dal portico della Madeleine al portico di
Palais-Bourbon». Il quarto potere agognava alla politica più che al
denaro. Ancora non aveva fatto la sua comparsa il nuovo padrone delle
redazioni, l'informazione commerciale.
Guy de Maupassant, Bel-Ami, Corriere della Sera-I grandi romanzi, Milano 2002
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2. Evelyn Waugh: L'inviato Speciale.
in: www.odg.mi.it/node/30737
di Paola Pastacaldi
Evelyn Arthur Waugh (1903-1966), londinese, ex giornalista, autore di eleganti romanzi satirici, fu tra le due guerre uno degli scrittori di viaggi tra i più acuti e seguiti dai lettori inglesi. Nel '36 pubblicò un racconto fitto di avvenimenti eroico comici, "L'inviato speciale". In lingua originale il titolo è anche più incisivo "Scoop: un racconto sui giornalisti", ripubblicato da Guanda (pag. 241,Milano, 2002). Una satira puntualissima e un esercizio di stile sui giornalisti. Waugh era stato inviato speciale per il "Daily Express". Per ogni inviato, credo, la consapevolezza di cosa sia davvero questo mestiere coincide con un certo viaggio, che apre le porte della verità e anche forse dello spirito critico. Non sempre si tratta del primo viaggio o del primo servizio. Ma poco importa. È un momento che non si scorda.
Per Waugh coincise con il lavoro di reporter in Abissinia. È lì che egli ebbe l'idea di descrivere questo mondo che egli definì "zeppo di affilati imbrattacarte". La storia inizia con un certo William Boot, curioso nome che in inglese vuol dire stivale e anche calcio. Boot è un corrispondente di argomenti botanici, titolare della rubrica "Luoghi lussureggianti" e di altre amenità della campagna, che non ha mai messo piede oltre Londra, mai sognato altro che scrivere di cose naturali. Un tizio ameno e insieme anacronistico.
Il giornale è "The Beast" (la bestia in italiano, anche questo certo
allude alla grossolanità dei media oggetto della storia). Boot è
agitatissimo, perché la zia nel ribattere l'ultimo suo pezzo aveva
confuso la parola svasso con tasso.
Boot vive tragici giorni d'angoscia in cui attende ad ogni momento di essere licenziato da
collaboratore. Boot non è assunto, ma nella sua tragicità di
collaboratore felice racconta di un attaccamento irredimibibile a una
professione di cui alla fine non sa nulla.
Boot, per un'alchimia del caso che nei giornali diventa strutturale tanto è frequente anche se
non sempre così tragica, viene promosso a inviato al posto di un suo
omonimo. Un politico e l'editore si incontrano per decidere chi mandare
in Africa, dove sta per scoppiare un'impresa coloniale, insomma una
guerra. I due pensano ad un giornalista di prestigio. Concordano,
infine, su uno scrittore, John Courtney Boot, e ne elogiano lo stile,
la posizione sicura e invidiabile nel mondo letterario. La decisione è
presa. L'editore telefona al direttore del "Beast".
La richiesta getterà nel panico la redazione e una sfilza di capi e capetti si
metterà alla caccia di questo sconosciuto Boot. Ovviamente i
giornalisti, sogghigna Waugh, non leggono libri, non conoscono gli
scrittori. Il primo malcapitato Boot che finisce sotto gli occhi del
caporedattore, pescato dalla lista dei collaboratori, è quel campagnolo
che firma le rubriche sul verde. I capi commentano con sguardi
allibiti.Che stranezza proprio lui.
Ma in redazione gli ordini non si discutono. Lo spirito critico viene affondato sotto i cuscini delle
poltrone per timori di rappresaglie, che col tempo annullano
definitivamente ogni capacità di riflettere e tutto si riduce a obbedienza acritica. Boot viene convocato imperiosamente con un telegramma e finirà inviato speciale in Africa.
Waugh con ironia non farà altro che sottolineare il non senso di tutto quello che accadrà
sotto l'etichetta del giornalismo di guerra. Boot, che fa da cartina di
tornasole di tutte le magagne del giornalismo, si ritrova ad imparare
il mestiere sul campo fra battute di questo genere a proposito di
inviati al fronte: «In primo luogo, non c'è alcun fronte.
E in secondo luogo, non potremmo andarci anche se ci fosse. Impossibile
uscire di città senza un permesso e il permesso non ce lo danno». Ai
giornali che hanno fame di notizie si dà colore. Cioè "preparativi
nella capitale minacciata, mercenari, uomini misteriosi, influenze
straniere, volontari... Non ci sono notizie concrete".
Non ci sono notizie, ecco il punto su cui ruota l'analisi, neanche poi tanto
romanzesca, di Waugh. Ma allora le notizie che sono? Lo spiega un
giornalista al povero Boot: « Le notizie sono quella cosa che un tale
che non si interessa granché di nulla vuole leggere. Ed è notizia
fintanto che lui la legge. Se qualcun altro ha mandato un dispaccio
prima di noi, la nostra storia non fa notizia. Certo, c'è il colore. Il
colore è un mucchio di chiacchiere a vuoto. Facile da scrivere e facile
da leggere».
Le eroiche leggende intorno a Fleet Street, la vera
strada dei giornali londinesi, altro non sono che audaci menzogne,
travisamenti, confessioni strappate. C'è bisogno di aggiungere altro?
Il giornalista più pagato degli Stati Uniti - scrive Waugh - pare
avesse fatto un colpo mondiale con una cronaca al vivo
dell'affondamento del Lusitania, quattro ore prima che lo affondassero
con un siluro.
Ricorda un po' il film "Eroe per caso" questo assurdo
Boot che, povero lui, non ha la minima idea di nulla, a partire
dall'attrezzatura che un vero giornalista dovrebbe portarsi appresso
per poter fare l'inviato in un paese di guerra, al cosa dovrà fare per
procurarsi le notizie.
Senza anticipare troppo la storia, che vale la pena di leggere anche per divertimento puro, la morale è invece diluita un po' ovunque: «C' è una cosa sulla quale puoi sempre contare
nel nostro mestiere, ed è la popolarità ... ma qui non l'avverto. Anzi
accidenti, avverto l'esatto opposto. E mi chiedo: siamo noti, amati,
considerati degni di fiducia? E la risposta suona: "No".
Il qui,dove si è smarrita la credibilità del lavoro del giornalista di allora
era una Ismaelia, nella zona nordorientale dell'Africa, quella che
"sostanziava la metafora di cuore del Continente nero ... deserti,
foreste, paludi frequentati da feroci nomadi". Il qui di oggi, il dove
oggi i giornalisti hanno smarrito la credibilità dei lettori, non è più
l'altrove africano, ma coinvolge ormai mezzo mondo.
Evelyn Waugh, "L'inviato Speciale", Guanda, Milano 2002
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3. Arto Paasilinna: L'anno della lepre.
in: www.odg.mi.it/node/30736
di Paola Pastacaldi
Chiude il nostro viaggio dentro la stampa vista dalla letteratura un libro che ha avuto un discreto successo anche in Italia, "L'Anno della lepre" (Iperborea, pag. 199, con la bellissima e puntuale introduzione di Fabrizio Carbone). "Janiksen Vuosi", in lingua originale, è stato scritto dal finlandese Arto Tapio Paasilinna, uno story teller del profondo nord (lappone) che, per mettere insieme le sue storie on the road, ha abbandonato il lavoro di giornalista.
Paasilinna forse non immaginava quanto questa sua storia fosse una solenne e tragica anticipazione del male di questo mestiere e chissà quanti giornalisti italiani leggendo questo libro si riconosceranno in un desiderio impraticabile e, alle volte, persino inconfessabile.
Scritto nel 1975, arrivato in Italia nel '94, questo libretto (per le sue agevoli dimensioni e per l'ironia fulminante che lo accende in ogni trovata letteraria e non) potrebbe intitolarsi "Fuga di un giornalista".
Una fuga conclusiva ed emblematica del malessere di vivere, oggi, dentro una struttura editoriale per svolgere quello che un tempo era un lavoro che dava prestigio e denaro.
In questo racconto il giornalista protagonista è in una tale crisi esistenziale che, dall'oggi al domani, come se una mina gli fosse esplosa dentro (un male che in realtà covava nella tragica mediocrità e inutilità di un correre dietro al nulla durato anni) fugge da tutto, dal giornale, dal direttore e dalla moglie.
Poche essenziali parole di Paasilinna, ripetute nel corso di chissà quante interviste, riassumono le origini di questa storia: «La fuga l'ho vissuta in prima persona decidendo di diventare scrittore a tempo pieno e rinunciando ad una vita che mi frustrava. Al tempo ero giornalista, erano gli anni Settanta e la stampa cominciava a diventare commerciale e scandalistica. Mi sentivo insoddisfatto del mio lavoro e così sono fuggito per scrivere questo libro andando a rifugiarmi nella natura lontano dalla città».
Il protagonista, un certo Kaarlo Vatanen, è in compagnia di un fotografo, in viaggio di lavoro notturno su una strada bianca di neve, e deve decidere se rientrare a Helsinki o no. Bastano pochi aggettivi a Paasilinna per anticipare il cuore narrativo della storia: "Giornalista e fotografo erano due persone ciniche, infelici. Prossimi alla quarantina, erano ormai lontani dalle illusioni e dai sogni della gioventù, che non erano mai riusciti a realizzare. Sposati delusi, traditi, entrambi con un inizio d'ulcera e una quotidiana razione di problemi di ogni genere con cui fare i conti".
Pescando tra le righe: "Il sole era al tramonto. Ma nessuno di loro, ostinatamente chiusi in se stessi, si accorgeva di quanto vi fosse di squallido in quel loro correre. Viaggiavano indifferenti e stanchi".
La storia esplode intorno ad un incidente banale, una lepre viene investita dall'auto. Questo episodio sarà in grado di cambiare la vita del giornalista, ma non quella del fotografo che è al volante e sembra avere il cervello intorpidito. Anche in questa sottile distinzione sembra che l'autore sia un buon conoscitore dell'ambiente dei giornali e quasi alluda ad una fine preannunciata, quella dei fotocronisti. In qualche modo loro, dunque, avrebbero già rinunciato anche a fuggire.
All'apatia del fotografo corrisponde lo scatto repentino e irrazionale del giornalista che decide di salvare la bestiola ferita e sanguinante e fugge di notte nei boschi dietro di lei, a sua volta inseguito dalle urla del fotografo.
La storia è presto detta. Kaarlo Vatanen non tornerà più. Ma la bestiola salverà lui da una vita in cui non si riconosceva più e il cui rischio era, lo si intuisce, non tanto la vigliaccheria o la mediocrità, ma la follia. Vatanen fugge da una moglie, cattiva, egoista, che si comperava vestiti impossibili, etc., ma lasciamo le storie personali - anche se spesso trovano il loro humus nella condizione esistenziale lavorativa e viceversa. Fugge da una rivista che "denunciava apertamente i soprusi della società e taceva però ostinatamente su tutte le sue reali tare - racconta il protagonista -. In copertina, settimana dopo settimana, non si vedevano che facce di vitelloni, di miss, di modelle, degli ultimi rampolli di famiglie di musicanti. Quando era giovane Vatannen era felice di fare l'inviato di un grande giornale". Come accade a tutti i giornalisti, anche quelli che iniziano oggi. In altre parole gli pareva di fare un buon lavoro. Ma con il passare degli anni non si illudeva più. E l'affondo narrativo avviene quando le osservazioni si fanno quasi etiche, anche se sempre condite di ironia. Vatanen racconta che "si era ridotto a fare solo quello che gli chiedevano, senza esprimere dubbi o critiche e che i colleghi facevano come lui". L'umiliazione della persona e della professionalità del giornalista come sappiamo passa per la macchina ben oliata del maerketing. "Qualsiasi dottoruccio da strapazzo, esperto di marketing, poteva dire ai redattori che tipo di articoli si aspettava l'editore e loro scrivevano". Non è certo necessario commentare questo passaggio. E nemmeno il prossimo: "Il giornale andava bene, ma l'informazione non passava, veniva annacquata, camuffata, ridotta a una storiella superficiale. Bella professione!".
I giornali godono di buona una salute, ma non pescano più la loro linfa vitale dal lavoro del giornalista. I giornalisti vivono umiliati, intimoriti e incapaci di esprimere le loro opinioni. I lettori non li stimano. I giornalisti sono diventati il bel vestito che indossano i nuovi giornali, nei quali ha vinto la linea commerciale.
Vatanen fugge appunto dietro a un destino paradossale ridicolo che indossa il pelo di una bestiola mite dal musetto caldo. Eppure sarà quella lepre a condurlo lungo la salvezza. Il giornalista Paasilinna - Vatanen, dopo aver tolto le scarpe da città e appeso la giacca ad un chiodo di un muro di un capanno di un commissario in pensione che lo salva da un piccolo guaio con la giustizia - farà il boscaiolo, il traghettatore, affronterà un incendio con i militari mezzo ubriaco e inseguirà per giorni sconfinando in Unione Sovietica persino un orso bianco. Sarà arrestato come spia, ma avrà i complimenti dei soldati dell'Armata Rossa per averlo infine ucciso.
Simbolicamente forse l'ex giornalista è stato encomiato per aver sconfitto sia le ideologie che il cattivo giornalismo? La sua nuova e faticosa vita, sempre precaria, lo fa irrobustire e sempre più si dimentica "della vita rammollita della capitale. Finito il tormento di discussioni politiche con proseliti, la fissazione del sesso".
Paasilinna contempla il suo eroe e gode certamente della sua libertà: "Appena un mese prima sedeva annoiato al bar dell'angolo con un boccale di birra tiepida in mano e ora eccolo in quel deserto infuocato, assediato dal fumo, lo zaino pieno di pesci umidi, il sudore alle chiappe. - Mille volte meglio qui che a Helsinki, si disse Vatanen, sorridendo tra le lacrime".
Se questa storia fosse trasferibile in Italia potrebbe raccontare qualcosa di ancora poco divulgato anche se noto: come il disagio umano nelle redazioni abbia oltrepassato la misura delle questioni sindacali e abbia già tracimato, portando i giornalisti a toccare il fondo dei malesseri fisici. La parola fuga la possiamo leggere tra le righe di molti pensionamenti anticipati, di molti esposti all'Ordine, di esaurimenti nervosi che durano mesi e, talvolta, persino nella morte.
Paasilinna entra in questa tragedia che è il declino della macchina informativa con humour, con mano leggera, come se la sua storia fosse solo inventata, una folata di neve, ma talmente forte da agghiacciarci.
Soprattutto se a leggerlo è un giornalista che oggi vive in una qualsiasi redazione di un qualsiasi giornale.
Una fuga che non è affatto un atto di vigliaccheria. A sostegno di questa tesi mi sento autorizzata a raccontare un aneddoto personale. Questo libro lo lessi parecchi anni fa,quando era appena tradotto in italiano, perché me lo consigliò Alberto Cavallari. Rispondeva in modo molto discreto alle mie proteste e ai miei racconti di sofferenza in redazione e voleva offrirmi un lenitivo culturale e profondo al disagio.
Mi disse solo con energia di leggere "L'Anno della Lepre". E sappiamo quanto Alberto Cavallari, come Arto Paasilinna, fosse un estimatore della vera fuga e non dell'arte della fuga e dei suoi mille accomodamenti, che invece vengono praticati da molti giornalisti per sopravvivere nelle redazioni.
Arto Paasilinna, L'anno della lepre, Iperborea, Milano 2001
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4. Evelyn Waugh: Waugh in Abissinia.
in: www.odg.mi.it/node/30738
di Paola Pastacaldi
«Nel momento in cui scrivo i giornali sono pieni di resoconti dell'agonia mortale del popolo abissino e nelle "Lettere al direttore" gli eruditi fanno mostra della loro cultura componento epitaffi in greco in onore di questo popolo. Si è causata un'immensa quantità di sofferenze che avrebbero potuto essere evitate. Le conseguenze ultime potrebbero ripercuotersi sul mondo intero». Aprile 1936. "Waugh in Abissinia" è il racconto del viaggio di Evelyn Arthur Waugh fatto tra il '35 e il '36 come inviato di guerra del "Daily Mail" (uno dei pochi giornali inglesi insieme al "Morning Post" a sostenere la causa del fascismo) per seguire le fasi dell'invasione italiana. Il fuoco narrativo di Waugh, che si coglie già nella frase citata che chiude il primo capitolo e che segna le responsabilità e il cinismo con cui la stampa tratta la guerra, si concentra su due poli, prima quello dei selvaggi o dei popoli remoti con grande abilità di viaggiatore incuriosito tra Addis Abeba, Harar e Gigiga, poi sui fatti della guerra, ma che fatti non sono in realtà. La guerra è creata dalla incerte e spesso mal orchestrate finzioni messe in piedi dalla massa dei giornalisti piovuti da tutto il mondo a caccia di scoop e voluta dalle pressanti e autoritarie richieste dei direttori che pretendono l'esistenza di una guerra a qualunque prezzo.
Estate del 1935. «Qui, a Londra, negli uffici dei capiredattori e dei direttori di giornali e case editrici sembrava brulicare unicamente una razza di antropoidi che non vedevano, sentivano o parlavano d'altro che dell'Abissinia. Ben pochi, è vero, erano in grado di trovare quel paese sulla carta geografica o avevano la più pallida idea di come fosse fatto». Dal quarto capitolo la critica alla stampa del raffinato Waugh è un fuoco, una raffica di colpi ben assestati, inesorabili quanto veritieri. Anche a distanza di oltre sessant'anni anni dobbiamo ammettere che la superficialità dell'informazione ha la meglio.
Waugh continua nella sua analisi e apre spaccati interessanti sui vizi del giornalismo mondiale: «Tutto sommato gli americani erano più fortunati: la loro stampa ha creato nel pubblico un appetito vorace per i dettagli personali, per irrilevanti che siano, al punto che i lettori si bevono avidamente qualsiasi banalità anche se ha per oggetto la vita di quelle stesse persone che sono pagate per diffonderle. I giornalisti potevano dunque inzeppare i loro servizi di pagine autobiografiche e dilungarsi senza badare a spese sul proprio stato di salute, su abitudini, reazioni e svaghi che riempivano la loro giornata; gli europei invece, più concreti erano costretti ad andare a caccia delle ultime notizie».
La verità è solo un articolo stampato, dietro il nulla. Tanto più in un paese così lontano. Oggi diremmo che la verità è quella dei tg. «Era verosimile - e di fatto così accadde- che la notizia dello scoppio delle ostilità venisse pubblicata in Europa prima che noi ne sentissimo parlare ad Addis Abeba».
Waugh con un linguaggio comico e scintillante mette a prova le sue storie le amplifica all'infinito, irriverente cacciatore delle verità che si nascondono dietro il resoconto dei fatti. E feroce nella critica lo diviene davvero quando tocca il tasto della deontologia.
Ecco quanto scrive a proposito di americani ed europei. «Esiste una notevole differenza tra il codice professionale dei giornalisti americani e quello dei loro colleghi europei, mentre i primi non esitano, in un'emergenza, a ricorrere alla pura fantasia, i secondi devono andare a caccia di frottole di seconda mano. Credo sia dovuto non tanto ad una mancanza di inventiva quanto piuttosto ad una forma di vigliaccheria. Basta che qualcuno, per irresponsabile e screditato che sia, faccia un'affermazione, perché questa venga considerata una legittima notizia: ma deve esserci una fonte che fino ad ora si è dimostrata attendibile, a cui si possa più tardi dare la colpa».
Del cattivo giornalismo italiano abbiamo qui la fotocopia ambientata in Abissinia. Del cattivo giornalismo realizzato raccogliendo le opinioni nelle piazze o di quello in tv, realizzato mettendo il microfono sotto le labbra di qualche cittadino beccato casualmente sul luogo del misfatto. Ma Waugh, da buon inglese, sta certamente alludendo al servilismo del mondo giornalistico in generale.
Come dargli torto? E così la fattura delle notizie sulla guerra che verrà spedita nei paesi civili diviene una girandola tra i cablogrammi di Fleet Strett, che pensano di giocare la guerra come una partita a scacchi sui tavoli delle redazioni, e tra mal cammuffate spie etiopiche o abissine divenute abilissime nel nutrire l'impazienza e l'avidità credulona. Questa volta non dei selvaggi, bensì dei giornalisti di tutto il mondo.
Evelyn Waugh, "Waugh in Abissinia", Sellerio Editore, Palermo 2002