1. Il disegno di legge n. 1415 presentato dal Governo alla Camera dei deputati il 30 giugno 2008 formula una disciplina fortemente innovativa rispetto ad alcune norme del codice di procedura penale e del codice penale in tema di intercettazioni telefoniche, telematiche e ambientali, di astensione del giudice e di responsabilità amministrativa delle persone giuridiche (con riferimento specifico alle imprese d’informazione).
Il disegno di legge prevede, in particolare, modifiche agli articoli 114 – 115; 261 – 271; 292; 329 e 380 del codice di procedura penale, nonché agli articoli 89 e 129 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale; agli artt. 379 bis, 614 e 684 del codice penale; all’art. 25 del D. Lgs n. 231 del 2001; nonché all’art. 8 della legge sulla stampa (L. 8 febbraio 1948 n. 47) e ad alcuni articoli del c.d. Codice della privacy (d.l. 30 giugno 2003 n. 196), stabilendo rispetto alla disciplina attuale: a) maggiori restrizioni per le intercettazioni telefoniche, telematiche ed ambientali, con riferimento sia alla tipologia dei reati che possono legittimare il ricorso alle intercettazioni sia alle modalità di acquisizione ed impiego di tale tipo di prova; b) maggiori divieti in ordine alla pubblicazione di notizie concernenti le indagini preliminari con un sensibile aggravamento delle pene previste per la violazione di tali divieti; c) l’introduzione di una nuova ipotesi di responsabilità amministrativa a carico delle persone giuridiche titolari dei mezzi di informazione che abbiano dato luogo alla pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale (in violazione dell’art. 684 cod. pen.).
Secondo le finalità enunciate nella relazione di accompagnamento al disegno di legge, lo scopo della nuova disciplina viene individuato nella necessità di “contemperare le esigenze investigative con il diritto alla riservatezza di soggetti estranei alle indagini, e degli stessi indagati, con riferimento al contenuto di conversazioni telefoniche intercettate, di contenuto strettamente personale e assolutamente irrilevante ai fini investigativi”. E questo anche in vista della promozione nel medio-lungo periodo “di un circolo virtuoso tra operatori giudiziari e stampa, tale da garantire la libera espressione della libertà di cronaca senza che ciò si traduca in un’indebita interferenza nella vita privata dei cittadini sottoposti a intercettazione”.
2. L’enunciazione di tali finalità pone giustamente l’accento sul bilanciamento che va operato tra gli interessi di rilevanza costituzionale che entrano normalmente in gioco in tema di impiego delle intercettazioni nel processo penale, interessi connessi: a) alle esigenze di giustizia ed al potere investigativo (che trovano la loro copertura negli artt. 102, 111 e 112 cost.); b) alla tutela del soggetto privato nella sua sfera personale, domiciliare e relazionale (protetta dagli artt. 13, 14 e 15 cost.); c) al “diritto all’informazione” (che trova il suo fondamento nell’art. 21 cost. e che, per quanto concerne l’informazione sui fatti di rilevanza penale, si svolge attraverso la cronaca giudiziaria relativa a questi fatti ed ai processi che ne conseguono).
Anche ad un primo esame, appare evidente che la nuova disciplina si propone con obbiettivo fondamentale di spostare la linea di confine di tale bilanciamento in direzione di una maggiore limitazione del potere investigativo e, conseguentemente, di una maggiore tutela della sfera di riservatezza del soggetto privato. E in questo il disegno appare apprezzabile e condivisibile, tenendo anche conto degli abusi cui negli anni recenti abbiamo spesso assistito su questo terreno.
L’apprezzamento e la condivisione riguardano in particolare, a nostro avviso, l’introduzione di una competenza collegiale nelle decisioni in tema di intercettazioni (in sostituzione dell’attuale competenza monocratica); la previsione di più rigorose garanzie processuali nella difesa del segreto investigativo (come l’istituzione di un archivio riservato delle intercettazioni) e la correlata attenzione per la riservatezza sulle notizie che riguardano persone estranee al processo o che non sono comunque rilevanti per le indagini; il rafforzamento della responsabilità di coloro che risultano investiti di un ruolo nell’acquisizione delle prove e nello svolgimento del processo; le precisazioni introdotte in tema di diritto di rettifica.
3. Serie perplessità in ordine alle nuove norme nascono, invece, quando dal bilanciamento tra l’interesse della giustizia e la tutela della persona si venga a spostare l’attenzione al bilanciamento che, nello stesso progetto, viene operato tra l’interesse di giustizia ed il “diritto all’informazione” sancito nell’art. 21 cost. Su questo terreno alcune delle soluzioni adottate dal disegno di legge sembrano, infatti, confliggere fortemente con principi da tempo affermati in sede giurisprudenziale e dottrinale sul tema del “diritto di cronaca”, così da mettere a rischio la costituzionalità delle soluzioni adottate tanto sotto il profilo della loro irragionevolezza quanto sotto il profilo del loro difetto di proporzionalità tra fini perseguiti e mezzi impiegati.
Questi aspetti di dubbia costituzionalità emergono, a nostro avviso, in particolare con riferimento: a) all’estensione del divieto di pubblicazione (totale o parziale) degli atti delle indagini preliminari anche al contenuto di tali atti, ancorché non coperti dal vincolo del segreto (v. art. 2,comma 1 e 2 e comma 7 del progetto); b) all’introduzione di una responsabilità amministrativa dell’impresa editrice, che tende ad assumere le caratteristiche di una responsabilità oggettiva (art. 14 del progetto). Da qui l’esigenza di una riflessione attenta ai fini della ricerca di soluzioni in grado di superare i possibili rischi di incostituzionalità.
4. Com’è noto, la Corte costituzionale muovendo, nella giurisprudenza più lontana, dal riconoscimento di un “interesse generale” all’informazione come interesse indirettamente protetto dall’art.21 cost. (sent. 105 del 1972 e 94 del 1977) è giunta, nella giurisprudenza più recente, al riconoscimento dell’esistenza di un vero e proprio “diritto all’informazione” caratterizzato da particolare forza in quanto dotato del requisito dell’”inviolabilità” ai sensi dell’art.
2 della Costituzione (v. sent. 153 del 1987). Questa qualità del “diritto all’informazione” è stata dalla Corte giustificata “con riferimento ai valori fondanti della forma di Stato delineato dalla Costituzione, i quali esigono che la nostra democrazia sia basata su una libera opinione pubblica e sia in grado di svilupparsi attraverso la pari concorrenza di tutti alla formazione della volontà generale” (v. sent. 112 del 1993).
Riferito alla sfera specifica della giustizia questo diritto, in tale giurisprudenza, ha assunto un valore funzionale anche rispetto al principio della “pubblicità del giudizio” inteso come “cardine dell’ordinamento democratico fondato sulla sovranità popolare su cui si basa l’amministrazione della giustizia” nonché come “garanzia del controllo della pubblica opinione sullo svolgimento del procedimento” (sentt. 50 del 1989; 69 del 1991; 373 del 1992; 235 del 1993).
Su questo terreno il “diritto all’informazione” viene, quindi, a trovare il suo supporto, oltre che nell’art. 21 cost., in uno dei caratteri fondamentali della funzione giurisdizionale (la pubblicità dei giudizi) desumibile sia dall’art. 101 cost. che dai principi del “giusto processo”.
E se è vero, sempre alla luce dei criteri elaborati dalla giurisprudenza costituzionale – che la “pubblicità dei giudizi” (e, conseguentemente, il “diritto all’informazione” relativo agli stessi) può incontrare limiti nella presenza di contrapposti interessi di rilevanza costituzionale (quali quelli connessi alla tutela dell’ordine pubblico, della sicurezza, del buon costume, della presunzione di innocenza, etc.) è anche vero che gli stessi devono essere in ogni caso individuati in termini non generici, e definiti in forme ragionevoli e proporzionate, così da non paralizzare o rendere particolarmente difficoltoso l’eserciziodi quell’informazione sulle vicende del processo che si realizza attraverso il “diritto di cronaca”.
Se così è, pur senza voler negare la discrezionalità che spetta al legislatore, “nell’individuare la soluzione più idonea a contemperare gli interessi attinenti all’attività istruttoria da un lato all’informazione dall’altro, entrambi aventi rilievo costituzionale” (sentt. N. 18 del 1981 e 373 del 1993), il problema resta pur sempre quello della ricerca del giusto punto di equilibrio tra interessi che devono convivere e contemperarsi senza annullarsi a vicenda. Di conseguenza, salvo i casi limite della segretazione espressa degli atti, il richiamo agli interessi di giustizia e alla tutela della riservatezza, se richiede agli operatori dell’informazione l’impiego di un particolare senso di responsabilità, non può in alcun modo condurre ad oscurare, fino ad annullarlo, il contrapposto interesse alla conoscenza da parte dell’opinione pubblica delle vicende connesse allo svolgimento dei processi.
Da qui il richiamo a quel criterio di ragionevolezza e proporzionalità cui deve inspirarsi il bilanciamento degli interessi nel rapporto tra giustizia e media.
5. Il rischio di incostituzionalità si pone peraltro non solo con riferimento all’art. 21 cost. per lesione del diritto di cronaca, ma anche con riferimento all’art. 117, comma primo, cost., così come modificato con la riforma introdotta dalla legge costituzionale n. 3 del 2001.
Questa riforma, come è noto, ha tra l’altro introdotto nel nostro ordinamento il principio in base al quale si garantisce a livello primario l’osservanza degli obblighi internazionali assunti dallo Stato, imponendo al legislatore di esercitare la potestà legislativa oltre che nel rispetto della Costituzione anche nel rispetto dei “vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”. Se il primato delle norme comunitarie rispetto alle norme nazionali difformi (le quali vanno pertanto disapplicate), era già stato da tempo riconosciuto da una consolidata prassi giurisprudenziale, il significato del nuovo art. 117 Cost. assume oggi rilievo soprattutto per i vincoli derivanti dal diritto internazionale pattizio di cui la Corte costituzionale aveva, in precedenza, sempre escluso la sussunzione nell’ambito di operatività dell’art. 10 Cost. dove
s’impone l’adeguamento automatico dell’ordinamento interno alle norme consuetudinarie derivanti dal diritto internazionale generale.
Tra le norme pattizie che in questa sede interessano spicca la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (CEDU) del 4 novembre 1950 (ratificata con legge 4 agosto 1955 n. 848) , il cui art. 10 riconosce la libertà d’espressione, inclusiva della libertà di opinione e della libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza ingerenza alcuna da
parte delle autorità pubbliche, consentendone la limitazione, purché si tratti di misure necessarie in una società democratica, solo per “la sicurezza nazionale, l’integrità territoriale o l’ordine pubblico, la prevenzione dei disordini e dei reati, la protezione della salute e della moralità, la protezione della reputazione o dei diritti altrui, o per impedire la divulgazione di informazioni confidenziali o per garantire l’autorità e la imparzialità del potere giudiziario”.
Di recente la portata della nuova formulazione dell’art. 117 Cost. rispetto alle norme internazionali pattizie è stata chiarita dalla Corte costituzionale con le sentenze nn. 348 e 349 del 2007, che hanno precisato che, se l’aver colmato la lacuna relativa al valore di queste norme “non significa, beninteso, che si possa attribuire rango costituzionale alle norme contenute in accordi internazionali, oggetto di una legge ordinaria di adattamento, com’è il caso delle norme della CEDU”, “il parametro costituzionale in esame comporta l’obbligo del legislatore ordinario di rispettare dette norme, con la conseguenza che la norma nazionale incompatibile con la norma della CEDU e dunque con gli obblighi internazionali di cui all’art. 117, primo comma, viola per ciò stesso tale parametro costituzionale”.
La Corte ha, quindi, precisato che “con l’art. 117, primo comma, si è realizzato, in definitiva, un rinvio mobile alla norma convenzionale di volta in volta conferente, la quale dà vita e contenuto a quegli obblighi costituzionali genericamente
evocati e, con essi, al parametro, tanto da essere comunemente qualificata “norma interposta”… Ne consegue che al giudice comune spetta interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale, entro i limiti nei quali ciò sia permesso dai testi delle norme. Qualora ciò non sia possibile, ovvero dubiti della compatibilità della norma interna con la disposizione convenzionale ‘interposta’, egli deve investire questa Corte della relativa questione di legittimità costituzionale rispetto al parametro dell’art. 117, primo comma”.
6. Su questo piano può assumere rilievo, anche ai fini del progetto in esame, la sentenza della Corte di Strasburgo del 5 giugno 2007 (Dupuis c/Francia), che ha condannato la Francia per violazione dell’art. 10 della Convenzione europea per aver punito due giornalisti con l’arresto e l’ammenda a seguito della violazione del segreto istruttorio derivante dalla pubblicazione di un libro sul sistema di intercettazioni illegali adottato durante la presidenza Mitterand. In questo caso la Corte dei diritti dell’uomo, nel procedere al bilanciamento tra l’interesse al segreto istruttorio e la tutela del “diritto di cronaca”, ha invocato espressamente alcune disposizioni della raccomandazione n. 13/2003 del Comitato dei ministri della CEDU sui principi concernenti la diffusione delle informazioni attraverso i mezzi di comunicazione in relazione ai procedimenti penali. In particolare, la Corte ha richiamato il principio n. 1
sull’informazione del pubblico attraverso i mezzi di comunicazione (“Lepublic doit pouvoir recevoir des informations sur les actvités judiciaires et des services de police à travers le mèdias. Les journalistes doivent en consèguence pouvoir librement rendre compte de et effectuer des commentaires sur le fonctionnement du système judiciaire pénal, sous réserve des seules limitation prévues en application des principes qui suivent”); il principio n. 2 sulla presunzione di innocenza (“Le respect du principe de la présomption d’innocence fait partie intégrante du droit à un procès équitable. En conséguence, des opinion set des informations concernano le procédures pénales en cours ne devraient étre comuniquées ou diffusées à travers les médias que si cela ne porte pas atteinte à la présomption d’innocence du suspet ou de l’accusé.”) ed il principio n. 6 sulla regolarità delle informazioni durante i procedimenti penali (“Dans le cadre des procédures pénales d’intéret public ou d’autres procédures pénales attirant particulièrement l’attention du public, les autorités judiciaries ed les services de police devraient informer les médias de leurs actes essentiels, sous riserve che cela ne porte pas atteinte au secret de l’instruction ed aux enquétes de police e que cela ne retarde pas o ne géne pas les résultats des procédures. Dans le cas de procédures pénales qui se poursuivent pendant une longue période, l’information devrait ètre fournie régulièrement”.).
I parametri che hanno orientato in questo caso la Corte dei diritti dell’uomo non potranno di riflesso non ispirare anche la Corte costituzionale italiana che, in sede di accertamento dell’eventuale violazione dell’art. 117 Cost. da parte di norme primarie nazionali alla luce delle disposizioni della CEDU, dovrà necessariamente attenersi all’interpretazione adottata dai giudici di Strasburgo.
Se, dunque, la Corte dei diritti dell’uomo ha ritenuto prevalente la tutela recata dall’art. 10 CEDU nel caso di atti coperti da segreto istruttorio – cioè in un caso non dissimile a quello previsto nella formulazione del vigente art. 114 c.p.p. – risulta ben più agevole pervenire ad analoga conclusione ove il caso dovesse riguardare (come accade nell’art. 2 del progetto in esame) fatti non più coperti da segreto.
Anche il riferimento agli “obblighi internazionali” richiamati nel nuovo art. 117 Cost. (e tra questi alle norme della Convenzione europea), concorre, dunque, a mettere in luce l’esigenza del rispetto di un principio di ragionevolezza e proporzionalità nel bilanciamento tra i vari interessi di rango costituzionale che entrano in gioco nella materia in esame: principio che appare, invece, messo a repentaglio dalla radicalità di talune delle soluzioni adottate
dal progetto di cui al d.d.l. n. 1415 Camera.
7. Alla luce di quanto precisato nelle pagine che precedono, non pare difficile individuare i profili della nuova disciplina delle intercettazioni telefoniche, telematiche ed ambientali che rischiano di contraddire principi costituzionali enunciati in materia di diritto ad informare e ad essere informati su vicende processuali penali in corso. Preliminarmente si può rilevare che esiste
sicuramente un interesse pubblico a conoscere le vicende processuali penali. Il processo penale costituisce infatti, di per sé, per le sue caratteristiche e per i suoi molteplici risvolti giuridici, politici e sociali, oggetto di potenziale interesse per l’opinione pubblica. L’interesse ad essere informati diventa d’altronde tanto più marcato quanto più l’indagato, o l’imputato, è persona nota in ragione delle funzioni che esercita, della professione che svolge, della sua posizione in seno alla società.
Allo stesso modo si può affermare che esiste un interesse pubblico al controllo sociale dei processi penali, che presuppone necessariamente una corretta informazione a mezzo della stampa e degli altri strumenti di comunicazione di massa, e che verrebbe inevitabilmente vanificato da un regime giuridico che impedisse di pubblicare qualunque notizia di cronaca giudiziaria. Come abbiamo osservato, l’esistenza di questi due interessi è stata ripetutamente rilevata dalla Corte Costituzionale, che non ha esitato ad inquadrare entrambi nella cornice dei diritti costituzionalmente garantiti, sia pure nei limiti di un equilibrato bilanciamento con altri diritti costituzionali di segno contrapposto.
L’interesse a conoscere, ed eventualmente a controllare, l’andamento dei procedimenti penali non può d’altronde riguardare soltanto la fase dibattimentale pubblica del processo o comunque quella dei riti alternativi liberamente scelti dall’imputato. Riguarda anche quella delle indagini preliminari, poiché, salve le esigenze di segretezza imposte dalla necessità di salvaguardare l’efficacia delle indagini stesse, costituisce comunque un interesse pubblico che la gente sappia se una inchiesta penale procede o non procede, se vi sono intoppi o ritardi nel suo espletamento, quali sono i tipi di reato nei confronti dei quali si indaga, quali e quanti sono gli imputati, etc. e, conoscendo, sia in grado di controllare l’operato della magistratura e di coloro che potrebbero, in qualche modo, interferire sull’attività della stessa. Naturalmente la rivelazione, ed a fortiori la pubblicazione, di notizie concernenti le indagini penali deve essere vietata quando l’atto processuale è ancora coperto da segreto. Ma quando l’esigenza del segreto cade, non c’è ragione perché sia imposto il totale silenzio. Se, nel nome di una tutela particolarmente accentuata degli interessi di giustizia e di riservatezza, si decidesse di oscurare del tutto, annullandolo, il contrapposto interesse alla conoscenza delle vicende processuali da parte dell’opinione pubblica, si rinuncerebbe ad una equilibrata convivenza dei menzionati interessi di segno opposto, cancellando, illegittimamente, uno dei profili tutelati dalla Costituzione. La sproporzione della misura adottata rispetto agli obbiettivi prefissi sarebbe pertanto manifesta. Ebbene, un primo aspetto della progettata riforma della disciplina delle intercettazioni che presenta profili di forte criticità rispetto ai menzionati principi concerne l’estensione del divieto di pubblicare notizie relative a processi in corso al semplice contenuto degli atti delle indagini preliminari, si tratti delle intercettazioni o di qualunque altro atto di indagine.
Tale disciplina è fortemente innovativa rispetto a quella vigente. Oggi è vietato pubblicare, o anche soltanto divulgare, atti e contenuti di atti segreti delle indagini preliminari (art. 114 comma 1 c.p.p.). E’ altresì vietato pubblicare, in tutto o in parte, atti delle indagini preliminari, ancorché non più segreti, fino alla chiusura delle indagini stesse ovvero fino al termine dell’udienza preliminare (art. 114 comma 2 c.p.p.). Non è peraltro vietato divulgare o pubblicare il contenuto di tale atti. Con questa apertura si consente un ragionevole espletamento del diritto di cronaca giudiziario, e pertanto una razionale informazione dell’opinione pubblica, anche con riferimento alla fase delle indagini preliminari. Sebbene non sia consentito pubblicare gli atti non più segreti fino alla fine dell’udienza preliminare o fino al dibattimento, l’opinione pubblica può essere comunque informata sullo svolgimento delle indagini attraverso la pubblicazione del contenuto delle parti delle inchieste che riguardano notizie nei confronti delle quali è caduta l’esigenza di mantenere il segreto investigativo. Secondo la prospettata riforma, come si diceva, il divieto di pubblicazione viene invece esteso anche al semplice contenuto degli atti di indagine. Ciò si ricava dall’art 2 comma 2 del d.d.l. n. 1415, che modifica il comma 2 dell’art. 114 c.p.p. stabilendo appunto che “è vietata la pubblicazione, anche parziale o per riassunto o del relativo contenuto, di atti di indagine preliminare,
nonché di quanto acquisito al fascicolo del pubblico ministero o del difensore,
anche se non sussiste più il segreto, fino a che non siano concluse le indagini
preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare”.
Il rigore di tale disciplina è reso ulteriormente evidente dal comma dell’art
2 del d.d.l. n. 1415 che sostituisce l’odierno comma 7 dell’art. 114 c.p.p.
vietando in ogni caso “la pubblicazione, anche parziale o per riassunto, della
documentazione, degli atti e dei contenuti relativi a conversazioni o a flussi di
comunicazioni informatiche o telematiche di cui sia stata ordinata la distruzione
ai sensi degli artt. 269 e 271 c.p.p.”, e che elimina così la norma attuale che
enuncia una clausola generale di grande importanza per l’esercizio del diritto
di cronaca: e cioè che “è sempre consentita la pubblicazione di atti non coperti dal segreto”.
Questo significa che, se la norma progettata dovesse davvero essere
approvata dal Parlamento, fino al dibattimento, o comunque fino alla chiusura
delle indagini preliminari, non sarà più possibile pubblicare una sola notizia
concernente un procedimento penale in corso, neppure in forma sintetica,
riassuntiva, schematica. Il divieto stabilito dalla norma appare drastico, totale, onnicomprensivo.
Il testo del d.d.l. n. 1415 appare, è vero, non del tutto chiaro sotto un
profilo diverso. La pubblicazione vietata dall’art. 2 comma 2 del d.d.l. n. 1415
concerne specificatamente gli “atti di indagine preliminare”, ma non menziona
altrettanto specificatamente i provvedimenti cautelari adottati dal giudice
sulla base degli atti di indagine depositati dalla Procura della Repubblica a
sostegno della richiesta. L’ordinanza cautelare, o quantomeno il suo contenuto,
a differenza degli atti di indagine è, allora, pubblicabile ?
Ancora: l’art. 9 comma 2 quater del d.d.l. preclude al giudice di riprodurre
per esteso, nelle ordinanze cautelari, il testo di eventuali intercettazioni
di conversazioni e quello di eventuali comunicazioni telefoniche o telematiche,
riconoscendogli la facoltà di richiamare soltanto il loro contenuto. Tale disposizione
tende a circoscrivere ulteriormente la circolazione di notizie concernenti
le intercettazioni, ma non chiarisce se le intercettazioni, citate dal giudice
limitatamente al loro contenuto, possano essere divulgate dai mezzi di
informazione ? Tali contenuti, a fronte di questa situazione, sono o meno, a
loro volta, pubblicabili ?
A nostro sommesso avviso, se la normativa dovesse entrare in vigore così
come risulta attualmente scritta, non sarà comunque difficile, utilizzando gli
strumenti dell’interpretazione logica e sistematica, approdare a una soluzione
di rigore: sarebbe infatti contraddittorio che il legislatore imponesse in linea di
principio il divieto assoluto di pubblicare forma e contenuto degli atti di indagine
ma, legittimando la pubblicazione quantomeno del contenuto dei provvedimenti
cautelari, consentisse indirettamente la pubblicazione del contenuto degli atti.
Ma davvero, allora, questo totale silenzio, imposto in una dimensione
così ampia e senza smagliature, può conciliarsi con i diritti costituzionalmente
garantiti di informazione dell’opinione pubblica e di controllo da parte della
stessa dei processi in corso ai quali abbiamo fatto cenno in precedenza ? I
dubbi sono evidenti, e difficilmente possono svanire facendo riferimento alle
esigenze di tutelare l’inchiesta penale e/o la privatezza delle persone.
Come ha precisato la Corte costituzionale, occorre trovare un giusto
equilibrio fra gli interessi costituzionalmente rilevanti contrapposti. Il diritto
di cronaca giudiziaria non può quindi essere cancellato del tutto, anche soltanto
con riferimento alla fase delle indagini preliminari, nel nome dell’esigenza
di assicurare la massima protezione ad altre istanze di tutela. Farlo, significherebbe
innescare un profilo di evidente sproporzione fra obbiettivo dichiarato
della riforma e strumenti introdotti per assicurare il suo raggiungimento.
Sulla base di queste considerazioni riteniamo che sarebbe opportuno,
quantomeno allo scopo di evitare possibili future censure di illegittimità costi-
tuzionale dovute alla sproporzione fra gli obbiettivi dichiarati nel d.d.l. n.
1415 e le misure adottate per garantire il loro conseguimento, modificare la
disciplina proposta, eliminando l’estensione del divieto alla pubblicazione del
mero contenuto degli atti e riproponendo pertanto, sotto questo aspetto, la
disciplina vigente.
8. Un secondo punto che merita attenzione sotto il profilo del rispetto della libertà di stampa concerne l’introduzione della responsabilità amministrativa dell’impresa editrice prevista dall’art. 14 del d.d.l. n. 1415 con riferimento al reato di pubblicazione arbitraria di cui all’art. 684 c.p., come modificato nel suo contenuto e nelle sue conseguenze sanzionatorie penali dal d.d.l. stesso.
Nell’ipotesi di indebita pubblicazione degli atti di un procedimento
penale viene chiamato a rispondere anche l’editore, a titolo di responsabilità
amministrativa della persona giuridica, con una sanzione pecuniaria, autonoma
rispetto a quelle comminate al direttore o al giornalista, compresa tra un
minimo di 100 e un massimo di 300 quote. Poiché l’importo di ciascuna quota
va da un minimo di 258 euro ad un massimo di 1.550 euro, la sanzione prevista
può oscillare, in relazione alle condizioni economiche e patrimoniali dell’azienda,
da un minimo di 25.800 euro ad un massimo di ben 465.000 euro. Una cifra esorbitante.
Questa previsione determina un impatto rilevante sull’organizzazione
interna delle aziende editoriali. Esse, infatti, dovranno premunirsi contro
eventuali pubblicazioni di materiale vietato prevedendo appositi modelli organizzativi
idonei “a garantire l’attività nel rispetto della legge ed a scoprire ed eliminare tempestivamente situazioni di rischio”; dovranno altresì prevedere un “disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate” (art. 7 D. lesgl. N. 231/2001).
Ma, soprattutto, a causa dell’entità delle sanzioni pecuniarie ipotizzate,
essa rischia di interferire pesantemente, di fatto, sui rapporti fra editore e
direttore del giornale. Oggi, come è noto, al direttore è riconosciuta, nel nome
della libertà di stampa, un’ampia autonomia nella gestione della linea del giornale,
nella determinazione dei suoi indirizzi, nella scelta dei servizi da predisporre
e dei temi da trattare, e via dicendo. Questa autonomia costituisce
parte integrante, fondamentale, della libertà del giornalista, ed è presupposto
indispensabile per l’esercizio del più ampio diritto di manifestare liberamente
il proprio pensiero e le proprie idee nell’esercizio della professione.
Ebbene, la minaccia di sanzioni così elevate rischia di alterare i menzionati
rapporti tra proprietà e direzione, poiché il pericolo di subire sanzioni talmente
elevate da risultare sovente insopportabili per il normale equilibrio
economico dell’azienda editrice, può determinare, di fatto, l’imposizione, o
addirittura la precostituzione, da parte della proprietà, di limitazioni o vincoli
per il direttore tali da indebolire fortemente, se non addirittura annullare, la
sua autonomia nella conduzione del giornale. Altrimenti il “rischio di impresa”
potrebbe diventare eccessivamente elevato e pertanto intollerabile.
Il che costituirebbe doppiamente un male: limiterebbe la libertà dei giornalisti;
innescherebbe pericolose contraddizioni fra la nuova prassi ed il diritto,
che continuerebbe a riconoscere comunque al direttore una autonomia che
gli sarebbe tuttavia negata per ragioni di forza maggiore.
A questo punto ci domandiamo se la volontà di assicurare l’osservanza
del divieto della pubblicazione arbitraria di atti di indagine giustifichi questo
rischiosissimo vulnus dei principi. Poiché ne dubitiamo fortemente, riterremmo
quantomeno prudente, per evitare possibili ulteriori vizi di costituzionalità,
rinunciare alla specifica “escalation sanzionatoria” consistente nella menzionata
previsione di una così stringente responsabilità amministrativa dell’ente.
9. Abbiamo già rilevato che alcuni obiettivi del d.d.l. n. 1415 in tema di protezione della privacy ci paiono apprezzabili e condivisibili, come apprezzabili e condivisibili ci sembrano talune delle innovazioni dirette a garantire una maggiore tutela della sfera di riservatezza dei privati nei confronti dei possibili eccessi della stampa.
In questa prospettiva abbiamo accennato ai profili dell’introduzione di più rigorose garanzie procedurali nella difesa del segreto investigativo e nella correlata attenzione alla protezione delle notizie relative ad atti di indagini (ed in particolare alle intercettazioni) che riguardino persone estranee alle inchieste penali o che non siano comunque rilevanti per il processo; al rafforzamento
della responsabilità di coloro che risultano investiti di un ruolo nell’acquisizione
delle prove e nello svolgimento del processo; alle precisazioni introdotte
in tema di rettifica. Non ci siamo invece occupati, al di là di cenni fugaci, dei
profili concernenti il versante degli effetti della nuova disciplina delle intercettazioni
sul terreno della limitazione del potere investigativo delle Procure della
Repubblica, poiché questo tema esulava dai compiti che ci sono stati specificatamente assegnati.
La nostra analisi ci ha tuttavia condotto a segnalare, al di là degli ambiti di possibile condivisione, due profili che ci sembrano, invece, assolutamente inaccettabili a causa delle conseguenze alle quali conducono sul terreno dell’irragionevole e sproporzionato annullamento dell’esercizio della libertà di stampa e del diritto di cronaca giudiziaria: il divieto assoluto di rivelare contenuti relativi alle indagini preliminari in corso e l’invasività delle sanzioni pecuniarie minacciate alle imprese editrici in caso di pubblicazione arbitraria di atti, anche non segreti, delle inchieste penali. Insistere su questi punti ci sembrerebbe di conseguenza inutile oltre che pericoloso alla luce delle prevedibili questioni di illegittimità costituzionale che non mancherebbero di essere sollevate.
Ci sia consentita, a questo punto, un’ultima riflessione. Il d.d.l. n. 1415
ha aumentato le sanzioni penali nei confronti dei reati di violazione del segreto
investigativo e di pubblicazione arbitraria di atti delle indagini. In particolare,
ai giornalisti sembra minacciata più restrizione della libertà personale, cioè più
pena detentiva in caso di infrazione. Ciò si rinviene con riferimento al nuovo
delitto di “rivelazione illecita di segreti relativi a un procedimento penale”
previsto dall’art. 13 comma 1 lettera a del d.d.l. n. 1415, che eleva la pena stabilita
per la rivelazione dolosa dalla vigente reclusione fino ad anno alla reclusione
da uno a cinque anni, e prevede come reato punito con la reclusione
fino ad un anno la rivelazione colposa. Si rinviene altresì con riferimento alla nuova disciplina della pubblicazione arbitraria prevista dall’art. 13 comma 1 lettera d, che ha trasformato la pena alternativa arresto/ammenda in pena congiunta arresto più ammenda (dall’attuale arresto fino a un mese o ammenda da euro 51 ad euro 248, all’arresto fino a sei mesi ed ammenda da euro 250 a
euro 750), rendendo così obbligatoria, almeno in linea di principio, la condanna alla pena detentiva e precludendo la possibilità di estinguere il reato presentando istanza di oblazione.
Al riguardo ci domandiamo se minacciare il carcere ai giornalisti in caso di infrazione penalmente rilevante costituisca il modo davvero più idoneo ed apprezzabile, anche dal punto di vista dell’immagine, per cercare di contrastare gli abusi della stampa. Francamente ne dubitiamo.
Nella medesima prospettiva ci chiediamo se abbia senso prevedere, come stabilisce l’art. 2 comma 3 del d.d.l. n. 1415, che il Procuratore della Repubblica abbia l’obbligo di informare immediatamente il Consiglio dell’Ordine dei giornalisti per le violazioni del divieto di pubblicazione e che il Consiglio debba pronunciarsi nei successivi trenta giorni, potendo disporre a carico del giornalista “la sospensione cautelare dal servizio o dall’esercizio della professione fino a tre mesi”. Non era forse sufficiente, per assicurare la doverosa trasmissione delle informazioni relative alla commissione del reato, il testo dell’attuale art. 115 comma 2 c.p.p., che si limita a disporre che di “ogni violazione del divieto di pubblicazione commessa dalle persone indicate nel comma 1 il pubblico ministero informa l’organo titolare del potere disciplinare” ?
Questi ultimi sono rilievi che attengono, tuttavia, soltanto al profilo della opportunità dell’innovazione legislativa proposta dal progetto che abbiamo esaminato. I punti più delicati della disciplina enunciata dal d.d.l. n. 1415, perché coinvolgono il profilo della legittimità o dell’illegittimità costituzionale delle nuove norme, sono, si ribadisce, altri. Auspichiamo che nei confronti di questi ultimi il Parlamento manifesti una ragionevole revisione critica, in grado di eliminare ogni possibile vizio di illegittimità.
Firenze – Torino, 23 settembre 2008
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"Ddl Alfano, se lo conosci lo eviti". E’ il titolo del quaderno dell’'Unione nazionale cronisti italiani dedicato al progetto di legge sulle intercettazioni. Tutti i contributi possono essere recuperati con un colpo di mouse. (in: http://www.unionecronisti.it/quaderno/quaderno.html)
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