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APPELLO AL GOVERNO
PERCHE’ APPLICHI
LA “LEGGE BACCHELLI”
PER SAVERIO STRATI.
I MEDIA NAZIONALI IGNORANO
LO SCRITTORE CALABRESE
CHE VIVE A SCANDICCI

Testimonianza di Matteo Cosenza, direttore del “Quotidiano della Calabria”: “Lo scrittore vive in una condizione d’indigenza di cui l’Italia, che ha un grande debito nei suoi confronti, ha il dovere di interessarsi”.

di Romano Pitaro

Una cavalcata di messaggi  e un’impennata di risvegli. Con un limite grave: il ribollio d’interesse per Saverio Strati, il Corrado Alvaro vivente che Enzo Biagi infilava spesso nei suoi affreschi giornalistici, non oltrepassa i confini della Calabria.


Vive da tempo a Scandicci, alle porte di Firenze: 85 anni,  13 grandi romanzi (perlopiù editi da Mondatori, l’ultimo è del 1988: L’uomo in fondo al pozzo) e una moglie svizzera, conosciuta quand’era emigrante. “Una delle voci più autorevoli della narrativa italiana contemporanea”,   l’ha definito il prof. Luigi M. Lombardi Satriani. E il critico letterario Pasquino Crupi di lui ha detto: “Ha saputo immettere nella narrativa italiana la voce  dell’uomo in fuga dalla Calabria, ma anche quella degli sfruttati che non vogliono più servire”.


Nato a Sant’Agata del Bianco in provincia di Reggio Calabra,  a ventuno   anni    smette i panni del muratore e, dopo le lezioni  di Giacomo Debenedetti all’Università di Messina, imbocca il  percorso che lo condurrà al successo  e all’inedia.  La sua prima opera è “La Marchesina” del 1956. Nel 1960 con “Tibi e Tascia” vince  il premio internazionale “Veillon”. I suoi libri sono stati tradotti in Francia, Inghilterra, Germania, Stati Uniti. Oggi, dimenticato dalle case editrici e dalla critica, suo malgrado confessa: “ Con i premi ricevuti e la vendita dei libri avevo risparmiato del danaro che ho usato in questi anni di silenzio e di isolamento. Ora quel denaro è finito, e io, insieme a mia moglie, mi trovo in una grave situazione economica”.


Ha riferito, dopo averlo incontrato,  Matteo Cosenza,  direttore del Quotidiano della Calabria,  che ha pubblicato la richiesta di applicazione della legge Bacchelli per Strati: “Lo scrittore vive in una condizione d’indigenza di cui l’Italia, che ha un grande debito nei suoi confronti,  ha il dovere di interessarsi”.


 S’è mobilitata, fin nelle pieghe più recondite, una regione intera che, come la Sicilia per Sciascia, per Strati, che ha raccontato “I lazzaroni del Sud” (Mondadori,1972),     è stata  una metafora d’amore e odio. A distanza di un mese dalla confessione dello scrittore, la domanda da farsi è: tutto qui? Uno spumeggiante entusiasmo che non si  tramuta in atti concreti? Forse no.  Però, anche se la giostra si fermasse ora, sarebbe una lezione su cui riflettere.  


Intanto,  non si creda che Strati  sia un affare solo calabrese. E’ invece una ferita enorme, che riguarda l’intera Italia.  L’abbandono di Strati è il risvolto di ciò che Gian Enrico Rusconi (L’Unità del 3 febbraio) ha definito “un Paese decaduto e  sfaldato, in preda a un imbarbarimento dei costumi”.        Lo spettacolo mediatico nazionale  ogni giorno tritura migliaia  di notizie. Però di Strati neanche un rigo o un’immagine. Se un uomo della tempra dello scrittore di Sant’Agata del Bianco, è costretto a confessare: “Non ho i soldi per la spesa”,   l’Italia dei grandi giornali e delle tv spazzatura non gli riserva neanche  un box  in terza o uno spazio a tarda sera. 


Badate: neanche un rigo su un foglio nazionale. La moglie di Bonolis è intervistata da riviste patinate,  ma Strati, scrittore da cui non si può prescindere  per capire la narrativa  contemporanea e il meridionalismo,  è ignorato. Morto vivente che cammina. E forse, col suo  fardello di citazioni classiche e di storia vissuta,  infastidisce il  sistema mediatico che per non incepparsi deve ingurgitare tir di  banalità. Di  questo demonio che ha eletto l’istantaneità a proprio ideale supremo e  solletica il peggio della “società inselvatichita” all’insegna dell’ottimismo di maniera,  Benedetto XVI e il cardinale Bagnasco forse  dovrebbero  occuparsi  di più.


Ma se cosi è per i giornali, la tv pubblica nazionale, che non nega una ripresa  neppure  a pluriassassini rei confessi, su Strati avrà fatto chissà quanti servizi,  per  amplificare il suo scoramento  e sensibilizzare  l’opinione pubblica. Macchè!  Su Strati, nel mezzo di un guazzabuglio  di programmi demenziali e senza qualità, messi all’indice persino dalla relazione rassegnata al Parlamento dal  Presidente dell’Autorità di garanzia  per le Comunicazioni, niente di niente.


 Nel suo saggio (La veduta corta, il Mulino),   Tommaso Padoa Schioppa ricorda  che nel novembre del 2008 la regina Elisabetta d’Inghilterra, in visita alla London School of Economics, a proposito del disastro finanziario, chiede: “Perché nessuno se n’è accorto?”  La risposta è, appunto,  lo sguardo corto della società.   Il dantesco “Or chi s’è tu che vuò sedere a scranna/ per giudicar di lungi mille miglia/con la veduta corta di una spanna?”


 Bè, l’indifferenza verso Strati  è il segno di “quella veduta corta” dei nostri giorni. Che affligge come un cancro  anche  i media. Impastati in un nichilismo  che non spinge a  occuparsi  delle cause degli eventi  e li induce ad appiattirsi sull’istante, proprio come si conviene alla “modernità liquida”  descritta mirabilmente  da Zygmunt Bauman.


 Inoltre, un  autore prestigioso come Strati ha il torto di essere calabrese e di non avere santi in quel paradiso dove Fabrizio Corona è un  dio  ai cui piedi s’inchinano le agnostiche folle televisive. Indoviniamo  che c’è un  Paese senza più  memoria,  leggendo le dure  parole di Strati. E che se una regione non conta nel potere politico  che tutto muove (specie nella tv pubblica), anche i suoi figli di talento sono messi all’angolo. 


Del resto un Paese che, nel cataclisma economico   mondiale, per non smarrirsi del tutto  crede per davvero che gl’immigrati siano il male assoluto, come potrebbe occuparsi di Strati e dei suoi libri?   Come potrebbe interessarsi dell’autore del Selvaggio di Santa Venere, il  mostro mediatico che riflette e amplifica  il disorientamento del Paese?


  Ha ragione Aldo Grasso, quando dice che è tutto un autoscatto: i premi mondiali, persino lo Strega (pare si sappia già il nome del prossimo vincitore), ma soprattutto la tv italiana che si parla addosso “e non ama  confrontarsi con le alterità”. 


 Questa è l’andazzo, caro Strati. Dunque,  si rassegni al tempo che viviamo. E ad entrate nel pantheon dei romanzieri,  ma  post mortem.  La Calabria, che avrebbe interesse a valorizzare un protagonista del suo spessore, dato che il suo “non essere” nel circuito dei media che influenzato l’immaginario collettivo, dipende anche dal fatto che non ha  uno scrittore potente  e di successo    che ne racconti le vicissitudini,   è   semplicemente impotente. Non ce la fa a infilarla in uno dei tanti contenitori mediatici nazionali perché, nel cliché imperante, essa può generare solo  delitti, mafie, sfracelli ambientali e ruberie.    


 In un Paese normale, “E’ il nostro turno”  avrebbe dovuto  essere il manifesto di  un’intera generazione di nuovi  politici tenuti  nelle retrovie. O di una generazione conculcata da anziani leader che non mollano neanche se li scotenni: in politica, nel sindacato, nell’imprenditoria e nelle varie Università.  E’ invece  il titolo  di un grande libro di Strati (Mondatori 1975). Di cui gli italiani di questo secolo  non sapranno mai nulla dalle tre reti della Rai, dai giornali più  venduti e  dai   magazine infarciti di pubblicità.  


ALTRE OPERE DI SAVERIO STRATI


La Teda (Mondatori, 1956)


Mani vuote (Mondatori, 1960)


Avventure in città(Mondatori, 1962)


Il nodo (Mondatori, 1965)


Gente in viaggio (Mondatori,1966)


Il Codardo (Bietti, 1970)


Il Selvaggio di Santa Venere (Milano, 1977)


IL Diavolaro (mondatori, 1979)


La conca degli aranci (Mondatori, 1986)





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