Franco Abruzzo ringrazia l’ambasciatore Sergio Romano, che, con straordinaria sensibilità, ha chiesto al presidente dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia di far conoscere ai lettori del “Corriere della Sera” il suo punto di vista sull’argomento trattato dallo stesso Sergio Romano nell’edizione del 30 dicembre 2006 (“Ordini professionali: l’anomalia dei giornalisti”).
Sergio Romano, rispondendo il 30 dicembre 2006 a un lettore nella rubrica del “Corriere della Sera” dedicata alle lettere, non ha perso l’occasione per sferrare un duro attacco agli ordini professionali e in particolare all’Ordine dei giornalisti. Nessuno pensa di censurare le opinioni dell’ex ambasciatore, ma sulle sue omissioni è lecito esprimere riserve e critiche:
1) Il lettore di Firenze scrive: “Una delle maggiori anomalie è rappresentata a mio avviso dall’Ordine dei Giornalisti… Attualmente l’Ordine è minuziosamente regolata dalla legge 3 febbraio 1963 che si compone di ben 75 articoli e che impone vincoli ferrei al libero esercizio della professione. Varrà la pena di ricordare che l’Ordine è un frutto del fascismo. Fu istituito il 26 febbraio 1928, decreto n. 384, in funzione dei fini repressivi che il regime si proponeva….”. Lo storico Romano ha glissato sugli errori ..storici di Vivarelli. Con il regio decreto 384/1928, il Governo Mussolini ha creato l’Albo (non l’Ordine) dei giornalisti, Albo gestito da un comitato di 5 giornalisti operante all’interno dei sindacati regionali fascisti dei giornalisti. L’articolo 7 della legge 2307/1925 –che prefigurava la nascita di un Ordine dei Giornalisti – non è stato mai attuato dal regime, perché, con la nascita delle corporazioni (1926), la rappresentanza delle professioni è stata affidata ai sindacati fascisti. Romano avrebbe potuto precisare che l’Ordine dei Giornalisti è nato nel 1963 su iniziativa di due eminenti personalità della democrazia repubblicana, Aldo Moro e Guido Gonella.
L’Ordine dei giornalisti “impone vincoli ferrei al libero esercizio della professione”? Romano, come giornalista pubblicista, conosce, si presuppone, la legge professionale 69/1963 e in particolare gli articoli 2 e 48 dedicati alla deontologia. Questi i principi che si ricavano da quei due articoli: 1) la libertà di informazione e di critica come diritto insopprimibile dei giornalisti; 2) la tutela della persona umana e il rispetto della verità sostanziale dei fatti principi da intendere come limiti alle libertà di informazione e di critica; 3) l'esercizio delle libertà di informazione e di critica ancorato ai doveri imposti dalla buona fede e dalla lealtà; 4) il dovere di rettificare le notizie inesatte; 5) il dovere di riparare gli eventuali errori; 6) il rispetto del segreto professionale sulla fonte delle notizie, quando ciò sia richiesto dal carattere fiduciario di esse; 7) il dovere di promuovere la fiducia tra la stampa e i lettori; 8) il mantenimento del decoro e della dignità professionali; 9) il rispetto della propria reputazione; 10) il rispetto della dignità dell'Ordine professionale; 11) il dovere di promozione dello spirito di collaborazione tra i colleghi; 12) il dovere di promozione della cooperazione tra giornalisti ed editori. Le "regole" fissate dal legislatore sono il perno dell’autonomia dei giornalisti: l’editore non può impartire al direttore disposizioni in contrasto con la deontologia professionale. Senza legge professionale, direttori e redattori sarebbero degli impiegati di redazione tenuti soltanto all’obbligo di fedeltà verso l’azienda (articolo 2105 del Codice civile).
2) Romano scrive: “Gli Ordini obbediscono inevitabilmente alla logica dell’autoconservazione e del potere….Per ottenere il consenso e l’appoggio dei soci la nomenklatura deve fornire servizi previdenziali, assistenziali, sanitari… L’Ordine dei Giornalisti ha creduto di poter raggiungere questo risultato con due misure molto discutibili: la moltiplicazione dei corsi universitari che fungono da praticantato e l’estensione della qualifica di giornalisti agli addetti stampa”. Anche qui, Romano incorre in molteplici errori: l’Ordine non si occupa di servizi previdenziali, compito questo del sindacato (Fnsi). L’Ordine dei Giornalisti, figlio della Costituzione, con 20 master universitari ha aperto le porte a tutti, togliendo agli editori il potere esclusivo di fare i giornalisti, un potere che dura appunto dal 1928. Tutti hanno il diritto di andare sul mercato e di giocare la loro partita personale.
3) L’ambasciatore Romano ama citare gli Stati Uniti e Jefferson, ma probabilmente dimentica di vivere in Italia, dove gli editori hanno interessi in altri campi (banche, auto, cemento, assicurazioni, costruzioni, etc). Perché Romano non si batte per introdurre una norma antitrust del tipo “chi ha interessi privati in altri settori non può possedere giornali” ?.
Franco Abruzzo
presidente dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia
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L’ambasciatore Sergio Romano
e il “Corriere della Sera”
continuano la campagna di
disinformazione contro
gli Ordini e l’Ordine dei Giornalisti.
Abruzzo: “Senza le regole dell’Ordine,
giornalisti impiegati di redazione.
E’ quello che vogliono gli editori
padroni del Corriere della Sera”.
In coda la risposta
di Sergio Romano
a Roberto Vivarelli
nota di Franco Abruzzo/presidente dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia e vicepresidente del Cup di Milano
Milano, 30 dicembre 2006. Sergio Romano – ambasciatore, storico, articolista politico, giornalista pubblicista e padre di un giornalista professionista – anche oggi, rispondendo a un lettore nella rubrica del “Corriere della Sera” dedicata alle lettere, non ha perso l’occasione per sferrare un duro attacco agli ordini professionali e in particolare all’Ordine dei giornalisti (il titolo è “Ordini professionali: l’anomalia dei giornalisti”). Nessuno pensa di censurare le opinioni dell’eclettico diplomatico, ma sulle sue omissioni (dovute ad ignoranza?) è lecito esprimere riserve e critiche:
1) Il lettore, Roberto Vivarelli di Firenze, scrive: “Una delle maggiore anomalie è rappresentata a mio avviso dall’Ordine dei Giornalisti, una professione che in un Paese libero dovrebbe essere soggetta soltanto al giudizio del pubblico. Attualmente l’Ordine è minuziosamente regolata dalla legge 3 febbraio 1963 che si compone di ben 75 articoli e che impone vincoli ferrei al libero esercizio della professione. Varrà la pena di ricordare che l’Ordine è un frutto del fascismo. Fu istituito il 26 febbraio 1928, decreto n. 384, in funzione dei fini repressivi che il regime si proponeva. Ora i tempi sono cambiati….Mi chiedo…non sarebbe una bella prova di civiltà se dai ranghi stessi dei giornalisti si levassero voci perché la anomalia di questo ordine palesemente illiberale fosse cancellata?”.
Lo storico Romano ha glissato sugli errori ..storici di Vivarelli. Con il regio decreto 384/1928, il Governo Mussolini ha creato l’Albo (non l’Ordine) dei giornalisti, Albo gestito da un comitato di 5 giornalisti operante all’interno dei sindacati regionali fascisti dei giornalisti. L’articolo 7 della legge 2307/1925 –che prefigurava la nascita di un Ordine dei Giornalisti – non è stato mai attuato dal regime, perché, con la nascita delle corporazioni (1926), la rappresentanza delle professioni è stata affidata ai sindacati fascisti. Romano avrebbe potuto precisare che l’Ordine dei Giornalisti è nato nel 1963 su iniziativa di due eminenti personalità della democrazia repubblicana, Aldo Moro e Guido Gonella. Romano avrebbe potuto spiegare al suo lettore che negli Stati Uniti il primo emendamento vieta al Congresso di fare leggi sulla libertà di stampa e, quindi, sui giornalisti. L’Ordine dei giornalisti “impone vincoli ferrei al libero esercizio della professione”? Romano, come giornalista pubblicista, conosce, si presuppone, la legge professionale e in particolare gli articoli 2 e 48 dedicati alla deontologia. Questi i principi che si ricavano dagli articoli 2 e 48 della legge n. 69/1963: 1) la libertà di informazione e di critica (valori che fanno definire il giornalismo informazione critica) come diritto insopprimibile dei giornalisti; 2) la tutela della persona umana e il rispetto della verità sostanziale dei fatti principi da intendere come limiti alle libertà di informazione e di critica; 3) l'esercizio delle libertà di informazione e di critica ancorato ai doveri imposti dalla buona fede e dalla lealtà; 4) il dovere di rettificare le notizie inesatte; 5) il dovere di riparare gli eventuali errori; 6) il rispetto del segreto professionale sulla fonte delle notizie, quando ciò sia richiesto dal carattere fiduciario di esse; 7) il dovere di promuovere la fiducia tra la stampa e i lettori; 8) il mantenimento del decoro e della dignità professionali; 9) il rispetto della propria reputazione; 10) il rispetto della dignità dell'Ordine professionale; 11) il dovere di promozione dello spirito di collaborazione tra i colleghi; 12) il dovere di promozione della cooperazione tra giornalisti ed editori. Premesso che l’esame di Stato per i professionisti è un obbligo costituzionale (art. 33, V comma), le "regole" fissate dal legislatore (artt. 2 e 48 l. 69/1963) sono il perno, come afferma il Contratto di lavoro, dell’autonomia dei giornalisti: l’editore non può impartire al direttore disposizioni in contrasto con la deontologia professionale, mentre il direttore deve garantire l’autonomia del suo collettivo redazionale. Le considerazioni sopra esposte consentono di risalire alle ragioni che hanno spinto il Parlamento nel 1963 a tutelare la professione giornalistica. Senza legge professionale, direttori e redattori sarebbero degli impiegati di redazione vincolati soltanto da un articolo (2105) del Codice civile che riguarda gli obblighi di fedeltà verso l’azienda. Il direttore non sarebbe giuridicamente nelle condizioni di garantire l’autonomia della sua redazione. E’ quello che vogliono gli editori, impegnati da due anni nell’impresa di smontare un contratto di lavoro fortemente deontologico sin dalla prima stesura risalente al 1911. L’ambasciatore Romano con i suoi articoli porta molta acqua al mulino degli editori.
2) L’Ordine palesemente illiberale? Vivarelli può scrivere quel che crede, ma Romano, come storico e giornalista pubblicista, sa che quell’affermazione è una falsità: l’Ordine ha una struttura democratica e ogni tre anni i giornalisti votano e scelgono i loro esponenti.
3) Romano scrive: “Gli Ordini obbediscono inevitabilmente alla logica dell’autoconservazione e del potere….Per ottenere il consenso e l’appoggio dei soci la nomenklatura deve fornire servizi previdenziali, assistenziali, sanitari… L’Ordine dei Giornalisti ha creduto di poter raggiungere questo risultato con due misure molto discutibili: la moltiplicazione dei corsi universitari che fungono da praticantato e l’estensione della qualifica di giornalisti agli addetti stampa”. Anche qui, Romano incorre in molteplici errori: l’Ordine non si occupa di servizi previdenziali, compito questo del sindacato (Fnsi). Romano accusa gli Ordini di essere anacronistici e corporativi. L’Ordine dei Giornalisti, figlio della Costituzione, con 20 master universitari ha aperto le porte a tutti, togliendo agli editori il potere esclusivo di fare i giornalisti, un potere che dura appunto dal 1928. L’Ordine, come ben sa l’ambasciatore, riconosce la pratica svolta anche nei giornali e nelle agenzie di stampa estere (non solo americane). Le regole del mercato valgono per tutte le professioni: nessuno, però, parla dell’eventualità di chiudere le facoltà di medicina o di giurisprudenza, di lettere o di economia. Tutti hanno il diritto di andare sul mercato e di giocare la loro partita personale.
L’ambasciatore sbaglia anche sugli uffici stampa: gli uffici stampa non danno titolo nel senso che negli uffici stampa non si può svolgere il praticantato giornalistico. Il Parlamento, con la legge 150/2000, ha ritenuto che negli uffici stampa pubblici debbano lavorare soltanto i giornalisti. Il Parlamento ha scelto i giornalisti, perché gli stessi sono tenuti al rispetto delle regole deontologiche e perché sono sottoposi alla vigilanza del loro Ordine. Lo stesso discorso vale per i giornalisti, che lavorano negli uffici stampa privati. I giornalisti degli uffici stampa sanno che devono svolgere il loro lavoro ponendosi come fonti credibili. Per i propagandisti – che è un altro mestiere – non c’è futuro nella professione giornalistica.
4) L’ambasciatore Romano ama citare gli Stati Uniti e Jefferson, ma probabilmente dimentica di vivere in Italia, dove gli editori hanno interessi in altri campi (banche, auto, cemento, assicurazioni, costruzioni, etc). "C'è un sistema di poteri, ed è anche ovvio che sia così, che si tutela nei confronti dei new comers. Ad esempio con l'informazione. D'altro canto quando uno deve difendersi e dispone di un bastone che fa? Lo usa": così il vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri Massimo D'Alema, in una intervista a 'Il Sole 24 Ore' (firmata da Alberto Orioli). Alla domanda “Ma i giornali sono giornali, non bastoni. E i giornalisti fanno il loro mestiere ed esercitano autonomia di giudizio”, D’Alema ha replicato con queste parole: "Purtroppo non sempre è così. Quando sono in gioco interessi vitali finisce per pesare l'interesse della proprietà. D'altra parte è inevitabile, visto l'assetto del tutto peculiare dell'editoria italiana. Non esistono editori puri, si possiede un giornale non per cercare di fargli vendere tante copie, ma per avere uno strumento di pressione. Per un certo periodo ho sostenuto che bisognava introdurre una norma antitrust di tipo americano: chi ha interessi privati in altri settori non può possedere giornali. Un'utopia in Italia, dove però continuo a considerare del tutto assurda l'idea che chi ha tv non debba avere giornali. È una cosa che non ha logica". Perché Romano non sposa le idee liberali di D’Alema?
5) Una ultima annotazione: i consiglieri dell’Ordine, come pubblici ufficiali (giudici della disciplina e delle iscrizioni negli Albi), sono tenuti a svolgere il loro “mestiere” con imparzialità e trasparenza. E anche a titolo gratuito e onorifico (come avviene in Lombardia). E ai pubblici ufficiali il Codice penale dedica diversi articoli.
6) Consiglio di leggere con attenzione la sentenza 11/1968 della Corte costituzionale scritta da un grande giurista, Aldo Sandulli, ed attualissima rispetto alla lettera di Vivarelli e al commento di Romano. La Consulta non ha cambiato giammai linea rispetto a quella prima sentenza.
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SENTENZA n. 11/ 1968 della CORTE COSTITUZIONALE
L’Ordine dei Giornalisti è legittimo
perché tutela l’indipendenza degli iscritti
Considerato in diritto
4. - Ciò posto, la Corte osserva che per un'esatta valutazione del fondamento della questione sottoposta al suo esame occorre tener presente che la legge impugnata, realizzando un proposito espresso fin dal 1944 dal legislatore democratico (art. 1 del D.L. Lt. 23 ottobre 1944, n. 302), disciplina l'esercizio professionale giornalistico e non l'uso del giornale come mezzo della libera manifestazione del pensiero: sicché è esatto quanto sostengono sia la difesa dell'Ordine di Sicilia sia l'Avvocatura dello Stato, che essa non tocca il diritto che a "tutti" l'art. 21 della Costituzione riconosce. Questo sarebbe certo violato se solo gli iscritti all'albo fossero legittimati a scrivere sui giornali, ma e' da escludere che una siffatta conseguenza derivi dalla legge. Ne costituisce riprova, oltre l'oggetto stesso del provvedimento, l'esplicita disposizione contenuta nell'art. 35: il quale, in quanto subordina l'iscrizione nell'elenco del pubblicisti alla prova che il soggetto interessato abbia svolto un'"attivita' pubblicistica regolarmente retribuita per almeno due anni", dimostra che la stessa legge considera pienamente lecita anche la collaborazione ai giornali che non sia ne' occasionale ne' gratuita. Senza che ci sia bisogno di affrontare questioni di interpretazione non essenziali per la presente decisione, appare certo che l'art. 35 circoscrive la portata del divieto sancito nell'art. 45, limita l'estensione dell'obbligo di iscrizione all'albo e, in definitiva, conferma che l'appartenenza all'Ordine non e' condizione necessaria per lo svolgimento di un'attivita' giornalistica che non abbia la rigorosa caratteristica della professionalita'.
5. - Questa conclusione, tuttavia, non esaurisce la questione sottoposta alla Corte. L'esperienza dimostra che il giornalismo, se si alimenta anche del contributo di chi ad esso non si dedica professionalmente, vive soprattutto attraverso l'opera quotidiana del professionisti. Alla loro libertà si connette, in un unico destino, la libertà della stampa periodica, che a sua volta è condizione essenziale di quel libero confronto di idee nel quale la democrazia affonda le sue radici vitali. E nessuno può negare che una legge la quale, pur lasciando integro il diritto di tutti di esprimere il proprio pensiero attraverso il giornale, ponesse ostacoli o discriminazioni all'accesso alla professione giornalistica ovvero sottoponesse i professionisti a misure limitative o coercitive della loro libertà, porterebbe un grave e pericoloso attentato all'art. 21 della Costituzione.
Sotto questo secondo profilo della questione, che di certo e' il piu' delicato, la Corte deve in primo luogo accertare se l'istituzione stessa di un Ordine giornalistico e l'obbligatorietà della iscrizione nell'albo non costituiscano di per se' una violazione della sfera di libertà di chi al giornalismo voglia professionalmente dedicarsi.
La Corte ritiene che a tale interrogativo si debba dare una risposta negativa.
Chi tenga presente il complesso mondo della stampa nel quale il giornalista si trova ad operare o consideri che il carattere privato delle imprese editoriali ne condiziona le possibilità di lavoro, non può sottovalutare il rischio al quale è esposto la sua libertà né può negare la necessità di misure e di strumenti a salvaguardarla. Per la decisione della presente questione - alla quale, per quanto si e' detto al n. 3, resta estranea la rilevanza degli ulteriori profili di pubblico interesse (fra i quali quello inerente all'osservanza del canoni della deontologia professionale) soddisfatti dalla legge - e' in vista di tale finalita' che va valutata la funzione che l'Ordine puo' svolgere. Il fatto che il giornalista esplica la sua attività divenendo parte di un rapporto di lavoro subordinato non rivela la superfluità di un apparato che secondo l'avviso della difesa del Longhitano si giustificherebbe solo in presenza di una libera professione, tale il senso tradizionale. Quella circostanza, al contrario, mette in risalto l'opportunità che i giornalisti vengano associati in un organismo che, nei confronti del contrapposto potere economico del datori di lavoro, possa contribuire a garantire il rispetto della loro personalità e, quindi, della loro libertà: compito, questo, che supera di gran lunga la tutela sindacale del diritti della categoria e che perciò può essere assolto solo da un Ordine a struttura democratica che con i suoi poteri di ente pubblico vigili, nei confronti di tutti e nell'interesse della collettività, sulla rigorosa osservanza di quella dignità professionale che si traduce, anzitutto e soprattutto, nel non abdicare mai alla libertà di informazione e di critica e nel non cedere a sollecitazioni che possano comprometterla.
Si deve tuttavia ribadire che questa conclusione positiva è valida solo se le norme che disciplinano l'Ordine assicurino a tutti il diritto di accedervi e non attribuiscano ai suoi organi poteri di tale ampiezza da costituire minaccia alla libertà dei soggetti. E in questa ulteriore direzione va ora rivolta l'indagine affidata alla Corte.
6 - Il divieto posto nell'art. 45, come si e' detto, condiziona all'iscrizione nell'albo il legittimo esercizio della professione giornalistica, ed esso, a causa del disposto contenuto nell'art. 36, si risolve in un divieto assoluto per gli stranieri che siano cittadini di uno Stato che non pratichi il trattamento di reciprocita'. Da cio' scaturisce la necessita' di accertare se esso non sia in contrasto con l'art. 21 della Costituzione che a tutti, e non ai soli cittadini, garantisce il fondamentale diritto di esprimere liberamente e con ogni mezzo il proprio pensiero.
La Corte - anche richiamando quanto esposto al n. 4 - ritiene che, in se considerato, il presupposto del trattamento di reciprocità per l'accesso alla professione giornalistica non sia illegittimamente stabilito, e cio' perche' e' ragionevole che in tanto lo straniero sia ammesso ad un'attivita' lavorativa in quanto al cittadino italiano venga assicurata una pari possibilita' nello Stato al quale il primo appartiene. Questa giustificazione, pero', non puo' estendersi all'ipotesi dello straniero che sia cittadino di uno Stato che non garantisca l'effettivo esercizio delle liberta' democratiche e, quindi, della piu' eminente manifestazione di queste. In tal caso, atteso che ad un regime siffatto puo' essere connaturale l'esclusione del non cittadino dalla professione giornalistica, il presupposto di reciprocita' rischia di tradursi in una grave menomazione della liberta' di quei soggetti ai quali la Costituzione - art. 10, terzo comma - ha voluto offrire asilo politico e che devono poter godere almeno in Italia di tutti quei fondamentali diritti democratici che non siano strettamente inerenti allo status civitatis.
Limitatamente a questa parte, dunque, l'art. 45 deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo.
7. - Passando all'esame delle norme che disciplinano l'accesso all'albo, devono essere presi in considerazione gli artt. 29, 33, 34 e 35 della legge, che formano oggetto dell'impugnativa ritualmente proposta dal pretore di Catania.
Ad avviso della Corte, i dubbi di costituzionalità manifestati dal giudice a quo non appaiono fondati.
L'art. 29 richiede per l'iscrizione nell'elenco del professionisti, fra l'altro, l'iscrizione nel registro del praticanti e l'esercizio della pratica per almeno diciotto mesi: dal combinato disposto di questa norma e degli artt. 33 e 34 discende, secondo il pretore, che l'accesso al registro del praticanti e, mediatamente, all'albo è rimesso alla completa discrezionalità degli editori, del direttori e degli altri giornalisti già iscritti. La Corte osserva che, se è vero che ove il soggetto interessato non trovi un giornale che lo assuma come praticante egli non potrà mai intraprendere la carriera giornalistica, è altrettanto vero che neppure il giornalista iscritto può svolgere la sua attività professionale se non trova un editore disposto ad assumerlo: il che dimostra che ci si trova di fronte a conseguenze che non derivano dalla legge in esame, ma dalla struttura privatistica delle imprese editoriali, nell'ambito della quale la non discriminazione può essere assicurata soltanto dalla concorrenza della molteplicità delle iniziative giornalistiche.
Neppure può dirsi che il secondo comma dell'art. 34, in quanto richiede che lo svolgimento della pratica sia comprovata da una dichiarazione motivata del direttore del giornale, all'arbitrio di questi rimetta la valutazione di un presupposto per l'iscrizione nell'elenco del giornalisti. In effetti, poiché non risulta che l'Ordine abbia il potere di esprimere un giudizio di ammissibilità basato sull'apprezzamento del modo in cui l'interessato ha esercitato la pratica, si deve concludere che la motivazione del direttore deve avere ad oggetto solo gli elementi formali del rapporto (durata, continuita') e non può mai tradursi in un sindacato sul pensiero espresso dal praticante.
Non si vede, infine, in che modo il Consiglio dell'Ordine possa esercitare poteri arbitrari in ordine all'iscrizione nell'albo: chiamato a verificare la sussistenza di elementi tassativamente indicati dalla legge ed a prendere atto del giudizio positivo delle prove di esame predisposte per un accertamento tecnico, il Consiglio non può neppure liberamente valutare la buona condotta (art. 31, secondo comma) del richiedente, ma deve accertarla sulla base di fatti, secondo canoni elaborati in base ad una consolidata tradizione e con l'esclusione di ogni apprezzamento di atteggiamenti che costituiscano estrinsecazione delle libertà garantite dalla Costituzione. Val la pena di aggiungere che la legge impone che i provvedimenti di rigetto della domanda siano motivati (art. 30) e predispone su di essi il controllo giurisdizionale (art. 63), assicurando in tal modo la repressione di ogni abuso.
Del pari non fondata è la questione relativa al primo comma dell'art. 35, impugnato nella parte in cui stabilisce che al fine dell'iscrizione nell'elenco dei pubblicisti il richiedente deve offrire la dimostrazione di aver svolto attività retribuita da almeno due anni. Il timore espresso dal giudice a quo che questa norma consenta un sindacato sulle pubblicazioni non ha ragione di essere, perché la certificazione dei direttori e la esibizione degli scritti sono elementi richiesti solo al fine di consentire che venga accertato se l'attività sia stata esercitata né occasionalmente ne' gratuitamente e per il tempo richiesto dalla legge, e non anche allo scopo di imporre o di permettere una valutazione di merito capace di risolversi, come afferma l'ordinanza, in "una forma larvata di censura ideologica".
8. - Poiché l'ordinanza denunzia che l'obbligatorietà dell'iscrizione nell'albo, sancita dal denunziato art. 45, rimette alla piena "discrezionalità altrui" l'esercizio del diritto riconosciuto dall'art. 21 della Costituzione, con conseguente violazione anche dell'art. 3, la Corte non può sottrarsi al compito di esaminare altre disposizioni della legge che possano incidere sul diritto all'iscrizione nell'albo, e ciò non per esercitare un controllo su norme che, per quanto si é detto al n. 2, non sono state ritualmente impugnate, ma solo per accertare se il loro contenuto sia tale da determinare l'illegittimità dell'art. 45.
Sotto questo profilo ed a questi limitati effetti vengono in esame l'art. 24, che attribuisce al Ministro per la grazia e giustizia l'alta sorveglianza sui Consigli dell'Ordine, e le disposizioni che conferiscono ai Consigli poteri disciplinari che sull'iscrizione all'albo possono incidere in via temporanea (art. 54) o definitiva (art. 55).
La Corte osserva che il potere del Ministro, corollario del pubblico interesse al regolare funzionamento dei Consigli, ha per contenuto i provvedimenti indicati nel secondo e nel terzo comma dello stesso art. 24, sicche' nessuna ingerenza e' consentita all'esecutivo sulla attivita' amministrativa relativa agli iscritti, salva la implicita possibilita' di segnalare fatti che ai sensi dell'art. 48 possano giustificare il promovimento dell'azione disciplinare: nel che non si puo' riscontrare, in verita', nessun rischio di abuso.
La Corte ritiene, del pari, che i poteri disciplinari conferiti ai Consigli non siano tali da compromettere la libertà degli iscritti. Due elementi fondamentali vanno tenuti ben presenti: la struttura democratica del Consigli, che di per se' rappresenta una garanzia istituzionale non certo assicurata dalla legge precedentemente in vigore (D.L. Lt. 23 ottobre 1944, n. 302), in base alla quale la tenuta degli albi e la disciplina degli iscritti sono state affidate per circa venti anni ad un organo di nomina governativa; e la possibilità del ricorso al Consiglio nazionale ed il successivo esperimento dell'azione giudiziaria nei vari gradi di giurisdizione. L'uno e l'altro concorrono sicuramente ad impedire che l'iscritto sia colpito da provvedimenti arbitrari. Essi, tuttavia, non sarebbero sufficienti a raggiungere tale scopo, se la legge stessa prevedesse, sia pure implicitamente, una responsabilità del giornalista a causa del contenuto dei suoi scritti e ammettesse una corrispondente possibilità di sanzione, perché in tal caso la libertà riconosciuta dall'art. 21 sarebbe messa in pericolo e l'art. 45 - norma di chiusura dell'intero ordinamento giornalistico - risulterebbe illegittimo. Ma la legge non consente affatto una qualsiasi forma di sindacato di tale natura. Se la definizione degli illeciti disciplinari, come è inevitabile, non si articola in una previsione di fattispecie tipiche, bisogna pur considerare che la materia trova un preciso limite nel principio fondamentale enunciato dalla stessa legge nell'art. 2. Se la libertà di informazione e di critica è insopprimibile, bisogna convenire che quel precetto, più che il contenuto di un semplice diritto, descrive la funzione stessa del libero giornalista: è il venir meno ad essa, giammai l'esercitarla che può compromettere quel decoro e quella dignità sui quali l'Ordine è chiamato a vigilare.
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Corriere della Sera, 30 dicembre 2006
Lettere al Corriere
RISPONDE SERGIO ROMANO
Ordini professionali: l'anomalia dei giornalisti
Qualche tempo fa lei intervenne sul Corriere per denunciare il carattere
anacronistico degli ordini professionali, come sono attualmente ordinati, cioè a
difesa del privilegio e ostacolo al merito. E poiché il problema è ancora aperto
e attende una risposta in sede politica, credo che meriti qualche
considerazione. Naturalmente la questione non è quella della esistenza di un
ordine professionale di per sé. La questione sta nel fatto che da noi non si
tratta, come in ogni Paese civile, di libere associazioni private, bensì di vere
e proprie corporazioni imposte e regolate da una legge. Anche negli Stati Uniti,
ad esempio, esistono in ogni Stato le Bar Associations, ma non si ha l' obbligo
di appartenervi per esercitare legittimamente la professione legale una volta
che ne siano accertati i titoli. Una delle maggiori anomalie è rappresentata a
mio avviso dall' Ordine dei giornalisti, una professione che in un Paese libero
dovrebbe essere soggetta soltanto al giudizio del pubblico. Attualmente l'
Ordine è minuziosamente regolato dalla legge 3 febbraio 1963 che si compone di
ben 75 articoli e che impone vincoli ferrei al libero esercizio della
professione. Varrà la pena di ricordare che l' Ordine è un frutto del fascismo.
Fu istituito il 26 febbraio 1928, decreto n. 384, in funzione dei fini
repressivi che il regime si proponeva. Ora i tempi sono cambiati e a parole non
si perde occasione per esaltare la libertà, ma evidentemente la tentazione del
privilegio continua a prevalere. Mi chiedo, e chiedo a lei, non sarebbe una
bella prova di civiltà se dai ranghi stessi dei giornalisti si levassero voci
perché la anomalia di questo ordine palesemente illiberale fosse cancellata?
Roberto Vivarelli/Firenze
Caro Vivarelli, qualche giorno dopo l' articolo del Corriere a cui lei si riferisce,
ricevetti la lettera di un giovane notaio con cui ebbi più tardi una
conversazione. Mi disse che il suo Ordine garantiva la serietà e la preparazione
professionale dei membri, che gli esami erano severi, che le tariffe erano molto
ragionevoli, che la liberalizzazione avrebbe provocato un effetto «forbice»:
servizi mediocri a prezzi stracciati e servizi di qualità a prezzi più alti di
quelli praticati ora. Anche un difensore dell' Ordine dei giornalisti potrebbe
sostenere che l' istituzione garantisce con l' esame di ammissione e i corsi
universitari la competenza professionale, punisce la violazione dei principi
deontologici, mette la categoria in condizione di meglio resistere alle
interferenze esterne. Questi argomenti non sono privi di una certa validità, ed
è probabile che la soppressione degli Ordini, se mai qualche governo ne avrà il
coraggio, creerebbe, soprattutto nella fase iniziale, un certo numero di
inconvenienti. Ma continuo a pensare che gli Ordini rappresentino una
istituzione anacronistica e che i vantaggi della loro soppressione siano
maggiori degli inconvenienti. Ecco, con particolare riferimento all' Ordine dei
giornalisti, le mie ragioni.
Non credo che i problemi di deontologia professionale debbano essere lasciati
ai soci del club. Vi sono Paesi in cui il problema è stato risolto con la
creazione di commissioni o collegi formati da rappresentanti della professione,
rappresentanti dei consumatori, magistrati, avvocati, boniviri di diversa
estrazione. L' idea che ogni persona debba essere giudicata dai suoi pari
prefigura un possibile conflitto di interessi ed è feudale, cioè tipica di una
società costituita da poteri autonomi, autogestiti e autoreferenziali. Gli
Ordini obbediscono inevitabilmente alla logica dell' autoconservazione e del
potere. Come ogni altro organismo associativo (penso ai sindacati) producono una
nomenklatura dirigente con il suo inevitabile complemento di ambizioni
personali, partiti, programmi elettorali. Per ottenere il consenso e l' appoggio
dei soci la nomenklatura deve fornire servizi previdenziali, assistenziali,
sanitari. Per finanziare questi servizi deve poter contare su un certo numero di
soci, ma conservare al tempo stesso il principio della cooptazione. L' Ordine
dei giornalisti ha creduto di potere raggiungere questo risultato con due misure
molto discutibili: la moltiplicazione dei corsi universitari che fungono da
praticantato (il tirocinio che precede l' ingresso nella professione) e l'
estensione della qualifica di giornalista agli addetti stampa. I corsi
universitari, soprattutto in un Paese dove gli sbarramenti all' accesso sono
piuttosto bassi, producono un numero di aspettative che non ha alcun rapporto
con le esigenze del mercato e finiscono per creare, soprattutto nelle fasi di
mutamento e transizione, molto precariato. Gli addetti stampa non sono e non
possono essere giornalisti. Il portavoce di un' azienda è un avvocato difensore,
tenuto dal suo impegno professionale, a esaltare i meriti dell' azienda, della
istituzione o della persona per cui lavora, nascondendone per quanto possibile i
difetti. Non so davvero come l' Ordine possa conciliare la sua funzione di
garante della deontologia con il desiderio di allargare agli addetti stampa la
cerchia dei soci. Aggiunga a tutto questo, caro Vivarelli, che il giornalismo
vive di libertà ed è, come sosteneva Thomas Jefferson, l' indispensabile
pilastro di un sistema politico liberale. Gli Ordini professionali tendono a
creare lealtà e solidarietà che possono entrare in rotta di collisione con il
principio della libertà.
Sergio Romano