Nota di Franco Abruzzo/presidente dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia
Roma, 28 dicembre 2006. “Il Governo, ha deciso di promuovere una riforma organica del settore dell’editoria e, con la Legge Finanziaria, ha formalmente assunto l’impegno di presentare entro i prossimi sei mesi un apposito disegno di legge. Con l’aiuto di un gruppo di esperti presieduto dal primo presidente dell’Autorità garante delle telecomunicazioni, Enzo Cheli, è stato elaborato un indice ed un questionario riguardanti tutti i temi sui quali dovrà intervenire la riforma che viene ora sottoposto all’attenzione delle associazioni rappresentative del mondo dell’editoria e dei soggetti interessati e pubblicato sul sito internet del Governo (www.governo.it). Vogliamo che gli operatori del settore, associazioni ma anche singoli cittadini siano attivamente coinvolti nella partecipazione a tale progetto, rispondendo al nostro questionario ed eventualmente arricchendolo con le loro indicazioni. Il termine per la risposta da indirizzare alla casella di posta elettronica scdie@palazzochigi.it è fissato al 20 gennaio 2007”. Fin qui il comunicato diramato ieri da Palazzo Chigi. Questo comunicato nasconde una polpetta avvelenata nella parte apparentemente innocua del documento (il “questionario della riforma dell’editoria”). Il punto 6, dedicato ai Codici deontologici, recita così: “Quali sono i vantaggi, ovvero, svantaggi che potrebbero prevedersi adottando un Codice deontologico generale, applicabile anche all’editoria on-line e fatto proprio dall’Autorità garante per le comunicazioni, che in mancanza di proposta dell’Ordine lo adotterebbe motu proprio, e che sarebbe competente a sanzionarne le violazioni, secondo la disciplina già prevista per il trattamento dei dati personali? “.
Diciamo subito che Enzo Cheli è un eminente giurista, già giudice costituzionale e presidente dell’Agcom, autore di svariati trattati di diritto costituzionale. Cheli appartiene a quella scuola fiorentina, che, fondata da Piero Calamandrei e Paolo Barile, studia da oltre 50 anni il mondo della televisione e del giornalismo, e che è nota per le sue critiche (legittime) all’esistenza dell’Ordine dei Giornalisti. Di questa scuola prestigiosa fanno parte a buon titolo lo stesso Cheli, Ugo De Siervo (giudice costituzionale) e Roberto Zaccaria (oggi parlamentare dell’Ulivo, docente universitario e già presidente della Rai).
Non sorprende, quindi, il quesito appena citato. E’ figlio di una visione “fiorentina” e che incautamente vuole mettere sotto schiaffo i giornalisti, affidando deontologia e sanzioni disciplinari all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom), i cui 9 membri sono nominati secondo questo schema: 4 dal Senato, 4 dalla Camera, mentre il presidente “è nominato con decreto del Presidente della Repubblica su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri d'intesa con il Ministro delle comunicazioni” In nessun caso la nomina può “essere effettuate in mancanza del parere favorevole espresso dalle Commissioni parlamentari a maggioranza dei due terzi dei componenti”. Il presidente, quindi, deve essere una personalità di altissimo profilo, capace di calamitare il consenso della maggioranza e dell’opposizione. L’Agcom è un organismo di estrazione politica, autorità indipendente che riferisce al Parlamento. Anzi è l’occhio del Parlamento sul mondo dei media.
E’ corretto chiedere “quali sono i vantaggi, ovvero, svantaggi che potrebbero prevedersi adottando un Codice deontologico generale, applicabile anche all’editoria on-line e fatto proprio dall’Autorità garante per le comunicazioni, che in mancanza di proposta dell’Ordine lo adotterebbe motu proprio, e che sarebbe competente a sanzionarne le violazioni, secondo la disciplina già prevista per il trattamento dei dati personali?”. Con questa domanda viene sconvolto l’ordinamento attuale, che affida ai Consigli dell’Ordine dei giornalisti la missione di “contribuire a garantire il rispetto della personalità dei giornalisti e, quindi, della loro libertà: compito, questo, che supera di gran lunga la tutela sindacale del diritti della categoria e che perciò può essere assolto solo da un Ordine a struttura democratica che con i suoi poteri di ente pubblico vigili, nei confronti di tutti e nell'interesse della collettività, sulla rigorosa osservanza di quella dignità professionale che si traduce, anzitutto e soprattutto, nel non abdicare mai alla libertà di informazione e di critica e nel non cedere a sollecitazioni che possano comprometterla” (sentenza 11/1968 della Corte costituzionale firmata da Aldo Sandulli). Nel caso specifico le "regole" fissate dal legislatore (artt. 2 e 48 l. 69/1963) sono il perno, come afferma il contratto di lavoro, dell’autonomia dei giornalisti: l’editore non può impartire al direttore disposizioni in contrasto con la deontologia professionale, mentre il direttore deve garantire l’autonomia del suo collettivo redazionale.. La risposta, quindi, è ovviamente positiva: sono evidenti i vantaggi collegati alla stesura di un “Codice deontologico generale”. La deontologia è il cuore di ogni professione. Quel “Codice generale”, però, è già scritto nella legge professionale citata; nella legge sulla stampa (che, con l’articolo 15, proibisce la pubblicazione di foto raccapriccianti o impressionanti); nelle leggi sulla privacy (675/1996 e 196/2003) che hanno partorito “Il Codice deontologico relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica”; nell’articolo 114 (comma 6) del Cpp e nell’articolo 13 del Dpr 448/1988 sul processo penale minorile (assorbito nell’articolo 50 del dlgs 196/2003), che bloccano anche le notizie indirette tali da determinare l’identificazione del minore: un reticolo di norme arricchito dalla legge 27 maggio 1991 n. 176 (Convenzione Onu 1989 sui diritti del bambino); nella nuova “Carta di Treviso” scritta di comune accordo tra Ordine nazionale e Garante della Privacy (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 13 novembre 2006); nella “Carta dei doveri del giornalista” (firmata dall’Ordine e dalla Fnsi l’8 luglio 1993).
Eppure quel punto 6 del questionario è figlio di una cultura del sospetto, quando afferma grosso modo “che in mancanza di proposta dell’Ordine l’Autorità garante per le comunicazioni adotterebbe motu proprio il Codice deontologico generale, applicabile anche all’editoria on-line. L’Autorità garante per le comunicazioni sarebbe competente a sanzionarne le violazioni, secondo la disciplina già prevista per il trattamento dei dati personali”. Perché l’Ordine nazionale non dovrebbe proporre un testo di “Codice generale”, avendo già scritto egregiamente il Codice della privacy, la nuova Carta di Treviso, la Carta dei doveri del giornalista, la Carta Informazione e Pubblicità, la Carta Informazione e Sondaggi, la Carta dei Doveri dell'Informazione economica? Il giudice delle regole è soltanto l’Ordine professionale anche rispetto al Codice della privacy. Cheli è incorso in uno svarione, quando attribuisce al Garante della privacy funzioni di giudice dei giornalisti. Il giudice della privacy, invece, per i giornalisti, è soltanto l’Ordine professionale (art. 13, punto 2, del Codice di deontologia relativo al trattamento dei dati personali nell'esercizio dell'attività giornalistica).
Le considerazioni sopra esposte consentono di risalire alle ragioni che hanno spinto il Parlamento nel 1963 a tutelare la professione giornalistica. Senza legge professionale, direttori e redattori sarebbero degli impiegati di redazione vincolati soltanto da un articolo (2105) del Codice civile che riguarda gli obblighi di fedeltà verso l’azienda. Il direttore non sarebbe giuridicamente nelle condizioni di garantire l’autonomia della sua redazione. E’ quello che vogliono gli editori, impegnati da due anni nell’impresa di smontare un contratto di lavoro fortemente deontologico sin dalla prima stesura risalente al 1911.
Non ci siamo. Il potere politico, tramite la Commissione Cheli, cerca di mettere sotto schiaffo i giornalisti, mentre gli editori completano il lavoro, negando il contratto. Cheli farebbe bene a compiere una precipitosa marcia indietro e a prendere atto che il Parlamento, con le leggi sulla privacy e sulla comunicazione pubblica (150/2000), ha rafforzato notevolmente l’Ordine dei giornalisti, mentre l’articolo 2 del dlgs 70/2003 definisce «professione regolamentata» quella professione riconosciuta ai sensi dell'articolo 2 del decreto legislativo 27 gennaio 1992 n. 115 (Attuazione della direttiva 89/48/CEE) ovvero ai sensi dell'articolo 2 del decreto legislativo 2 maggio 1994 n. 319 (Attuazione della direttiva 92/51/CEE relativa ad un secondo sistema generale di riconoscimento della formazione professionale che integra la direttiva 89/48/CEE). Il dlgs 70/2003, il dlgs 319/1994 e il dlgs 277/2003 “europeizzano” la professione italiana di giornalista.
Soltanto nel 2003, con il dlgs 277 citato, la Repubblica italiana ha compiuto un atto di riparazione parziale, modificando la tabella delle professioni (allegato C) inclusa nel dlgs 319/1994 (che ingloba la direttiva 92/51/CEE). Oggi, infatti, la professione di giornalista rientra tra quelle caratterizzate dal possesso del diploma (e non dalla laurea) riconosciute come tali dal dlgs 2 maggio 1994 n. 319, che ha dato “attuazione alla direttiva 92/51/CEE relativa ad un secondo sistema generale di riconoscimento della formazione professionale che integra la direttiva 89/48/CEE”. Il dlgs 8 luglio 2003 n. 277 ha dato, invece, attuazione della direttiva 2001/19/CE, che modifica le direttive del Consiglio relative al sistema generale di riconoscimento delle qualifiche professionali. L’allegato II (di cui all'art. 2, comma 1, lettera l) del dlgs 277/2003 cita espressamente la professione di giornalista come vigilata dal Ministero della Giustizia. L’allegato II del dlgs 277/2003 ha anche sostituito, come riferito, l’allegato C del dlgs 319/1994. I dlgs 277/2003 e 319/1994 in sostanza dicono, con l’allegato II (ex allegato C), che la professione giornalistica (italiana), organizzata (ex legge 69/1963) con l’Ordine e l’Albo (in base all’art. 2229 Cc) e costituzionalmente legittima (sentenze 11 e 98/1968, 2/1971, 71/1991, 505/1995 e 38/1997 della Consulta), ha oggi sì il riconoscimento dell’Unione europea, ma a un livello inferiore rispetto a quelle comprese nell’allegato A del Dlgs 115/1992 caratterizzate dalla laurea. Con la “riforma Mastella”, questo gap dovrebbe essere superato, prevedendo la laurea come titolo obbligatorio per l’accesso al praticantato giornalistico (nel rispetto del comma 18 dell’articolo 1 della legge 4/1999).