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  Dispensa telematica per l’esame di giornalista
Stampa

Il Consiglio dell’Ordine
“giudice disciplinare”
fissato per legge
(e riconosciuto come
tale dalla Corte
costituzionale con
la sentenza 505/1995)

nota di Franco Abruzzo


L’articolo 2229 del Codice civile demanda agli Ordini professionali l’esercizio del potere disciplinare sugli iscritti. Anche per i giornalisti vale questo principio: in primo grado (e “in via amministrativa”) decidono i Consigli regionali e in secondo grado il Consiglio nazionale. Le deliberazioni sono esecutive. Poi la parola passa al Tribunale della città dove ha sede l’Ordine regionale, quindi alla Corte d’Appello, infine alla Corte di Cassazione. La Corte di Cassazione, suprema in punto di diritto, assicura quindi la uniformità dell’interpretazione anche delle norme racchiuse nella legge n. 69/1963 sull’ordinamento della professione giornalistica. Le due fasi (amministrativa e giurisdizionale), in tutto cinque giudizi, si devono concludere in sette anni e sei mesi (così ha deciso la prima sezione civile della Cassazione con la sentenza n. 10135 del 30 aprile-14 ottobre 1998). Qualche volta gli articoli di questa legge (oggetto di un referendum abortito nel giugno 1997) sono finiti all’attenzione della Corte costituzionale. Alcuni giudici di merito dubitavano della legittimità di taluni “passaggi” della legge. La Consulta ha superato le critiche di illegittimità affermando nella sentenza n. 11/1968: “Il fatto che il giornalista esplichi la sua attività divenendo parte di un rapporto di lavoro subordinato non rivela  la superfluità di un apparato che,  secondo altri, si giustificherebbe solo in presenza di una libera professione, tale in senso tradizionale. Quella circostanza, al contrario, mette in risalto l'opportunità che i giornalisti vengano associati in un organismo,  che, nei confronti del contrapposto  potere economico dei datori di lavoro, possa contribuire a garantire il rispetto della loro personalità e, quindi, della loro libertà: compito, questo, che supera di gran lunga la tutela sindacale dei diritti della categoria e che perciò può essere assolto solo da un Ordine a struttura democratica che con i suoi poteri di ente pubblico vigili, nei confronti di tutti e nell'interesse della collettività, sulla rigorosa osservanza di quella dignità professionale che si traduce, anzitutto e soprattutto, nel non abdicare mai alla libertà di informazione e di critica e nel non cedere a sollecitazioni che possano comprometterla”.


E con la stessa sentenza n. 11/1968 della Corte costituzionale ha superato anche le censure al potere disciplinare esercitato dall’Ordine dei giornalisti: (1) - norma di chiusura dell'intero ordinamento giornalistico - risulterebbe illegittimo. Ma la legge non consente affatto una qualsiasi forma di sindacato di tale natura. Se la definizione degli illeciti disciplinari, com'è inevitabile, non si articola in una previsione di fattispecie tipiche, bisogna pur considerare che la materia trova un preciso limite nel principio fondamentale enunciato dalla stessa legge nell'art. 2. Se la libertà di informazione e di critica è insopprimibile, bisogna convenire che quel precetto, più che il contenuto di un semplice diritto, descrive la funzione stessa del libero giornalista: è il venire meno ad essa, giammai l'esercitarla, che può compromettere quel decoro e quella dignità sui quali l'Ordine è chiamato a vigilare>.


La Consulta ha fatto ancora di più con la sentenza n. 505/1995, quando ha trasformato i Consigli dell’Ordine dei giornalisti in veri e propri giudici amministrativi (con tutti i risvolti legati al rispetto delle procedure fissate dalla legge professionale n. 69/1963, dalla legge n. 241/1990 sulla trasparenza amministrativa e dal Codice di procedura civile). La Corte costituzionale, infatti, in questa occasione, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità dell’articolo 56, secondo comma, della legge n. 69/1963, ma “interpretando la norma impugnata nel senso che, ove il Consiglio regionale dell’Ordine si limiti a preliminari, “sommarie informazioni”, devono ritenersi sufficienti la comunicazione dell’inizio del procedimento e l’invito all’interessato a “comparire”. Ma quando l’istruttoria prosegua in quella sede per l’accertamento dei “fatti” attraverso la raccolta di prove, la norma, pur non prevedendo la presenza dell’interessato o del suo difensore nel momento dell’assunzione delle prove a carico, contempla tuttavia per l’”incolpato” forme di contraddittorio e di difesa, stabilendo che i fatti gli siano specificamente “addebitati” e riconoscendo all’incolpato stesso un congruo termine, non solo per essere sentito, ma soprattutto per provvedere alla sua “discolpa” come previsto dalla norma impugnata. Affinché tale facoltà possa efficacemente realizzarsi è necessario sul piano logico-giuridico che essa comprenda la confutabilità delle prove su cui si fondano i pretesi illeciti, previa possibilità di visione dei verbali e di utilizzo di ogni strumento di difesa, non solo attraverso memorie illustrative ma anche con la presentazione di nuovi documenti o con la deduzione di altre prove (compresa la richiesta di risentire testimoni su fatti e circostanze specifiche rilevanti ed attinenti alle contestazioni), che non possono considerarsi precluse.


L’organo disciplinare sarà tenuto a pronunciarsi motivando sulle richieste probatorie, in modo da rendere possibile, nella successiva eventuale fase di tutela giurisdizionale, una verifica sulla completezza e sufficienza della istruttoria disciplinare e sul rispetto dei principi in materia di partecipazione e difesa dell’incolpato.


Queste garanzie rispondono ad esigenze minime di ragionevolezza, sia per la gravità delle conseguenze personali che le sanzioni disciplinari, ma anche la sola pendenza del procedimento, determinano - già dalla prima fase della procedura - sui diritti del giornalista, sia per l’interesse pubblico alla completezza della istruttoria, alla correttezza ed imparzialità del procedimento amministrativo disciplinare......”


La legge sulla privacy (dlgs 196/2003) e il relativo Codice accentuano espressamente il ruolo di "giudice disciplinare" dei Consigli regionali e del Consiglio nazionale dell’Ordine. “Il Codice deontologico relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica” (meglio noto come Codice deontologico sulla privacy), pubblicato il 3 agosto 1998 nella “Gazzetta Ufficiale”, oggi è l’Allegato A del Dlgs n. 196/2003 o Testo unico sulla privacy (che ne parla all’articolo 139). Le violazioni del Codice sono sanzionate, per quanto riguarda i giornalisti, soltanto in via disciplinare .I Consigli dell’Ordine sono già “giudici disciplinari” in base all’articolo 115 (comma 2) del Cpp nei casi in cui i giornalisti violano il divieto posto dall’articolo 114 (comma 6) del Cpp, pubblicando le generalità e le immagini dei minorenni .


La legge istitutiva dell’Ordine dei Giornalisti con le sue regole etiche e la legge sulla privacy con il connesso Codice di deontologia - con le garanzie accordate da entrambe al segreto professionale - formano un sistema inscindibile, che, nel garantire la libertà di critica e di informazione, concretizza, tutelandone l'attuazione, il principio sancito dall'articolo 21 della Costituzione.


Diritti e doveri del giornalista - Sono fissati nell’articolo 2 della legge n. 69/1963: “E’ diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà d’informazione e di critica, limitata dall’osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui ed è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede. Devono essere rettificate le notizie che risultino inesatte, e riparati gli eventuali errori. Giornalisti e editori sono tenuti a rispettare il segreto professionale sulla fonte delle notizie, quando ciò sia richiesto dal carattere fiduciario di esse, e a promuovere lo spirito di collaborazione tra colleghi, la cooperazione fra giornalisti e editori, e la fiducia tra la stampa e i lettori”. La Cassazione (Cass. civile, 9 luglio 1991, n. 7543, Mass. 1991) ha riconosciuto agli Ordini il potere di “fissare norme interne, individuatrici di comportamenti contrari al decoro professionale, ancorché non integranti abusi o mancanze, configura legittimo esercizio dei poteri affidati agli Ordini professionali, con la consequenziale irrogabilità, in caso di inosservanza, di sanzione disciplinare”. La Carte di Treviso sui minori (2006) e la Carta dei doveri (varata dalla Fnsi e dal Cnog nel 1993) hanno piena cittadinanza, quindi, nell’ordinamento professionale.


Procedimento disciplinare - L’apertura è prevista dall’articolo 48 della legge n. 69/1963: “Gli iscritti nell’Albo, negli elenchi o nel registro che si rendano colpevoli di fatti non conformi al decoro e alla dignità professionale, o di fatti che compromettano la propria reputazione o la dignità dell’Ordine, sono sottoposti a procedimento disciplinare. Il procedimento disciplinare è iniziato d’ufficio dal Consiglio regionale o interregionale, o anche su richiesta del procuratore generale competente ai sensi dell’articolo 44”. Il potere riconosciuto al Pg di “impulso” significa solo che c’è un interesse pubblico affinché la professione giornalistica si svolga in termini corretti.


Sanzioni disciplinari - Sono fissate nell’articolo 51 della legge n. 69/1963. Le sanzioni disciplinari sono pronunciate con decisione motivata dal Consiglio, previa audizione dell’incolpato. Esse sono: a) l’avvertimento; b) la censura; c) la sospensione dall’esercizio della professione per un periodo non inferiore a due mesi e non superiore ad un anno; d) la radiazione dall’Albo.





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