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INTERNET. Giudice Oscar Magi:
sul web non può essere
tutto permesso. Depositata
la sentenza di condanna
dei dirigenti di GOOGLE
con le motivazioni (111 pagine).
GOOGLE: CONDANNA È ATTACCO A PRINCIPI DELLA RETE.

Ma l’Europa dissente. In coda analisi
di Franco Abruzzo (per “Beltel” del marzo 2010)

Milano, 12 aprile 2010.  Non può esistere «la sconfinata prateria di internet dove tutto è permesso e niente può essere vietato»: lo scrive il giudice di Milano, Oscar Magi, nelle motivazioni della sentenza di condanna di tre dirigenti di Google, per violazione della privacy, in relazione ad un filmato che riprendeva un minore disabile insultato in una classe. Filmato che venne caricato sul famoso motore di ricerca. Il giudice, nelle 111 pagine di motivazioni, spiega che «esistono, invece, leggi che codificano comportamenti e che creano degli obblighi; obblighi che, ove non rispettati, conducono al riconoscimento di una penale responsabilità». Dunque, per il giudice monocratico della quarta sezione penale, «non esiste» la «sconfinata prateria di internet (...) pena la scomunica mondiale del popolo del web». Il 24 febbraio scorso tre dirigenti di Google vennero condannati a sei mesi, con la sospensione condizionale della pena, per violazione della privacy, mentre vennero assolti dal reato contestato di diffamazione. Un quarto dirigente, accusato solo di diffamazione, venne assolto. Al centro del processo, c'era un video che mostrava un ragazzino disabile insultato e picchiato da alcuni compagni di scuola di un istituto tecnico di Torino. Il filmato venne realizzato dagli studenti nel maggio 2006 e da loro caricato su Google Video l'8 settembre, dove rimase cliccatissimo per circa due mesi. L'inchiesta a carico dei dirigenti di Google è stata coordinata dai pm di Milano Alfredo Robledo e Francesco Cajani. La condanna dei tre dirigenti era stata criticata duramente dall'ambasciata Usa a Roma, la quale aveva sostenuto che «il principio fondamentale della libertà di internet è vitale per le democrazie». (ANSA).


INTERNET. GIUDICE: GOOGLE VIOLÒ PRIVACY PER FINE DI PROFITTO.


Milano, 12 aprile 2010. I tre dirigenti di Google sono stati condannati per violazione della privacy, in relazione a un video caricato in Rete di un minore disabile vessato e picchiato, perchè, tra le altre cose, la loro responsabilità dolosa è stata riconosciuta nel «fine di profitto» e del «interesse economico». Lo scrive il giudice di Milano Oscar Magi nelle motivazioni della sentenza emessa lo scorso 24 febbraio. Per accertare l'illecito trattamento di dati personali e sensibili (reato per cui sono stati condannati gli imputati), infatti, serve, come chiarisce il giudice, «il fine di profitto, richiesto dalla norma specificamente per la sussistenza del dolo». E nel caso concreto, prosegue il magistrato, tale fine «era, evidentemente, ricollegabile alla interazione commerciale ed operativa esistente tra Google Italy e Google Video». Google Italy, si legge ancora, «trattava i dati contenuti nei video caricati sulla piattaforma di Google Video e ne era quindi responsabile». Il giudice parla di «chiara accettazione consapevole del rischio», da parte degli imputati, «di inserimento e divulgazione di dati, anche e soprattutto sensibili», come quelli del video in questione, «che avrebbero dovuto essere oggetto di particolare tutela». In parole semplici, chiarisce Magi, «non è la scritta sul muro che costituisce reato per il proprietario del muro, ma il suo sfruttamento commerciale può esserlo». (ANSA).


INTERNET.  GIUDICE:  REATO COMMESSO ANCHE IN USA


Milano, 12 aprile 2010.  Il reato di violazione della privacy, per il quale sono stati condannati a Milano tre dirigenti di Google, in relazione a un video caricato nel 2006, è stato commesso in parte anche «negli Stati Uniti d'America, luogo ove hanno indubitabilmente sede i server». Lo scrive il giudice milanese Oscar Magi, nelle motivazioni della sentenza di condanna emessa il 24 febbraio scorso. Nelle motivazioni il giudice riporta anche una decisione presa all'inizio del processo riguardo alla competenza territoriale del reato contestato agli imputati. Secondo il giudice, il reato è stato «sicuramente commesso anche all'estero: non vi è dubbio che perlomeno parte del trattamento dei dati immessi a Torino sia avvenuto fuori d'Italia» ovvero negli Usa, dove hanno sede i server, «e cioè le macchine che trattano e immagazzinano i dati di proprietà di Google Inc.». Il giudice ha poi spiegato che la «competenza per territorio» è di Milano, perché il reato è stato consumato «perlomeno in parte» in Italia. (ANSA).


INTERNET. GIUDICE: NASCOSTA INFO PRIVACY.


Milano, 12 aprile 2010. L'informativa sulla privacy «visualizzabile per l'utente dalla pagina iniziale del servizio Google Video» era «talmente nascosta nelle condizioni generali di contratto da risultare assolutamente inefficace per i fini previsti dalla legge». È uno dei passaggi delle motivazioni della sentenza con cui il giudice di Milano Oscar Magi ha condannato per violazione della privacy tre dirigenti di Google, in relazione a un video - caricato sul noto motore di ricerca - che vedeva un minore disabile insultato da alcuni compagni di scuola. L'informativa sulla privacy, spiega il giudice nelle motivazioni, «visualizzabile» per l'attivazione «del relativo account al fine di porre in essere il caricamento dei files da parte dell'utente medesimo, era del tutto carente, o comunque talmente nascosta» da risultare inefficace. (ANSA).


GOOGLE: CONDANNA È ATTACCO A PRINCIPI DELLA RETE.


MILANO, 12 APRILE 2010.  «Questa condanna attacca i principi stessi su cui si basa Internet». Nel giorno in cui sono state depositate le motivazioni della condanna di 3 dirigenti di Google, il famoso motore di ricerca ribadisce in sostanza, attraverso una nota, quanto aveva detto nel febbraio scorso dopo la lettura del dispositivo da parte del giudice di Milano. «Stiamo leggendo le 111 pagine del documento di motivazioni del giudice - chiarisce Google - tuttavia, come abbiamo detto nel momento in cui la sentenza è stata annunciata, questa condanna attacca i principi stessi su cui si basa Internet». Se questi principi non venissero rispettati, prosegue la nota, «il Web così come lo conosciamo cesserebbe di esistere e sparirebbero molti dei benefici economici, sociali, politici e tecnologici che porta con sè. Si tratta di importanti questioni di principio ed è per questo che noi e i nostri dipendenti faremo appello contro questa decisione». Il 24 febbraio scorso, alla luce della sentenza, Google aveva affermato che si trattava di «un attacco ai principi fondamentali di libertà sui quali è stato costruito internet». (ANSA).


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Da  “Beltel” del marzo 2010.


INTERNET: VIDEO CHOC.


Il tribunale  di Milano condanna


tre dirigenti di Google


per violazione della privacy,


ma l’Europa dissente. Spieghiamo perché.


 


Libertà, responsabilità  e censura si fronteggiano in questo processo, che, comunque, è destinato a segnare una tappa fondamentale nella società dell’informazione. Intervenendo nel processo di Milano a Google, con una dichiarazione sollecitata da Edima (l'associazione europea dei media digitali, cui aderisce Google), il commissario europeo alle tlc Charlie McCreevy  ha sottolineato  che l'unica norma vigente – la Direttiva sull'E-commerce 2000/31/CE (recepita nel dlgs 70/2003) – impone ai provider solo di rimuovere i contenuti illeciti «una volta avutane conoscenza o consapevolezza».  Ed è quello che Google ha fatto in questo caso specifico.   Reporters sans frontieres (Rsf): “Questa condanna purtroppo instaura di fatto una necessità di controllo a priori sulla pubblicazione di video e per questo è un colpo grave alla libertà di espressione. La sentenza costituisce un grave precedente, proprio in quanto è stata presa in un paese democratico”.


 


analisi di Franco Abruzzo*


IL FATTO. Il primo processo, anche in campo internazionale, ai responsabili di un 'provider' di internet per la pubblicazione di contenuti sul web, è italiano. Il Tribunale di Milano il 24 febbraio ha condannato tre tra ex ed attuali manager di Google il più famoso motore di ricerca al mondo, nell'ambito del procedimenti avviato nel capoluogo lombardo dopo la diffusione in rete, nel 2006, di un video in cui un giovane disabile di Torino veniva vessato dai compagni di scuola. In particolare il giudice Oscar Magi ha condannato gli imputati per violazione della legge sulla privacy a sei mesi di reclusione con pena sospesa e li ha, invece, assolti dal reato di diffamazione. Coinvolti sono David Carl Drummond, ex presidente del cda di Google Italia, George De Los Reyes, ex membro del cda di Google Italia e Peter Fleitcher, responsabile delle strategie del gruppo. Assolto, invece, perché accusato solo di diffamazione, Arvind Desikan, responsabile del progetto Google video per l'Europa. Nei loro confronti l'accusa aveva chiesto pene comprese tra 6 mesi e un anno di reclusione


LE ACCUSE. Nell'avviso di conclusione delle indagini, si poteva leggere che i 4 imputati "offendevano la reputazione dell'Associazione Vividown" nonché del ragazzo protagonista - e vittima - del video, "consentendo che venisse immesso per la successiva diffusione a mezzo internet, attraverso le pagine di Google Video Italia e senza alcun controllo preventivo sul suo contenuto, un filmato in cui perone minorenni, in concorso tra loro", pronunciando una frase offensiva verso il ragazzo e "ponendo in essere altri numerosi atti vessatori" nei suoi confronti, "ledevano i diritti e le libertà fondamentali nonché la dignità degli interessati". Drummond, De Los Reyes e Fleitcher  hanno violato la normativa sulla privacy in quanto "al fine di trarne profitto per il tramite del servizio Google Video (che è gratuito ma si finanzia attraverso la pubblicità, ndr) procedevano al trattamento dei dati personali" della vittima del pestaggio.


LE INTERPRETAZIONI A CALDO. Secondo l'interpretazione della sentenza che viene fatta negli ambienti giudiziari, nel caso specifico non c'è stata  “una omissione dolosa da parte degli imputati che, però, debbono rispondere del trattamento illecito dei dati personali dal momento che è stato consentito il caricamento delle immagini”. Una condanna anche per diffamazione, spiegano fonti giudiziarie, avrebbe sancito una sorta di «obbligo alla censura preventiva» da parte di Google e di altri provider sui contenuti che vanno in rete, essendo la diffamazione un reato che si consuma istantaneamente. Diverso, invece, il discorso sulla violazione della privacy. Il giudice, in questo caso, potrebbe aver accertato un «dolo di profitto» da parte del motore di ricerca che, essendo un'impresa commerciale, guadagna sulla pubblicità quando i video vengono cliccati.  L'obbligo di controllo e rimozione, invece, subentra in un secondo momento e gli imputati hanno effettivamente rimosso le immagini incriminate non appena hanno saputo della loro esistenza. Sarà fondamentale leggere la motivazione della sentenza (tra 90 giorni) per capire il ragionamento del giudice.


GOOGLE TRATTATO COME UN GIORNALE. In pratica è stata estesa a Google la normativa sulla stampa. La Procura prima  il Tribunale di Milano hanno attribuito una responsabilità a Google (inquadrato come un  internet provider) per fatti commessi da terzi  in base  alle norme sulla responsabilità del direttore  di una testata giornalistica ed in particolare all'articolo 57  Cp, equiparando il gestore di un sito internet ad un  direttore responsabile e attribuendogli l'obbligo di verificare la liceità del materiale pubblicato sul proprio server, compreso quello inviato da terzi. Il direttore “deve impedire che con il mezzo della stampa si commettano delitti”. La legge 223/1990 (“legge Mammì”) ha esteso questa responsabilità  ai direttori dei Tg e dei radiogiornali, mentre la legge 62/2001 ha coinvolto direttamente i direttori dei siti web. L’internet provider sarebbe corresponsabile della condotta illecita del terzo utente sulla base del principio giuridico della culpa in vigilando,  che si realizza con il mancato adempimento dell'obbligo di monitoraggio del materiale  sistemato nel server, obbligo sancito, come riferito, indirettamente  dall’articolo. 57 Cp per quanto riguarda i giornali, ma Google non è un  giornale.


LA DIRETTIVA COMUNITARIA SALVA GOOGLE. ANCHE IL COMMISSARIO UE ALLE TLC INTERVIENE IN DIFESA DI GOOGLE. Il Tribunale di  Milano, però, non sembra aver valutato l’incidenza di una  direttiva comunitaria, che sembra scagionare Google. L’articolo 31 della legge 39/2002  delega il Governo ad emanare un dlgs per l'attuazione della direttiva 2000/31/CE, relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell'informazione, in particolare il commercio elettronico, nel mercato interno. Il dlgs è il n. 70/2003  (Attuazione della direttiva 2000/31/CE relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell'informazione nel mercato interno, con particolare riferimento al commercio elettronico). L’articolo 16 di questo dlgs (in vigore),  paragonabile alla classica ciambella di salvataggio (per Google),   specifica che “nella prestazione di un servizio della società dell'informazione, consistente nella memorizzazione di informazioni fornite da un destinatario del servizio, il prestatore non è responsabile delle informazioni memorizzate a richiesta di un destinatario del servizio, a condizione che detto prestatore: a) non sia effettivamente a conoscenza del fatto che l'attività o l'informazione è illecita e, per quanto attiene ad azioni risarcitorie, non sia al corrente di fatti o di circostanze che rendono manifesta l'illiceità dell'attività o dell'informazione; b) non appena a conoscenza di tali fatti, su comunicazione delle autorità competenti, agisca immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitarne l'accesso”.


Google in questo caso svolge un’attività di semplice “ospitalità” del filmato incriminato. Tale circostanza avrebbe dovuto evitare grane alla società americana ove si legga anche l’articolo 17 (Assenza dell'obbligo generale di sorveglianza) del dlgs 70/2003: “Nella prestazione dei servizi…..il prestatore non è assoggettato ad un obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni che trasmette o memorizza, né ad un obbligo generale di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite. 2. ….il prestatore è comunque tenuto: a) ad informare senza indugio l'autorità giudiziaria o quella amministrativa avente funzioni di vigilanza, qualora sia a conoscenza di presunte attività o informazioni illecite riguardanti un suo destinatario del servizio della società dell'informazione; b) a fornire senza indugio, a richiesta delle autorità competenti, le informazioni in suo possesso che consentano l'identificazione del destinatario dei suoi servizi con cui ha accordi di memorizzazione dei dati, al fine di individuare e prevenire attività illecite. 3. Il prestatore è civilmente responsabile del contenuto di tali servizi nel caso in cui, richiesto dall'autorità giudiziaria o amministrativa avente funzioni di vigilanza, non ha agito prontamente per impedire l'accesso a detto contenuto, ovvero se, avendo avuto conoscenza del carattere illecito o pregiudizievole per un terzo del contenuto di un servizio al quale assicura l'accesso, non ha provveduto ad informarne l'autorità competente”. Se non c’è obbligo di sorveglianza non c’è responsabilità penale. E se c’è correttezza nei comportamento con le autorità di vigilanza non c’è responsabilità civile.  Intervenendo nel processo di Milano a Google, con una dichiarazione sollecitata da Edima (l'associazione europea dei media digitali, cui aderisce Google), il commissario europeo alle tlc Charlie McCreevy  -  come ha scritto “Il Sole 24 Ore” del 22 dicembre – ha sottolineato  che l'unica norma vigente – la Direttiva sull'E-commerce 2000/31/CE (recepita nel dlgs 70/2003) – impone ai provider solo di rimuovere i contenuti illeciti «una volta avutane conoscenza o consapevolezza».  E’ un chiaro no alla censura preventiva 


LA DIFESA DI GOOGLE. Google ha annunciato subito che farà appello contro una decisione ritenuta “a dir poco sorprendente dal momento che i nostri dirigenti non hanno nulla a che fare con il video, non sono presenti nel video, non lo hanno girato, non lo hanno caricato, né visionato”. La società Google Italia nel corso del processo si è difesa affermando che “i filmati pubblicati dagli utenti vanno in linea automaticamente e che non c'è nessun filtro editoriale preventivo da parte nostra. Quello che facciamo è 'tirare giù' i contenuti illegali quando ce ne accorgiamo. Il video era evidentemente contrario alle nostre policy, infatti l'abbiamo cancellato immediatamente, appena ci è stato segnalato. Stiamo sperimentando, e continueremo a sperimentare, tecnologie in grado di individuare automaticamente i contenuti illegali. Ma non è un'impresa facile. Per fortuna ci siamo accorti che il filtro più importante è il controllo della comunità. Sono gli stessi utenti di Google, che appena vedono qualcosa di anomalo, provvedono a segnalarcelo''.  Secondo il Garante della Privacy, “il caso del video del ragazzo down pestato in classe effettivamente pone il problema del controllo sui siti Internet e sui nuovi media per i quali è più difficile intervenire con provvedimenti interdettivi. Il web è molto ampio e la quantità dei siti si moltiplica quotidianamente. Spesso, perciò, sono difficili il monitoraggio e l'intervento tempestivo''. La difesa  di Google, con un suggestivo parallelo,  afferma  che “è come processare i postini per il contenuto delle lettere che  portano”. Ogni giorno vengono trasmessi 1,2 miliardi di video. Impossibile un controllo sostiene  Google. Libertà, responsabilità  e censura si fronteggiano in questo processo, che, comunque, è destinato, nel prosieguo dei giudizi (appello e Cassazione),  a segnare una tappa fondamentale nella società dell’informazione. Non sono mancate le proteste degli Usa e non solo a livello di ambasciata romana. Gli Usa sono rimasti «negativamente colpiti dalla decisione», perché «il principio fondamentale della libertà di Internet è vitale per le democrazie».“Se i giudici avevano intenzione di avviare in questo modo un dibattito sul rispetto della privacy su Internet, argomento della massima importanza, hanno scelto male il loro cavallo di battaglia - spiega Reporters sans frontieres (Rsf) -. Questa condanna purtroppo instaura di fatto una necessità di controllo a priori sulla pubblicazione di video e per questo è un colpo grave alla libertà di espressione. La sentenza costituisce un grave precedente, proprio in quanto è stata presa in un paese democratico”.


*già presidente dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia dal  15maggio 1989 al 7 giugno 2007.


 





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