Sul Corriere della Sera di oggi, nella rubrica “Visti da lontano”, Massimo Gaggi segnala il calo del numero delle cause per diffamazione negli Stati Uniti. Per dire, il settimanale Time non riceve una querela da 11 mesi. Secondo Gaggi il fenomeno va letto alla luce della crisi della stampa americana, che investe sempre meno nel giornalismo d’inchiesta.
Senza mettere in discussione l’analisi di Gaggi, vorrei ricordare alcune differenze fra la giurisdizione USA e quella europea continentale, in particolare italiana. Differenze che da sempre rendono prevalente il diritto alla libertà di stampa rispetto al diritto alla tutela del singolo da contenuti o pubblicazioni diffamanti. Con buona pace di Piero Ostellino che, sempre sulle pagine del Corriere, ha sostenuto recentemente come il liberale autentico dovrebbe avere più a cuore il diritto alla privacy rispetto al diritto all’informazione, in quanto il primo riguarderebbe l’individuo e il secondo la collettività.
La legge americana sulla diffamazione trae fondamento dal Common Low inglese e trova la sua prima codifica nel Primo emendamento alla Costituzione, in una linea di continuità che dura da duecento anni. Due sono i cardini dell’approccio americano: 1) Per essere diffamante, il contenuto deve essere falso; 2) Per essere diffamante, il contenuto falso deve essere “motivato da intenzioni malevoli” (motivated by malice). Già il punto 1) distingue la legislazione USA da quella italiana. Com’è noto, infatti, la nostra legge considera diffamante anche un contenuto vero, nella misura in cui si ritenga che la persona oggetto di tale contenuto ne risulti in qualche modo lesa nella propria onorabilità. Ma è soprattutto il punto 2) che ci sembra degno di nota. Negli Stati Uniti per diffamare non basta dire il falso. Occorre che sia dimostrato l’intento, senza scusa o giustificazione, di commettere un atto malevolo.
A fare giurisprudenza è stata in particolare la sentenza 376 U.S. 254 della Corte Suprema, chiamata a giudicare nel 1964 sulla causa che vedeva contrapposto il New York Times a un commissario di polizia di Montgomery, Alabama. Ribaltando la decisione della giustizia ordinaria, la Corte Suprema stabilì che il quotidiano era stato condannato ingiustamente per diffamazione. Infatti, pur avendo pubblicato un contenuto falso, non lo aveva fatto con la consapevolezza che esso fosse falso né con “incauto disprezzo” (reckless disregard) della verità.
Insomma, la legge e la giurisprudenza americane impediscono che la querela per diffamazione venga utilizzata per intimidire la stampa e ridurre i suoi margini di libertà. Sarebbe bene ricordarlo, in un periodo in cui tanto si discute di leggi-bavaglio. Magari per domandarsi se non sia il caso di abolire dal nostro ordinamento il reato di diffamazione a mezzo stampa, del quale da sempre il potere politico si serve in Italia per limitare la funzione di watchdogging dei media.
11 giugno 2010
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Visti da lontano
Querele in calo, avvocati disoccupati
Il giornalismo americano in crisi taglia i costi e le inchieste-
Da lunedì prossimo Robin Bierstedt andrà a vivere nella bucolica isola di Martha' s Vineyard, sospesa tra Oceano Atlantico e costa del Massachusetts. Dopo aver difeso per 27 anni Time nelle cause per diffamazione (celebre quella di Scientology per un' inchiesta di copertina pubblicata nel 1991 e vinta dal settimanale dopo una battaglia di cinque anni) se ne va in pensione. Non perché si sente vecchia: semplicemente non c' è più lavoro. Nemmeno una querela negli ultimi 11 mesi. Negli altri gruppi editoriali americani la situazione è analoga. Anche gli avvocati del New York Times, abituati a gestire una quindicina di casi l' anno, al momento sono disoccupati. A livello nazionale, i processi per diffamazione sono passati dai 266 medi l' anno negli Anni 80 ai 192 degli Anni 90 ai 124 del primo decennio di questo secolo (solo 9 casi nel 2009). Giornalisti più accurati? Leggi che, tutelando con forza la libertà d' espressione e punendo solo gli errori più gravi e i casi di malafede, disincentivano i ricorsi? Certo, c' è anche un po' di questo. E, soprattutto, un ruolo importante lo gioca la transizione all' informazione digitale: quando un errore può essere corretto tempestivamente sull' edizione online del giornale, l' ira del danneggiato scema, cala l' interesse a passare alle vie legali. Ma c' è anche un altro aspetto del quale si parla meno volentieri: indebolite dalla crisi economica, alcune aziende editoriali investono meno in giornalismo investigativo, grandi inchieste. È il lavoro che costa di più e che più facilmente suscita la reazione risentita dell' «investigato». I timori di un' azienda indebolita economicamente davanti ai rischi di processi lunghi e costosi sono comprensibili, ma l' indebolimento del ruolo istituzionale di contrappeso della stampa preoccupa molti negli Usa. Tanto più che avanza di pari passo un altro fenomeno legato all' indebolimento del ruolo di watchdog (cane da guardia) della stampa: l' aumento dei casi di corruzione in quasi tutti gli Stati dell' Unione (anche se siamo ancora molto lontani da quello che accade dalle nostre parti). I giornali in crisi tagliano le redazioni e non coprono più adeguatamente l' attività politica delle capitali che in gran parte degli Stati Usa sono lontane dai maggiori centri urbani. Il New York Times ha 60 giornalisti che descrivono ciò che accade in città e solo tre ad Albany, la capitale dalla quale scaturiscono tutti gli scandali che da anni scuotono lo Stato. Stessa situazione in California col Los Angeles Times che ha 55 cronisti in città e solo 6 a Sacramento, nonostante Schwarzenegger faccia più notizia di tanti altri governatori. E così da Harrisburg capitale della Pennsylvania a Springfield, capitale dell' Illinois lontana da Chicago, l' assenza di occhi indiscreti lascia spazio al diffondersi delle commistioni tra affari e politica. massimo.gaggi@rcsnewyork.com
Massimo Gaggi
Pagina 51
(11 giugno 2010) - Corriere della Sera