di www.lsdi.it
Roma, 4 novembre 2010. Una ricerca sulla condizione dei giornalisti italiani “visibili’’, condotta da Lsdi sulla base dei dati forniti da Inpgi, Ordine dei giornalisti e Fnsi, fa emergere il quadro di una professione frammentata, con status professionali ed economici molto vari e con differenze, a volte, molto profonde fra i vari segmenti che la compongono. Su 108.437 iscritti all’Ordine, alla fine del 2009 solo 49.239 giornalisti (il 45,4%) erano titolari di una posizione contributiva all’Inpgi, come lavoratori subordinati o autonomi.
La profonda spaccatura fra lavoro dipendente e lavoro autonomo. Di fronte alla tenuta del giornalismo garantito dai contratti e dagli istituti di categoria (crescita che dai quotidiani si è allargata all’emittenza locale, ai piccoli periodici e agli uffici stampa, privati e pubblici), il giornalismo autonomo ancora annaspa, senza riuscire a trovare uno statuto,contrattuale e professionale, adeguato alla sua forza quantitativa, che ormai è pari se non superiore a quella del lavoro dipendente. E senza riuscire ancora ad entrare nell’area del giornalismo “garantito”. Nel 2009, ad esempio, mentre solo un lavoratore subordinato su 3 aveva un reddito annuo inferiore ai 30.000 euro lordi, più della metà degli autonomi (il 55,25%) dichiaravano un reddito annuo inferiore ai 5.000 euro.
Le altre caratteristiche dell’evoluzione della professione: un “impoverimento” delle fasce di reddito intermedie a vantaggio di quelle medio-alte nel campo del lavoro subordinato; un progressivo “invecchiamento” della popolazione giornalistica, in entrambe i campi; e infine una progressiva avanzata delle donne, mitigata dalla persistenza di un relativo gap di carattere economico.
Su due giornalisti iscritti all’Ordine solo uno risulta attivo nella professione. O almeno è ”visibile”, nel senso che è titolare di una posizione contributiva all’ Inpgi, l’Istituto di previdenza dei giornalisti italiani, in quanto lavoratore dipendente o autonomo. Al 31 dicembre 2009 i giornalisti ‘’attivi’’ erano infatti 49.239: il 50,17 % degli iscritti all’Ordine se si escludono albo speciale e stranieri, e il 45,4% se si considerano anche questi ultimi (complessivamente gli albi ospitavano l’anno scorso 108.437 giornalisti ufficiali). Il lavoro dipendente è ancora maggioritario, almeno formalmente: conta infatti 26.026 giornalisti (il 52,86%) , contro i 23.213 autonomi. Ma se si eliminano le 6.257 posizioni “ferme” (congelate) per mancanza di contributi da almeno un anno (ma in quasi la metà dei casi anche da più di 5 anni), gli attivi effettivi nel campo del lavoro subordinato si riducono a 20.087. Una cifra quindi inferiore a quella del lavoro autonomo. Con i 23.213 autonomi (gli iscritti all’ Inpgi2 erano in realtà 30.170, ma 6.957 posizioni facevano riferimento a giornalisti dipendenti che svolgevano contemporaneamente anche lavoro autonomo, risultando quindi iscritti a entrambe le gestioni) si arriva a 43.300 attivi effettivi. La percentuale degli attivi sugli iscritti all’Ordine scende quindi al 39,9% (44.1% se si escludono albo speciale e stranieri). Sono alcuni dei dati emersi da una ricerca sulla professione giornalistica in Italia (Giornalismo: il lato emerso della professione; Una ricerca sulla condizione dei giornalisti italiani “visibili”*) condotta da Lsdi sulla base dei dati forniti da Inpgi, Ordine e Fnsi. (www.lsdi.it)
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Giornalisti: solo
uno su due in Italia
risulta ‘’attivo’’,
Vistosa frattura fra dipendenti e autonomi
Roma, 4 novembre 2010. Una ricerca sulla condizione dei giornalisti italiani “visibili’’, condotta da Lsdi sulla base dei dati forniti da Inpgi, Ordine dei giornalisti e Fnsi, fa emergere il quadro di una professione frammentata, con status professionali ed economici molto vari e con differenze, a volte, molto profonde fra i vari segmenti che la compongono
- Su 108.437 iscritti all’ Ordine, alla fine del 2009 solo 49.239 giornalisti (il 45,4%) erano titolari di una posizione contributiva all’Inpgi, come lavoratori subordinati o autonomi
- La profonda spaccatura fra lavoro dipendente e lavoro autonomo
- Di fronte alla tenuta del giornalismo garantito dai contratti e dagli istituti di categoria (crescita che dai quotidiani si è allargata all’ emittenza locale, ai piccoli periodici e agli uffici stampa, privati e pubblici), il giornalismo autonomo ancora annaspa, senza riuscire a trovare uno statuto,contrattuale e professionale, adeguato alla sua forza quantitativa, che ormai è pari se non superiore a quella del lavoro dipendente. E senza riuscire ancora ad entrare nell’ area del giornalismo “garantito”
- Nel 2009, ad esempio, mentre solo un lavoratore subordinato su 3 aveva un reddito annuo inferiore ai 30.000 euro lordi, più della metà degli autonomi (il 55,25%) dichiaravano un reddito annuo inferiore ai 5.000 euro
- Le altre caratteristiche dell’ evoluzione della professione: un “impoverimento” delle fasce di reddito intermedie a vantaggio di quelle medio-alte nel campo del lavoro subordinato; un progressivo “invecchiamento” della popolazione giornalistica, in entrambe i campi; e infine una progressiva avanzata delle donne, mitigata dalla persistenza di un relativo gap di carattere economico
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Su due giornalisti iscritti all’Ordine solo uno risulta attivo nella professione. O almeno è ”visibile”, nel senso che è titolare di una posizione contributiva all’ Inpgi, l’ Istituto di previdenza dei giornalisti italiani, in quanto lavoratore dipendente o autonomo.
Al 31 dicembre 2009 i giornalisti ‘’attivi’’ erano infatti 49.239: il 50,17 % degli iscritti all’ Ordine se si escludono albo speciale e stranieri, e il 45,4% se si considerano anche questi ultimi (complessivamente gli albi ospitavano l’ anno scorso 108.437 giornalisti ufficiali).
Il lavoro dipendente è ancora maggioritario, almeno formalmente: conta infatti 26.026 giornalisti (il 52,86%) , contro i 23.213 autonomi. Ma se si eliminano le 6.257 posizioni “ferme” (congelate) per mancanza di contributi da almeno un anno (ma in quasi la metà dei casi anche da più di 5 anni), gli attivi effettivi nel campo del lavoro subordinato si riducono a 20.087. Una cifra quindi inferiore a quella del lavoro autonomo.
Con i 23.213 autonomi (gli iscritti all’ Inpgi2 erano in realtà 30.170, ma 6.957 posizioni facevano riferimento a giornalisti dipendenti che svolgevano contemporaneamente anche lavoro autonomo, risultando quindi iscritti a entrambe le gestioni) si arriva a 43.300 attivi effettivi.
La percentuale degli attivi sugli iscritti all’ Ordine scende quindi al 39,9% (44.1% se si escludono albo speciale e stranieri).
Sono alcuni dei dati emersi da una ricerca sulla professione giornalistica in Italia (Giornalismo: il lato emerso della professione; Una ricerca sulla condizione dei giornalisti italiani “visibili”*)condotta da Lsdi sulla base dei dati forniti da Inpgi, Ordine e Fnsi.
Una professione frammentata
Dall’ analisi dei dati esce il quadro di una professione frammentata, con status professionali ed economici molto vari e con differenze, a volte, molto profonde fra i vari segmenti che la compongono.
Una prima ricerca, che dà alcune indicazioni iniziali , soprattutto in termini quantitativi, sulla condizione del giornalismo professionale in Italia e che pone anche molti interrogativi. Primo fra tutti: dove sta e come è composta l’ altra ‘metà’ dei giornalisti iscritti all’ Ordine, quelli che sono completamente sconosciuti all’ Inpgi?
Escludendo pensionati, albo speciali e stranieri, si tratta di circa 40.000 giornalisti, nella grandissima maggioranza pubblicisti, visto che professionisti e praticanti sono totalmente ”visibili” all’ interno dell’ Inpgi mentre dei 62.155 pubblicisti presenti nell’ Ordine solo 4.086 risultano all’ Inpgi come lavoratori dipendenti e 19.626 come lavoratori autonomi.
La spaccatura fra lavoro dipendente e lavoro autonomo
Una seconda questione – ‘politica’, sindacale ma soprattutto culturale – nasce dalla conferma (ora ampiamente suffragata dai dati) della vistosa spaccatura fra lavoro dipendente (il lavoro che vive prevalentemente dentro le redazioni) e lavoro autonomo, che nell’ industria editoriale cresce e diventa sempre più vitale per la macchina dell’ informazione, ma che non riesce ad acquisire una vera, concreta, dignità professionale.
Una condizione che, nelle fasce più basse e meno protette, confina visibilmente e si intreccia col precariato dai 2,50 euro lordi a notizia e con tutto quel variegato mondo del lavoro sommerso che ruota all’ esterno delle redazioni – o è addirittura la base produttiva nei nuovi media – e che è ancora privo di una rappresentazione e, quindi, di una rappresentanza adeguate.
Di fronte alla tenuta, e alla “crescita” – sulla spinta del forte impegno sindacale degli ultimi 25 anni -, del giornalismo garantito dai contratti e dagli istituti di categoria: buon sindacato, buona previdenza e buona assistenza sanitaria complementare (crescita che dai quotidiani si è allargata all’ emittenza locale, ai piccoli periodici e agli uffici stampa, privati e pubblici), il giornalismo autonomo ancora annaspa, senza riuscire a trovare uno statuto – contrattuale e professionale – adeguato alla sua forza quantitativa, che ormai è pari a quella del lavoro dipendente. E senza riuscire ancora, nonostante gli sforzi degli organismi di categoria, ad entrare nell’ area (pesante, anche se a sua volta fortemente segmentata) del giornalismo “garantito”.
Basti pensare che, nel 2009, mentre solo un lavoratore subordinato su 3 aveva un reddito annuo inferiore ai 30.000 euro lordi, più della metà degli autonomi (il 55,25%) dichiaravano un reddito annuo inferiore ai 5.000 euro.
Un divario che il passare degli anni non riesce a colmare e che rappresenta probabilmente il problema più complesso che il sindacato dei giornalisti e lo stesso ente di previdenza, l’ Inpgi, si trova a dover affrontare.
Anche perché i dati sulle prime pensioni da lavoro autonomo, pur essendo ancora del tutto marginali, non sono rassicuranti, visto che il 63% dei trattamenti pensionistici da Inpgi2 non superano i 500 (cinquecento) euro lordi annui e solo il 17,4% (124 pensioni dirette) sono superiori ai 1.000 euro.
Accanto a questo elemento di fondo, si profilano altre caratteristiche dell’ evoluzione della professione:
- un “impoverimento” delle fasce di reddito intermedie a vantaggio di quelle medio-alte nel campo del lavoro subordinato;
- un progressivo “invecchiamento” della popolazione giornalistica, in entrambe i campi;
- e infine una progressiva avanzata delle donne, mitigata dalla persistenza di un relativo gap di carattere economico.
Impoverimento delle fasce medie di reddito
Fra il 2000 e il 2009 i redditi fra 50 a 60.000 euro sono scesi dal10,13% al 7,77%, quelli fra 60 e 70.000 sono calati da 9,6% a 6,8% e quelli fra 70 e 80.000 euro da 7,39% a 6,24%. Mentre sono cresciuti in percentuale gli stipendi più “ricchi”: dal 9,54% al 12,5% nella fascia da 90 a 130.000 euro e da 2,8% a 6,22% per i guadagni superiori ai 130.000 euro.
Nel campo del lavoro autonomo, il 55,25% dei giornalisti iscritti dichiara complessivamente entrate sotto il 5.000 euro lordi annui, la stessa percentuale (55,01%) del 2000.
In linea la percentuale fra i Co.co.co, che al 49,5% dichiarano redditi fra lo zero e i 5.000 euro.
Invecchiamento della professione
Fra i giornalisti subordinati, le posizioni relative a redattori con meno di 40 anni, che nel 2000 erano oltre la metà (il 50,67%), sono scese al 40%, mentre quelle relative a redattori con oltre 50 anni sono passate dal 17,3% del 2000 al 25,77% del 2009.
Per quanto riguarda l’ Inpgi2 si registra una netta diminuzione percentuale, fra il 1997 e il 2009, degli iscritti con meno di 30 anni (dal 20,2 al 12,18%) e di quelli fra i 30 e i 40 anni (dal 42,37 al 35,19%), accompagnata invece da un aumento degli iscritti fra i 40 e i 50 anni (dal 22,9 al 29,9%), di quelli fra i 50 e i 60 anni (dal 12,3 al 16,34%) e di quelli con 61 anni e oltre (dal 2,4 al 6,39%).
Avanzano le donne (ma resta il gap economico)
Sul piano del lavoro subordinato, ad esempio, nel 2009 le donne erano il 40,71% – contro il 9,3% del 1975! -, ma rappresentavano il 43,02% dei rapporti di lavoro nelle fasce di reddito più basse (entro i 30.000 euro annui) e soltanto il 15,08% dei salari nelle fasce di reddito alte, sopra gli 80.000 euro annui.
Un divario che nasconde probabilmente analoghe difficoltà a livello di carriera.
Le prime risposte
Andrea Camporese (Inpgi): ”Un impianto di welfare per tutti i non dipendenti”
”La sfida futura che si presenta è quella dello sviluppo di un impianto di welfare per tutti i non dipendenti, liberi professionisti compresi, che permetta di compensare almeno parzialmente la perdita di reddito derivante dalla mancanza di tutele sulla stabilità del lavoro. Si tratta di un tema che attraversa parte del dibattito politico che deve essere affrontato, pur nella grande difficoltà di reperimento di risorse”.
Enzo Iacopino (Ordine): ”Avanti con l’ operazione verità”
Ci sono, accanto ai contrattualizzati a vario titolo, centinaia e centinaia di “invisibili”, colleghi che non esistono come giornalisti, colleghi che le aziende non riconoscono come tali ma usano per riempire di contenuti giornali ed emittenti. La fantasia dei contratti non conosce limiti: programmista regista, assistente ai programmi, cessione diritti d’autore. Scappatoie che la legge consente, ma che debbono essere contrastate da Ordine, Fnsi e
Inpgi.
E ci sono gli “ultimi”, i paria, quelli che sono costretti a subire la mortificazione di compensi da elemosina, che debbono essere lì sempre pronti a scattare al primo squillo d’ una chiamata.
Il mandante è sempre l’ editore. Ma dall’ altro capo del telefono c’ è un esecutore. E’ triste scoprire che si tratta di un giornalista.
Franco Siddi (Fnsi): ”Nebulosa su 110 mila giornalisti, ma il sindacato è in campo per la dignità di tutti”
Una parte consistente della categoria è in una situazione di sofferenza economica. Se prima il freelance era soprattutto un pubblicista che svolgeva altra attività e che incrementava il suo reddito con collaborazioni e prestazioni giornalistiche, oggi è principalmente un professionista che non ha altri redditi e vive di solo giornalismo: in buona parte al di sotto dei limiti di sussistenza.
E’ un problema enorme, che però non scopriamo ora. Da anni abbiamo chiesto alla nostra controparte editoriale di poter regolamentare contrattualmente anche il lavoro autonomo. Abbiamo trovato sempre porte sbarrate e nessun indirizzo normativo di sostegno ed è stata necessaria la mobilitazione di tutta la categoria e la perseveranza del Sindacato per ottenere i primi risultati, che non sarebbe però giusto considerare marginali o poca cosa.
La crescita smisurata del numero dei giornalisti deve però indurci anche ad una riflessione e all’obbligo della sincerità nei confronti di tutti i colleghi iscritti all’albo. Se oggi gli iscritti all’albo sono quasi 110.000 bisogna con chiarezza saper dire a tutti i nuovi colleghi che il sistema complessivo dell’informazione, per quanto si sia dilatato, non consente di assorbire una massa cosi elevata di addetti (…) Una forza lavoro cosi smisurata rispetto alle richieste di mercato si risolve ineluttabilmente nel precariato, nella marginalizzazione, nella disoccupazione. E’ bene non farsi illusioni né demagogicamente illudere tutti coloro, soprattutto i giovani, che sono ammaliati dal fascino della nostra professione.
Fatta questa doverosa quanto ineludibile precisazione, non vi è dubbio che il Sindacato unitario dei giornalisti debba perseguire tutte le vie per garantire le migliori condizioni di lavoro anche a questo segmento sempre più rilevante della professione. Lo stiamo facendo sul piano della struttura sindacale: abbiamo modificato il regolamento federale costituendo una assemblea nazionale dei giornalisti free lance, una commissione nazionale sul lavoro autonomo e affidando ad un membro della Giunta Esecutiva e un coordinatore eletto le responsabilità del settore. Lo abbiamo fatto e continueremo a farlo sul piano contrattuale, previdenziale e assistenziale.
Ma è necessario anche stimolare il legislatore perché prenda atto di questa nuova realtà del mondo del lavoro che non riguarda soltanto i giornalisti.
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* Questo lavoro è dedicato ad Amedeo Vergani, amico appassionato di cui anche Lsdi aveva ancora grande bisogno.
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Fnsi: “L'informazione è un bene pubblico”. È questa la parola d’ordine che accomuna oggi i giornalisti europei in occasione della manifestazione “Stand up for journalism”, che si celebra per iniziativa della Federazione Europea di categoria (Efj)
Roma, 4 novembre 2010. L’informazione è un bene pubblico. È questa la parola d’ordine che accomuna oggi i giornalisti europei in occasione della manifestazione “Stand up for journalism”, che si celebra per iniziativa della Federazione Europea di categoria (Efj) nelle giornate di oggi e domani. Lo rende noto un comunicato della Fnsi. I giornalisti italiani hanno riunito a Roma i vertici della Fnsi (Siddi e Natale), dell’Ordine nazionale dei giornalisti (Enzo Jacopino), dell’Inpgi (Andrea Camporese), della Casagit (Daniele Cerrato) e del Fondo pensione complementare (Marina Cosi), richiamando due emergenze: l’urgenza che lo Stato mantenga l’impegno costituzionale a sostenere il pluralismo dell’informazione e quindi ripristini i finanziamenti destinati a sostenere di idee, cooperativi e di comunità, la lotta al precariato e alle condizioni di povertà e di forti pressioni improprie che si abbattono su migliaia di giornalisti, come capita per la moltitudine dei precari che popolano il Paese e particolarmente il lavoro intellettuale. Il segretario e il presidente della Fnsi, Franco Siddi e Roberto Natale, “hanno ribadito l’interesse del sindacato affinché le risorse pubbliche siano distribuite in maniera selettiva e rigorosa e non corrispondano a un finanziamento ‘mascherato’ a questa o quella ‘frazione politica’. Condizione qualificante e parametro centrale per le assegnazioni di contributi pubblici, secondo nuove regole trasparenti e neutrali rispetto a qualsiasi potere, deve essere l’occupazione giornalistica regolare, il rispetto del contratto di lavoro, il giusto compenso e la corretta protezione sociale per le attività professionali richieste ai freelance”.
Siddi e Natale hanno tuttavia riproposto “l’urgenza di un impegno dal quale dipende la sopravvivenza di decine testate che per la loro natura non possono vivere solo delle provvidenze del mercato e ricadono nell’obbligo costituzionale dello Stato di assicurare ogni iniziativa idonea perché siano garantiti pluralismo e libertà dell’informazione. Da qui, tanto più nella stagione di tumultuoso e critico cambiamento che investe le attività dei media, il dovere di intervento dello Stato, anche con finanziamenti pubblici a sostegno dell’informazione nella considerazione che il giornalismo etico, cioè incardinato sui principi dell’ordinamento professionale e del contratto di lavoro, sia un bene pubblico senza il quale nessuna democrazia funziona nel migliore dei modi”. La giornata dell’informazione europea, da parte della Federazione della Stampa e degli organismi di categoria italiani, è coinciso anche con la presentazione di un rapporto sui cambiamenti intervenuti nella popolazione giornalistica negli ultimi 35 anni e sull’emersione prepotente delle pesanti problematiche che riguardano il giornalista lavoratore autonomo - precario, curato da “Lsdi” (Libertà di stampa, diritto all’informazione) con il coordinamento di Pino Rea e di Vittorio Pasteris. Secondo i loro dati, tra garantiti, quasi garantiti e precari emerge una professione molto frammentata: i giornalisti attivi, “visibili”, tra professionisti, praticanti e pubblicisti (compresi disoccupati accertati e pensionati, alla fine del 2009 erano 49.239 e rappresentavano la metà degli iscritti all’Ordine professionale, il 50,16 per cento di 98.155 iscritti. Gli attivi effettivi nel campo del lavoro subordinato, nel 2009, erano 20.087, coloro che invece risultano titolari solo di rapporti di lavoro autonomo erano 22.406. (Con i disoccupati e i pensionati si raggiunge poi il totale di 49.239). Nel 1975, invece, gli iscritti all’Albo professionale, professionisti, praticanti e pubblicisti erano solo 20.700.
“Lo spazio e il lavoro dei media è cresciuto ma il sistema dell’industria dell’informazione si è articolato in maniera e grandezze diverse - spiega la nota - La vecchia area dell’abusivato è diventata precariato diffuso, come dimostrano alcuni dati sui redditi: nel 2009 solo un giornalista su tre con contratto di lavoro dipendente aveva un reddito annuo inferiore a 30.000 euro lordi mentre più della metà degli ‘autonomi’ (collaboratori e freelance), pari al 55,25 per cento, dichiarava un reddito annuo lordo inferiore ai 5000 euro. Un divario che fotografa un allarme sociale e anche democratico se si considera che su buona parte di questa area di lavoro si abbattono condizioni di vero precariato, di abuso, di povertà e anche di paura”. Siddi, Natale, Iacopino, Camporese, Cerrato, Cosi e Faiella (della commissione Freelance) hanno convenuto sull’urgenza di un’iniziativa comune per fare emergere la condizione del lavoro giornalistico che oggi vive di collaborazioni, remunerate in misura inferiore a quella di qualsiasi altra categoria professionale: compensi così bassi che la stragrande maggioranza dei giornalisti lavoratori autonomi espone un reddito medio annuo inferiore al livello della soglia di povertà indicata dall’Istat. “È un tema che, costantemente presente nell’elaborazione e nella pratica sindacale, acquisisce oggi evidenza prioritaria nell’interlocuzione con il governo e le forze politiche da parte degli enti che rappresentano i giornalisti italiani”. La Federazione Nazionale della Stampa Italiana (con gli Enti di categoria) rilancia da qui “una profonda iniziativa che chiamerà alla risposta i responsabili delle politiche per l’editoria del governo, il ministro del Lavoro e il Parlamento. Agli editori viene invece presentato il conto di una situazione che impone da parte loro l’assunzione di una nuova responsabilità sociale e civile, in ordine agli obblighi che loro competono in materia di giusto riconoscimento della dignità e della giusta remunerazione del lavoro giornalistico”.
Domani si concluderanno le iniziative della Fnsi per la “Giornata europea del Giornalismo bene pubblico” con iniziative regionali e nelle redazioni tese a evidenziare questo valore e problemi specifici di precariato e per la qualità dei giornali. In tutti i luoghi di lavoro, inoltre, viene chiesto ai colleghi di promuovere almeno un minuto di silenzio per ricordare i giornalisti uccisi, pesantemente intimiditi o minacciati, in tutto il mondo, dalle mafie, dalla criminalità organizzata, da centrali del terrore, ridotti al silenzio da regimi liberticidi, caduti nei teatri di guerra. (Il Velino)