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"COLLEGATO LAVORO"
(legge 183/2010, G.U. 9/11/10
n. 262 - suppl.ordinario n. 243).
Analisi dell'ufficio legale della Fnsi.

Cinquanta norme fondamentali
che incidono sul diritto del lavoro
e su varie materie tra le quali
l'impugnazione dei licenziamenti
e dei contratti a tempo determinato:
il termine è di appena 60 giorni
e poi scatta la prescrizione.
I cococo in servizio oggi nei giornali
possono agire contro le aziende
entro il 23 gennaio 2011.
(IN ALLEGATO la legge 183/2010)

Roma, 16 novembre 2010. Il 9 novembre è stato pubblicato nel supplemento ordinario n. 243 della Gazzetta ufficiale n. 262  il cosiddetto collegato lavoro (legge 183/2010). Il testo è stato approvato dalla Camera in via definitiva il 19 ottobre 2010, dopo il rinvio alla camere del Presidente della Repubblica che nel primo testo aveva riscontrato profili di incostituzionalità di alcune norme. La legge, 50 articoli, oltre 100 commi, contiene norme particolarmente importanti nell'ambito del diritto del lavoro, norme che riguardano la certificazione dei contratti, l'arbitrato, l'impugnazione dei licenziamenti e anche dei contratti a termine (anche di cococo). A questo proposito si segnala un temine molto stretto, 60 giorni per l'impugnazione e 270 per il deposito del ricorso. Pubblichiamo un'analisti del testo che l'avvocato Bruno Del Vecchio ha predisposto per la Fnsi.


 


 


Nel mentre si predispone la presente nota, il provvedimento, che ha raggiunto una sua definizione dopo un lungo iter, non è ancora stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale (sarà poi pubblicato in  G.I: il 9/11/2010 con il n. 183, ndr).


E’ stata richiesta, da codesta Federazione Nazionale, una prima valutazione in ordine ai relativi contenuti di maggior rilievo.


 


* * *


 


Come si ricorderà, nel marzo scorso, il Presidente della Repubblica chiese alle Camere una nuova deliberazione su un analogo testo all’epoca inviatogli Parlamento, motivando la decisione attraverso un Messaggio dove venivano messi in evidenza, tra l’altro, i profili di incostituzionalità della normativa.


Il provvedimento odierno reca quindi alcuni cambiamenti, anche se l’impianto complessivo è rimasto molto simile rispetto alla precedente versione.


Vi sono 50 articoli, con oltre cento commi riferiti alle materie più disparate.


In questa prima analisi, si soffermerà l’attenzione su alcuni istituti che, come si vedrà, incideranno profondamente sulla disciplina del contratto individuale di lavoro e sul ruolo della contrattazione collettiva.


Per maggiore chiarezza, verrà seguito il seguente ordine espositivo:


- clausole generali


- certificazione dei contratti di lavoro


- conciliazione ed arbitrato


- regime delle decadenze (licenziamento, contratti a termine e contratti “precari” in genere).


 


Le clausole generali.


Ai sensi dell’art. 30, comma 1, del provvedimento, “in tutti i casi nei quali le disposizioni di legge nelle materie di cui all’art. 409 del codice di procedura civile e all’art. 63, comma 1, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, contengono clausole generali, ivi comprese le norme in tema di instaurazione di un rapporto di lavoro, esercizio dei poteri datoriali, trasferimento di azienda e recesso, il controllo del giudiziale è limitato esclusivamente, in conformità ai principi generali dell’ordinamento, all’accertamento del presupposto di legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro o al committente.”


La norma, prevalentemente di indirizzo e che trova applicazione sia nel lavoro privato che in quello pubblico, codifica ciò che nella consolidata giurisprudenza si afferma ormai da anni, soprattutto in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo e trasferimento (si veda, ad esempio, la sentenza n. 6559 del 18 marzo 2010 della Suprema Corte di Cassazione secondo la quale “il giustificato motivo oggettivo di licenziamento determinato da ragioni tecniche, organizzative produttive è rimesso alla valutazione del datore di lavoro, senza che il giudice possa sindacare la scelta dei criteri di gestione dell'impresa, espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall'art. 41 Cost. Pertanto, spetta al giudice il controllo in ordine all'effettiva sussistenza del motivo addotto dal datore di lavoro, e l'onere probatorio grava per intero sul datore di lavoro, che deve dare prova anche dell'impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte, onere che può essere assolto anche mediante il ricorso a risultanze di natura presuntiva ed indiziaria, mentre il lavoratore ha comunque un onere di deduzione e di allegazione di tale possibilità di reimpiego.”)


Il potere del giudice non può quindi estendersi fino al punto di entrare nel merito delle scelte aziendali, ma deve limitarsi ad una verifica di legittimità, cioè ad una verifica dell’effettiva compatibilità  tra le predette scelte e la normativa legale e contrattuale. Ad esempio, se un imprenditore intende sopprimere un posto di lavoro (e conseguentemente irrogare il licenziamento), il giudice non potrà sindacare la sua scelta (l’iniziativa economica privata è libera, come ricorda la sentenza citata), ma dovrà solo verificare, oltre al rispetto delle forme, se la soppressione vi è stata realmente e cioè se la medesima non “nasconde” altri intenti, ad esempio discriminatori o punitivi.


   Una norma, quale quella del comma 1 dell’art. 30, non introduce quindi nuovi principi, ma estende i medesimi a tutte le vicende attinenti ai rapporti di lavoro. La disposizione, per come è formulata, si presta infatti ad una applicazione generalizzata, ma vi sono delle materie, come quella disciplinare, dove potrebbero invero nascere problemi.


 Se un datore di lavoro sanziona un dipendente (lo licenzia per giusta causa o gli infligge alcuni giorni di sospensione o una multa) e quest’ultimo si rivolge al giudice per l’annullamento della sanzione deducendo l’insussistenza dei fatti contestati, il giudice è comunque chiamato verificare, oltre al rispetto delle forme (ad esempio, la corretta applicazione della procedura disciplinare prevista dall’art. 7 dello Statuto dei lavoratori) se tali fatti sussistono o meno: quindi entra – e non può fare altrimenti – nel concreto merito della scelta imprenditoriale.


   Personalmente non credo che tale principio possa essere modificato dalla nuova normativa. La ragione di legittimità della sanzione è proprio la sussistenza del fatto contestato e per questo motivo il giudice  non può prescindere da una attenta verifica di merito. Peraltro, è la stessa nuova disciplina a far salvi in ogni caso “i principi generali dell’ordinamento” (Costituzione, normativa comunitaria, complesso delle leggi) che non consentono in alcun modo la punizione di una persona senza il concreto riscontro degli addebiti.


 


La certificazione del contratto di lavoro


   L’istituto della certificazione, introdotto per la prima volta dal D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276 (c.d. Riforma Biagi) ha avuto, come noto, scarsissima diffusione alla luce dei vincoli posti dalla legge che hanno reso, fino ad ora, poco conveniente per le imprese ricorrere ad esso. Infatti, attraverso la procedura di certificazione, le parti potevano unicamente consolidare la qualificazione del contratto (ad esempio, una collaborazione coordinata e continuativa), ma la legge dava la possibilità al prestatore di lavoro di ricorrere al giudice per una molteplicità di ragioni rendendo, appunto, l’istituto poco conveniente per l’impresa.


Oggi, il provvedimento in esame (art. 30, comma 2 e seguenti) tende a dare nuovo impulso alla certificazione del contratto.


Il citato comma 2 così dispone: “Nella qualificazione del contratto di lavoro e nell’interpretazione delle relative clausole il giudice non può discostarsi dalle valutazioni delle parti, espresse in sede di certificazione dei contratti di lavoro di cui al titolo VIII del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 e successive modificazioni, salvo il caso di erronea qualificazione del contratto, di vizi del consenso o di difformità tra il programma negoziale certificato e la sua successiva attuazione”.


 Ed il seguente comma 3: “Nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento, il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi ovvero nei contratti individuali di lavoro ove stipulati con l’assistenza e la consulenza delle commissioni di certificazione di cui  titolo VIII del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 e successive modificazioni. Nel definire le conseguenze da riconnettere al licenziamento ai sensi dell’art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni, il giudice tiene ugualmente conto di elementi e di parametri fissati dai predetti contratti e comunque considera le dimensioni e le condizioni dell’attività esercitata dal datore di lavoro, la situazione del mercato del lavoro locale, l’anzianità e le condizioni del lavoratore, nonché il comportamento delle parti anche prima del licenziamento.”


 Le modificazioni introdotte sono quindi di assoluta rilevanza in quanto le funzioni dell’istituto vengono notevolmente ampliate. Oltre alla qualificazione dei contratti le commissioni di certificazione potranno:


- certificare le clausole inserite nel contratto individuale di lavoro;


- attribuire piena legittimità alle tipizzazioni di giusta causa e giustificato motivo contenute nel contratto individuale


- attribuire piena legittimità alla clausola compromissoria che apre la strada all’arbitrato su base equitativa;


- certificare, altresì, “elementi e parametri” che consentono di quantificare gli effetti risarcitori connessi all’art. 8 della legge n. 604 del 1966 (licenziamenti per i quali non è prevista la reintegrazione);


- essere sede per il tentativo di conciliazione di cui all’art. 410 del codice di procedura civile (comma 13);


- istituire camere arbitrali sia per il lavoro privato che per quello pubblico (comma 12).


In virtù delle innovazioni introdotte, occorre quindi domandarsi se, nei fatti, il legislatore ha introdotto una forma di derogabilità assistita del contratto di lavoro. E cioè, se attraverso la procedura di certificazione sarà possibile, per le parti, inserire nel contratto individuale clausole, elementi e parametri che possono discostarsi dalle norme legali e di contrattazione collettiva (di ogni livello ed ambito) poste a tutela del prestatore di lavoro.


 Un’interpretazione letterale della nuova disciplina porta ad una risposta positiva alla domanda. L’inciso “nell’interpretazione delle relative clausole”, contenuto, come ora visto, nel comma 2 dell’art. 30, può certamente essere letto nel senso che il riferimento non è alle clausole connesse ad individuare la tipologia del rapporto di lavoro, ma a quelle relative al suo contenuto. Peraltro, mentre la qualificazione del contratto potrebbe essere sempre messa in discussione dal lavoratore per errore, vizi del consenso e difformità tra programma negoziale e l’attuazione del medesimo (come era anche prima), nulla viene disciplinato, in proposito, per quanto attiene le clausole del contratto in esso contenute (ad esempio, la retribuzione, i giorni di ferie, i permessi, ecc.). Sembra eliminarsi, così, la possibilità per il lavoratore di “impugnare” tali clausole peggiorative nel corso del rapporto di lavoro o al suo termine, se le stesse sono state sottoscritte in sede “certificata”.


Anche la possibilità di attribuire, attraverso la procedura di certificazione, piena legittimità alle tipizzazioni di giusta causa e giustificato motivo di licenziamento contenute nel contratto individuale potrà certamente causare problemi al lavoratore.


La legge, come noto, non pone una definizione generale di giusta causa o giustificato  motivo di licenziamento. Le relative tipizzazioni sono, a volte, previste dalla contrattazione collettiva che, in via esemplificativa, individua alcune fattispecie concrete (come ad esempio il furto o le assenze reiterate e  ingiustificate). Nel settore giornalistico, l’art. 50 del CNLG ne prevede solo una, la violazione degli obblighi previsti dall’art. 8 (esclusiva), rinviando per il resto alla generale normativa sui licenziamenti.


E’ stato quindi assunto, a questo proposito, un ruolo fondamentale dalla giurisprudenza la quale, nel corso dei decenni, ha individuato i casi concreti di giusta causa o giustificato motivo di licenziamento


Con la “nuova” certificazione sarà invece possibile per le parti fissare, nel contratto individuale di lavoro, ipotesi particolari, anche molto “lievi”, che possono giustificare il recesso da parte del datore di lavoro. Ad esempio, potrà essere prevista l’ipotesi di licenziamento per giusta causa a seguito di minimi ritardi sull’orario di lavoro o errori nell’attività dovuti a minima negligenza ed il giudice sarà quindi vincolato a tali ipotesi, ritenute giusta causa di licenziamento dalle parti all’atto della stipulazione del contratto “certificato”. Un modo, in definitiva, per rendere più agevole il licenziamento.


Nel messaggio del 31 marzo 2010, con il quale venne rinviata alle Camere la legge avente contenuto simile alla presente, il Capo dello Stato ricordò al Parlamento che in caso di marcato squilibrio di potere contrattuale tra le parti, la Corte costituzionale aveva avuto già modo di riconoscere la necessità di garantire la effettiva volontarietà delle negoziazioni e delle eventuali rinunce. E’ evidente che un lavoratore, nel mentre può avere l’impellente necessità di stipulare un contratto, può essere “obbligato”, nel momento genetico del rapporto, ad accettare anche alcune clausole peggiorative rispetto alla generale normativa legale e contrattuale posta in suo favore (minimi tabellari, numero di giorni di ferie, ipotesi di recesso, ecc.). Per questo, l’effettiva soggezione del lavoratore, soprattutto nel momento in cui inizia a prestare la sua attività, deve essere contemperata dalla possibile applicazione di tutte quelle norme di origine comunitaria, nazionale o di contrattazione collettiva che negli anni sono state poste a sua tutela. E’ questo un principio di civiltà giuridica che ha oltretutto un fondamento costituzionale, come ricorda proprio il Presidente della Repubblica, che appare violato da questa incisiva forma di derogabilità assistita introdotta dalla nuova normativa.


Ma comunque vi è un aspetto da considerare.


Se nel contratto di lavoro “certificato” vengono inserite clausole che violano diritti fondamentali o indisponibili, norme comunitarie o costituzionali, disposizioni inderogabili di legge o di contratto collettivo, esse si traducono, concretamente, in un atto abdicativo relativo a diritti futuri.


La giurisprudenza, in proposito, ha affermato che le rinunzie a diritti non ancora sorti nel patrimonio giuridico del lavoratore (si veda, tra le altre, Cass. 14 dicembre 1998, n. 12548) sono affette da nullità. E tale principio sembra applicabile alle ipotesi di derogabilità assistita realizzata attraverso la certificazione. E’ vero che il lavoratore, in sede di certificazione, non è solo dinanzi al datore di lavoro, ma non si vede come la presenza di una Commissione possa attenuare la sua debolezza. Se decide di accedere alla procedura, vuol dire che ha già accettato le proposte del datore di lavoro, eventualmente condizionato dalle personali necessità.


La questione è comunque molto complessa e certamente bisognerà attendere i primi casi che verranno sottoposti alla magistratura per avere un quadro più chiaro delle questioni.


Un ultima annotazione è comunque opportuna.


La certificazione dei contratti individuali di lavoro può essere richiesta anche per i rapporti di lavoro già in essere e non solo per quelli futuri. In questo caso, “gli effetti dell’accertamento dell’organo preposto… si producono dal momento dell’inizio del contratto, ove la commissione abbia appurato che l’attuazione del medesimo è stata, anche nel periodo precedente alla propria attività istruttoria, coerente con quanto appurato in tale sede…” (art. 31, comma 17). Ma non è chiaro attraverso quali modalità la commissione possa appurare quanto richiesto dalla norma.


 


Conciliazione ed arbitrato


La preventiva ed obbligatoria procedura di conciliazione per tutte le controversie di lavoro è stata introdotta nel 1998 (in precedenza era prevista solo per le controversie aventi ad oggetto il licenziamento). Prima di adire il Giudice, quindi, la parte che intendeva far valere un proprio diritto (con esclusione delle procedure di urgenza o monitorie (i c.d. decreti ingiuntivi)) era obbligata ad esperire in sede sindacale o davanti all’apposita commissione della direzione provinciale del lavoro, un preventivo tentativo di conciliazione e solo successivamente, in caso di mancato accordo, di vana convocazione delle parti, o trascorso un lasso di tempo senza alcuna convocazione (sessanta giorni per il lavoro privato e novanta per quello pubblico), poteva liberamente azionare la causa.


  Il provvedimento in esame elimina l’obbligatorietà del prodromico tentativo di conciliazione, tranne i casi in cui si intenda impugnare un contratto di lavoro “certificato”. Il tentativo diventerà quindi una facoltà per chi intende agire in giudizio; una facoltà che, a mio parere, sarà comunque poco utilizzata in quanto la nuova normativa ha disciplinato la relativa procedura in maniera complessa ed articolata. Peraltro, qualora non si raggiunga l’accordo, il Giudice successivamente adito dovrà necessariamente tenere conto di quanto emerso durante la predetta procedura conciliativa. Dispone, infatti, il comma 3 dell’art. 31, che modifica l’art. 411 del codice di procedura civile, che “se non si raggiunge l’accordo, la commissione di conciliazione deve formulare una proposta per la bonaria definizione della controversia. Se la proposta non è accettata, i termini di essi sono riassunti nel verbale con indicazione delle valutazioni espresse dalle parti. Delle risultanze della proposta formulata dalla commissione e non accettata senza adeguata motivazione il giudice tiene conto in sede di giudizio”. Le parti quindi, per non incorrere in valutazioni sfavorevoli in sede di giudizio, non sono certamente incentivate a richiedere l’attivazione della preventiva procedura di conciliazione, soprattutto se hanno la volontà di rimanere ferme (o quasi) sulle rispettive posizioni.


Ma anche all’interno del processo, per quanto attiene la conciliazione, vi è una modifica sostanziale. Il Giudice, se prima doveva limitarsi ad esperire il tentativo di accordo, rimettendosi alla volontà delle parti in proposito, ha ora poteri più incisivi dovendo egli stesso formulare una proposta transattiva; e se la stessa è rifiutata, senza giustificato motivo, il comportamento assunto da chi manifesta il rifiuto diviene un comportamento comunque valutabile ai fini del giudizio.


In qualunque fase del tentativo di conciliazione, o al suo termine in caso di mancato accordo, le parti possono concordemente decidere di affidare alla commissione di conciliazione il mandato a risolvere, in via arbitrale, la controversia.


La conciliazione e l’arbitrato possono altresì essere svolti presso le sedi e con le modalità previste dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative. Inoltre, come prevede il nuovo provvedimento legislativo, le controversie di lavoro possono essere proposte innanzi ad un collegio di conciliazione ed arbitrato (c.d. irrituale) costituito ad hoc per accordo delle parti e con le modalità indicate al comma 7 e seguenti dell’art. 31.


 


* * *


 


L’incentivazione all’arbitrato in materia di lavoro (sia privato che pubblico) è uno degli scopi che il nuovo provvedimento si prefigge.


Non vi è dubbio che esso potrebbe essere un valido strumento di deflazione del contenzioso, ma è necessario che vengano assicurati alcuni requisiti, primo fra tutti l’attribuzione alle parti della stessa tutela sostanziale garantita nel giudizio ordinario.


Peraltro, come condivisibilmente affermato dalla Corte costituzionale con sentenza del 4 luglio 1977, n. 127, “la giustizia per arbitri dà risultati particolarmente soddisfacenti quando le parti si trovino in posizione di relativo equilibrio” 


Questi, quindi, sono i due aspetti essenziali che si devono considerare in materia arbitrale, soprattutto nell’ambito del lavoro:


a) effettività della tutela;


b) sostanziale posizione di equilibrio delle parti.


Se mancano (o se ne manca solo uno), non vi è dubbio che l’arbitrato invece di rappresentare un mezzo più agevole per chi si trova nella necessità di promuovere una controversia (quasi sempre il prestatore di lavoro), può rappresentare un mezzo fortemente limitativo dei diritti.


Vengo subito al primo punto: l’effettività della tutela.


Il provvedimento in esame prevede che in caso di arbitrato, nel conferire il relativo mandato, le parti devono indicare, tra l’altro, “le norme invocate dalle parti a sostegno delle loro pretese e l’eventuale richiesta di decidere secondo equità, nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento e dei principi regolatori della materia, anche derivanti da obblighi comunitari.” (art. 31, comma 5).


A stretto rigore interpretativo, la richiesta di un giudizio secondo equità è quindi nella libera scelta delle parti. Ciò è conforme a quanto da tempo stabilito dall’art. 822 del codice di procedura civile secondo il quale “gli arbitri decidono secondo le norme di diritto, salvo che le parti abbiano disposto con qualsiasi espressione che gli arbitri pronunciano secondo equità”. Ma vi è comunque da considerare, anche per ciò che verrà più avanti argomentato in relazione ai tempi e le modalità di sottoscrizione della c.d. clausola compromissoria che introduce l’arbitrato, che la libertà di scelta del lavoratore potrebbe risultare molto ridotta e, comunque, fortemente condizionata.


La giurisprudenza, sul punto, ha avuto modo di esplicitare che gli arbitri, quando sono chiamati a decidere secondo equità, “sono svincolati, nella formazione del loro giudizio, dalla rigorosa osservanza delle regole di diritto oggettivo, avendo facoltà di far ricorso a criteri, principi e valutazioni di prudenza e opportunità, che appaiono più adatti e più equi, secondo la loro coscienza, per la risoluzione del caso concreto, con la necessaria conseguenza che resta preclusa, ai sensi dell’art. 829, comma 2, ultima parte, cod. proc. civ., l’impugnazione per nullità del lodo di equità per violazione delle norme di diritto sostanziale…” (Corte di Cassazione, sentenza del 20 gennaio 2006, n. 1183).


Ma nel complesso sistema del diritto del lavoro, dove le norme legali e di contrattazione collettiva sono essenzialmente poste a tutela della parte debole del rapporto, un giudizio che può prescindere da esse si appalesa un giudizio che ipotizza, di per sé, la concreta possibilità di forte limitazione di tali tutele.


  E’ vero che la nuova disposizione fa salvi i principi generali dell’ordinamento e i principi regolatori della materia, anche derivanti da obblighi comunitari, ma l’individuazione concreta di tali principi può risultare estremamente difficile, con una conseguente ed ampia discrezionalità da parte degli arbitri.


           In proposito, secondo la Corte costituzionale, “si debbono considerare come principi dell’ordinamento giuridico quegli orientamenti e quelle direttive di carattere generale e fondamentale che si possono desumere dalla connessione sistematica, dal coordinamento e dalla intima razionalità delle norme che concorrono a formare, in un dato momento storico, il tessuto dell’ordinamento giuridico vigente.” (Corte Costituzionale 15 giugno 1956, n. 6). Il concetto, come è evidente, è indubbiamente vago e può lasciare spazio, come detto, ad una notevole discrezionalità di giudizio.


Un ipotetico elemento di certezza lo si riscontra comunque  nel contenuto delle norme di rango costituzionale che, sempre secondo la Consulta, sono da annoverare tra i principi generali dell’ordinamento (Corte Costituzionale 12 dicembre 1988,  n. 1107). Un collegio arbitrale, ad esempio, non potrà mai negare il diritto alle ferie di un lavoratore, garantito dall’art. 36 della Costituzione ma la certezza è comunque relativa perché potrà ridurre, in via equitativa, il numero dei giorni stabiliti dalla contrattazione collettiva. Lo stesso può accadere per la disciplina del riposo settimanale, garantito dalla costituzione nel principio, ma di fatto regolato dalla legge e dalla contrattazione collettiva per le sue modalità applicative (termini temporali, maggiorazioni retributive, ecc.).


Il problema, inoltre, potrebbe porsi anche per la retribuzione.


   Sempre il citato art. 36 della Costituzione garantisce una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro svolto e comunque sufficiente ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa. Non è la Costituzione, però, ad individuare il parametro retributivo che invero, per giurisprudenza costante, emerge dalla contrattazione collettiva di settore; contrattazione che può anche essere utilizzata, ma con alcune riduzioni, in caso di mancanza di una specifica disciplina collettiva applicabile al caso concreto. Anche da ultimo la Suprema Corte di Cassazione ha avuto occasione, in proposito, di affermare che "il giudice di merito, nel determinare il compenso o la retribuzione base spettante al lavoratore subordinato, può, nel caso di mancanza di una specifica contrattazione di categoria, utilizzare alla stregua dell'articolo 36 Cost., la disciplina collettiva di un settore - diverso da quello in cui di fatto ha operato il datore di lavoro - a semplici fini parametrali o di raffronto per la determinazione della sola retribuzione base spettante al lavoratore subordinato (senza riguardo agli altri istituti contrattuali). Tale determinazione puo' essere impugnata dal lavoratore in cassazione ex articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per violazione e/o disapplicazione del criterio giuridico della sufficienza della retribuzione - volto a garantire la soddisfazione dei bisogni di una esistenza libera e dignitosa - nonché di quello della proporzionalità - volto a correlare la stessa retribuzione alla quantità e qualità del lavoro prestato, rimanendo di contro l'apprezzamento in concreto dell'adeguatezza della retribuzione, riservato al giudice di merito". (Cass. 29 marzo 2010, n. 7528).


Il giudizio arbitrale equitativo non garantisce quindi, alla luce di quanto ora esposto, il rispetto di tale principio.


Altra questione, sempre con riferimento al problema dell’effettività della tutela, è quella relativa alla possibilità di impugnazione della decisione (definita lodo). Come noto, in un giudizio ordinario la parte dispone di due gradi di merito (Tribunale e Corte di Appello), nonché di un grado di legittimità (Corte di Cassazione). Con l’arbitrato non vi è invece la garanzia di una possibile riforma della decisione, se non per questioni strettamente formali.


Il lodo, infatti, per espressa disposizione contenuta nel provvedimento in esame,  è impugnabile in unico grado davanti al Tribunale in funzione di giudice del lavoro, ai sensi dell’articolo 808 – ter del codice di procedura civile. Tale articolo prevede l’annullabilità del lodo solo per ragioni di invalidità attinenti alla clausola compromissoria, per pronuncia che esorbita i limiti imposti in detta clausola, per motivi attinenti alla formazione del collegio arbitrale, per violazione del contraddittorio. Il Tribunale, pertanto, non ha il potere di riesaminare il merito della controversia, ma solo quello di annullare il lodo se ricorrono i vizi ora indicati o di confermarlo se tali vizi non sussistono.


La procedura arbitrale, secondo quanto stabilito numerose volte dalla Corte Costituzionale, non può mai essere obbligatoria (ad esempio, si possono vedere in proposito le sentenza n. 127 del 4 luglio 1977; n. 488 del 18 dicembre  1991; n. 221 del 6 giugno 2005, ed altre).


Il motivo principale per cui il Presidente della Repubblica, nel marzo scorso, rinviò alle Camere il provvedimento legislativo che recava norme analoghe all’odierno, fu proprio rappresentato dall’introduzione, di fatto, di tale obbligatorietà. La precedente normativa, infatti, confermava la generale facoltatività del giudizio arbitrale, ma prevedeva poi la possibilità di inserire, al momento della sottoscrizione del contratto di lavoro “certificato”, la clausola compromissoria, che avrebbe obbligato il prestatore di lavoro di devolvere ad arbitri le eventuali controversie relative al  rapporto di lavoro.


In tal modo, a parere del Capo dello Stato (e non solo di quest’ultimo) sarebbe venuta meno la sostanziale posizione di equilibrio delle parti, proprio perché è nel momento genetico del rapporto che vi è la più ampia disparità di forza tra lavoratore e datore di lavoro. Se il prestatore di lavoro è nella necessità di stipulare un contratto, il datore di lavoro può agevolmente richiedere la sottoscrizione del medesimo in sede certificata, inserendo in esso la clausola arbitrale.


Il nuovo provvedimento mantiene il principio della generale facoltatività della procedura arbitrale e, rispetto alla precedente versione, pone alcune modifiche per cercare di superare le censure mosse dal Presidente delle Repubblica.


Il comma 10 dell’art. 31, dopo aver premesso che “la clausola compromissoria, a pena di nullità, deve essere certificata… dagli organi di certificazione…” dispone che “le commissioni di certificazione accertano, all’atto della sottoscrizione della clausola compromissoria, la effettiva volontà delle parti di devolvere ad arbitri le eventuali controversie nascenti dal rapporto di lavoro. La clausola compromissoria non può essere pattuita e sottoscritta prima della conclusione del periodo di prova, ove previsto, ovvero se non siano trascorsi trenta giorni dalla data di stipulazione del contratto di lavoro, in tutti gli altri casi. La clausola compromissoria non può riguardare controversie relative alla risoluzione del contratto di lavoro…”


Il momento in cui può essere sottoscritta la clausola compromissoria (che comunque non può riguardare controversie relative alla risoluzione del contratto di lavoro)  è quindi spostato in avanti. Non più all’atto della stipula del contratto di lavoro ma dopo il superamento del periodo di prova o, comunque, dopo trenta giorni. E’ vero che ciò “rafforza” parzialmente la posizione del lavoratore; ma è altrettanto vero che quest’ultimo, nel caso in cui decida di non sottoscrivere la clausola proposta dal datore di lavoro subito dopo l’assunzione, rischia di compromettere comunque la sua posizione nell’impresa. Peraltro, è presumibile che il datore di lavoro, nel momento in cui decide di assumere il dipendente, preannunci in anticipo l’intenzione richiedere la sottoscrizione della clausola arbitrale appena maturato il termine, assicurandosi un impegno “morale” del prestatore il quale, dopo poco tempo, sarà psicologicamente vincolato ad accettare. Il vincolo psicologico rimane e ciò limita fortemente la libertà di scelta, anche se davanti alle commissioni di certificazione (così prevede la nuova disciplina) le parti potranno farsi assistere da un legale di fiducia  o da un rappresentante sindacale.


E’ comunque opportuno sottolineare un ulteriore aspetto in merito all’arbitrato, che coinvolge direttamente le prerogative sindacali.


Il primo inciso del citato comma 10 dell’art. 31 prevede che la pattuizione delle clausole arbitrali, nei termini e con le modalità ora illustrate nei tratti essenziali, è possibile solo “ove ciò sia previsto da accordi interconfederali o contratti collettivi di lavoro stipulati dalle organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.”


Ma, prosegue la norma, “in assenza degli accordi interconfederali o contratti collettivi… trascorsi dodici mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, il Ministro del lavoro e delle politiche sociali convoca le (predette) organizzazioni al fine di promuovere l’accordo. In caso di mancata stipulazione dell’accordo di cui al periodo precedente, entro i sei mesi successivi alla data di convocazione, il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, con proprio decreto, tenuto contro delle risultanze istruttorie del confronto tra le parti sociali, individua in via sperimentale, fatta salva la possibilità di integrazioni e deroghe derivanti da eventuali successivi accordi interconfederali o contratti collettivi, le modalità di attuazione e di piena operatività delle disposizioni di cui al comma 10.”


Il ruolo delle Organizzazioni sindacali in proposito risulta, pertanto, solo apparentemente valorizzato ma, in realtà, esso è chiaramente ridotto. Se un Sindacato, infatti, ritenesse di non voler stipulare un accordo sull’arbitrato, non consentendo in tal modo la stipulazione delle clausole compromissorie da parte dei suoi rappresentati, il Ministro del lavoro potrà avocare a sé la determinazione della relativa disciplina, aprendo la strada all’arbitrato medesimo. Peraltro – e ciò era stato già rilevato dal Presidente della Repubblica nel suo Messaggio del 31 marzo 2010 – non è chiara la natura normativa, nella forma e nella sostanza, dell’eventuale decreto del Ministro del lavoro, come non ne sono determinati i relativi contenuti.


In conclusione, dopo una disamina degli aspetti principali della riforma in materia di certificazione del contratto individuale di lavoro e dell’arbitrato, risulta evidente che la volontà del legislatore è quella di modificare profondamente la struttura dell’odierno diritto del lavoro, non utilizzando però strumenti di natura sostanziale, bensì incidendo sulla normativa processuale; sulla normativa, cioè, finalizzata, almeno fino ad oggi, alla concreta applicazione delle norme di tutela. Obiettivo delle modifiche, più volte proclamato, è quello della riduzione del contenzioso e della sua più rapida definizione. Personalmente ritengo, invece, che il contenzioso in realtà provvederà ad aumentare, proprio in virtù dei problemi che nasceranno dall’applicazione delle nuove norme.


 


Regime delle decadenze (licenziamenti, contratti a termine e contratti “precari” in genere).


In ogni ambito giuridico, tranne alcune eccezioni, esistono dei termini entro i quali l’interessato può esercitare la sua azione nei confronti della controparte. Questo per un’evidente esigenza di certezza dei rapporti giuridici.


Gli istituti della prescrizione e della decadenza sono proprio finalizzati all’individuazione di tali termini ed a disciplinare il loro esercizio.


Anche in materia di lavoro vi sono limiti temporali all’azione, in genere promossa dal lavoratore.


Il nuovo provvedimento muta radicalmente la vigente normativa, introducendo un regime decadenziale molto restrittivo.


Anche prima della nuova disciplina, il licenziamento irrogato al lavoratore doveva essere impugnato entro sessanta giorni dal ricevimento della comunicazione di recesso.


Disponeva, in particolare, l’art. 6 della legge n. 604 del 1966, che “il licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione… ovvero dalla comunicazione dei motivi ove questa non sia contestuale a quella del licenziamento.”


Secondo parte della giurisprudenza (si veda, tra le altre, Cassazione, Sezioni Unite, del 2 marzo 1987 n. 2180, generalmente seguita dai giudici di merito) tale termine non è applicabile al licenziamento inefficace per vizio di forma (ad esempio, non irrigato in forma scritta) o per omessa tempestiva comunicazione dei motivi richiesti. (E’ sempre comunque preferibile, a mio parere, cercare rispettare il termine di sessanta giorni in ogni ipotesi di licenziamento).


L’impugnativa può essere giudiziale o stragiudiziale. In altri termini, il lavoratore licenziato avrà l’onere, entro i sessanta giorni, di notificare il ricorso giudiziale alla controparte o di inviare al datore di lavoro un qualsiasi atto scritto mediante il quale manifesta inequivocabilmente la volontà di contestare il recesso. In questo secondo caso, il lavoratore – secondo la previgente disciplina – aveva la possibilità di presentare il successivo ricorso giudiziale entro il termine di prescrizione ordinaria (cinque anni, nella generalità dei casi).


Oggi, in virtù del comma 2 dell’art. 32 del provvedimento in esame, la disciplina muta sostanzialmente. Dopo che il lavoratore ha impugnato stragiudizialmente il licenziamento entro sessanta giorni (e ciò rimane immutato), “l’impugnazione è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di duecentosettanta giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta del tentativo di conciliazione o arbitrato, ferma restando la possibilità di produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso.” Inoltre, prosegue la norma, “qualora la conciliazione o l’arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l’accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo.”


Viene quindi introdotto il principio secondo il quale, dopo l’impugnazione stragiudiziale nei sessanta giorni, il lavoratore ha un lasso di tempo contenuto entro il quale depositare il ricorso giudiziale.


Ma le novità di rilievo non si esauriscono a ciò.


Le disposizioni che ora sono state illustrate si applicano, sempre in virtù della nuova normativa, in ulteriori ipotesi.


Si applicano, in primis, ai licenziamenti che presuppongono la risoluzione di questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro ovvero alla legittimità del termine apposto al contratto.


E’ questo il caso, ad esempio, di un contratto di lavoro autonomo a termine che il lavoratore ritiene invero subordinato. Egli avrà l’onere, dopo la conclusione del medesimo, di impugnare il recesso comunicato dal datore di lavoro entro sessanta giorni e di iniziare il relativo giudizio entro ducentosettanta giorni dalla predetta impugnazione o nei più ristretti termini prima indicati se era stata richiesta la conciliazione o l’arbitrato. A stretto rigore interpretativo, l’onere di impugnativa nei detti termini sembra sussistere solo in caso di “licenziamento” e, cioè, nel caso in cui il datore di lavoro comunichi  per iscritto il recesso e/o comunque la conclusione del rapporto. Ritengo però preferibile, per evitare di dover affrontare nel corso del giudizio sottili questioni giuridiche che potrebbero risolversi sfavorevolmente per il dipendente, rispettare i termini e, pertanto, manifestare formalmente entro sessanta giorni dalla conclusione del rapporto, anche se non vi è alcuna comunicazione della parte datoriale, la volontà di contestare la conclusione medesima e, comunque, la qualificazione del contratto, provvedendo ad intraprendere la successiva azione giudiziaria entro i termini prescritti.


Lo stretto regime decadenziale si applica, inoltre:


- al recesso del committente nei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, anche nella modalità a progetto.


- ai provvedimenti di trasferimento, con termine decorrente dalla data di ricezione della comunicazione di trasferimento.


- all’apposizione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro, ai sensi degli articoli 1, 2, 4 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, e successive modificazioni, con termine decorrente dalla scadenza del medesimo.


E’ necessario, a questo punto, soffermare l’attenzione sui contratti a termine e sulle collaborazioni coordinate e continuative (anche nella forma a progetto), essendo particolarmente incisiva, per essi, la nuova normativa decadenziale.


L’utilizzo di lavoro precario (o flessibile) è particolarmente vasto nel vigente panorama lavorativo, anche giornalistico. In molti lavoratori vi è comunque la legittima esigenza di trasformare, nel più breve tempo possibile, un lavoro precario in un lavoro stabile, che assicuri il soddisfacimento di ogni più elementare esigenza di vita quotidiana.


Spessissimo, vari rapporti di lavoro a termine (anche nella forma delle collaborazioni coordinate e continuative o a progetto) si susseguono nel tempo nella medesima impresa e vengono accettati dai prestatori solo perché non vi è altra possibilità.


Prima dell’odierna riforma, un lavoratore poteva stipulare anche molti contratti a termine (anche co.co.co.) alle dipendenze del medesimo datore di lavoro ed alla fine del rapporto (o in prossimità di essa) poteva rivolgersi alla magistratura deducendo l’illegittimità dei termini o della qualificazione del rapporto in relazione ad ogni contratto pregresso, anche se stipulato e concluso molti anni prima. Se un lavoratore, ad esempio, aveva stipulato dieci contratti a termine nell’arco di dieci anni, ben poteva impugnare, alla fine dell’intero rapporto, tutti i contratti stipulati, anche quelli di dieci, nove, otto  anni prima) e chiedere al giudice di valutare la legittimità di ognuno.


Del resto è stata la stessa giurisprudenza (anche della Corte Costituzionale) a stabilire che la prescrizione inizia a decorrere, in pendenza del rapporto di lavoro, dal momento in cui il diritto può essere fatto valere, solo se il rapporto è assistito dalla garanzia dell’applicabilità del regime della stabilità reale (sentenza della Corte Costituzionale n. 63 del 10 giugno 1966). Peraltro, il presupposto della stabilità reale va verificato avendo riguardo al concreto atteggiarsi del rapporto stesso ed alla configurazione che di esso danno le parti nell’attualità del suo svolgimento, poiché da ciò dipende l’esistenza o meno di un’effettiva situazione psicologica di timore del lavoratore (ad esempio, Cassazione n. 12665 del 15 dicembre 1997).


Ciò significa, in sostanza, che nell’ipotesi di una serie di rapporti di lavoro a termine destinati ad esaurirsi alla scadenza del termine senza nessuna garanzia in ordine alla loro riattivazione, la prescrizione dei crediti del lavoratore non decorre in costanza di rapporto anche se successivamente viene accertata dal giudice la nullità del termine e, quindi, l’esistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato eventualmente munito di stabilità per la ricorrenza dei requisiti dimensionali posti dalla legge (tra le altre, si veda la sentenza della Corte di Cassazione n. 5783 del 22 dicembre 1989).


Il nuovo provvedimento vanifica, di fatto, il principio ora ricordato, consolidatosi nei decenni scorsi.


Se un lavoratore, infatti, ha l’onere di impugnare un contratto a termine entro sessanta giorni dalla sua conclusione, si trova di fronte ad un bivio: o impugna subito il contratto appena concluso o accetta il contratto successivo, perdendo, in questo secondo  caso, la possibilità di contestare giudizialmente il primo. E’ facilmente presumibile, infatti, che un datore di lavoro, una volta ricevuta la contestazione di un contratto a termine, decida di non proporne altri al dipendente.


Il nuovo provvedimento, peraltro, applica tale nuova disciplina anche ai contratti di lavoro a termine stipulati ai sensi degli articoli 1, 2 e 4 del decreto legislativo n. 38 del 2001, in corso di esecuzione alla data di entrata in vigore della nuova legge, con decorrenza dalla scadenza del termine (comma 4, lettera a), articolo 32).


Ciò significa che se il lavoratore ha in corso di esecuzione un contratto a termine iniziato tempo qualche tempo fa, e lo stesso si conclude dopo l’entrata in vigore della nuova normativa, i sessanta giorni per comunicare al datore di lavoro l’impugnazione decorrono dalla sua conclusione (e dall’impugnazione decorrono i termini prima ricordati per depositare il ricorso giudiziale).


Ma vi è di più: la nuova disciplina si applica anche ai contratti a termine, stipulati in virtù di qualsiasi normativa, già conclusi alla data della sua entrata in vigore, con decorrenza dalla data medesima (comma 4, lettera b), articolo 32).


Questo vuol dire che sono coperti dalla nuova normativa anche tutti i contratti a termine (il provvedimento, a questo proposito, non menziona espressamente le altre forme di lavoro flessibile, come il co.co.co.) stipulati da un lavoratore molti anni addietro. Egli avrà quindi l’onere, se intende contestare i rapporti di lavoro pregressi, di impugnare i medesimi  entro sessanta giorni dall’entrata in vigore della legge e depositare il ricorso giudiziale entro i più volte menzionati, nuovi, termini (entro il 23 gennaio 2011, ndr)..


Termini decadenziali cosi stretti, come prima accennato, vanificano i principi giurisprudenziali prima richiamati, elaborati a tutela del lavoro precario e, quindi, del lavoro dove la soggezione psicologica del prestatore di lavoro è particolarmente forte. Ma in una prima disamina dell’argomento, che indubbiamente merita di essere successivamente approfondita, la ristrettezza dei termini sembra peraltro contrastare con i principi espressi dalla Direttiva Comunitaria 28 giugno 1999, n. 70, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato.


In tale Direttiva (clausola 1), vi è fissato che “l’obiettivo del presente accordo quadro e: a) migliorare la qualità del lavoro a tempo determinato garantendo il rispetto del principio di non discriminazione; b) creare un quadro normativo per la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato.”


In coerenza a tali principi, la Corte di Cassazione, con sentenza n. 11743 del 14 maggio 2010, ha di recente argomentato che:


“… è stato di recente chiarito dalla Corte di giustizia CE (cfr., in particolare sent. 23 aprile 2009 nei procc. riuniti da C - 378/07 a C - 380/07, Kiziaki e altri nonche' sent. 22 novembre 2005, C - 144/04, Mangold) che l'accordo quadro trasfuso nella direttiva 1999/70/CE contiene nel preambolo e del testo, sia norme riguardanti ogni tipo di contratto a termine, sia norme riferibili esclusivamente al fenomeno della reiterazione di tale tipo di contratto e, quindi, ai lavoratori dei contratti a termine c.d. successivi;


"risulta infatti chiaramente sia dall'obiettivo perseguito dalla direttiva 1999/70, sia dall'accordo quadro e dalla formulazione delle pertinenti disposizioni di esso, che... “l'ambito disciplinato da tale accordo non è limitato ai soli lavoratori con contratti di lavoro a tempo determinato successivi, ma che, al contrario, si estende a tutti i lavoratori che forniscono prestazioni retribuite nell'ambito di un determinato rapporto di lavoro che li vincola ai rispettivi datori di lavoro, indipendentemente dal numero di contratti a tempo determinato stipulati da tali lavoratori" (punto 116 della sentenza Kiziaki);


in particolare, nella prima categoria rientra a pieno titolo la clausola 8, n. 3 dell'accordo, alla stregua della quale "la applicazione" (della direttiva) "non costituisce un motivo valido per ridurre il livello generale di tutela offerto ai lavoratori nell'ambito coperto dall'accordo";


tale clausola, c.d. di non regresso, e' stata esplicitamente ritenuta dalla Corte di giustizia come riferita ad ogni aspetto della disciplina nazionale del contratto a termine e quindi anche a quella del primo o unico contratto a tempo determinato;


infatti: "la verifica dell' esistenza di una reformatio in pejus ai sensi della clausola 8 n. 3 dell'accordo quadro deve ritenersi in rapporto all'insieme delle disposizioni di diritto interno di uno Stato membro relative alla tutela dei lavoratori in materia di contratti di lavoro a tempo determinato" (punto 120 della medesima sentenza);


come e' stato recentemente rilevato in dottrina, in tal modo la clausola di non regresso persegue lo scopo, in generale, di impedire arretramenti ingiustificati della tutela nella materia considerata, nella ricerca di un difficile equilibrio tra esigenze di modernizzazione dei sistemi sociali nazionali, flessibilità del rapporto per i datori e sicurezza per i lavoratori; (…).


Indubbiamente, con l’emanazione del provvedimento legislativo in esame,  sussiste, nel senso chiarito dalla Suprema Corte di Cassazione, un arretramento delle tutele per i lavoratori assunti a termine (ed anche se occupati con altre forme di lavoro flessibile, come la collaborazione coordinata e continuativa). Bisognerà vedere, comunque, quale sarà l’atteggiamento che assumerà la giurisprudenza in proposito vista la complessità della disciplina che regola il rapporto tra normativa comunitaria e normativa nazionale.


E’ utile segnalare, infine, che il nuovo regime decadenziale si applica:


- alla cessione di contratto di lavoro avvenuta ai sensi dell’art. 2112 del codice civile (trasferimento di azienda) con termine decorrente dalla data del trasferimento;


- in ogni caso (compresa la somministrazione irregolare di lavoro) in cui il lavoratore chieda la costituzione o l’accertamento di un rapporto di lavoro in capo a un soggetto diverso dal titolare del contratto.


Anche per questi casi, quindi, il lavoratore per impugnare il contratto ed esperire l’azione giudiziale dovrà rispettare i nuovi termini oggi previsti.


 


* * *


 


Il comma 5 dell’art. 32 disciplina il nuovo regime sanzionatorio nel caso di accertamento di illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro.


Dispone il citato comma: “Nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604.”


La disposizione pone un immediato problema. Se si prevede la sola indennità risarcitoria, con ciò si vuole escludere la possibilità, per il lavoratore, di riprendere servizio a tempo indeterminato?


Chi azione una causa per l’illegittimità del termine ad un contratto di lavoro, lo fa essenzialmente per vedere riconosciuto in suo favore un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, per potere riprendere immediatamente a lavorare. Oltre, ovviamente, per ottenere il riconoscimento del risarcimento del danno (decorrente, allo stato attuale della consolidata giurisprudenza, dalla data di messa in mora del datore di lavoro e cioè, dalla data in cui viene richiesta, la prima volta, la ripresa a tempo indeterminato del servizio) e le differenze di retribuzione, se dovute.


La formulazione della nuova disciplina non è assolutamente chiara e sono convinto che procurerà molti problemi interpretativi, già sorti durante il lungo iter dei lavori parlamentari.


Con Ordine del giorno n. G/1667-B/6/1 – 11 al DDL n. 1167-B, accolto dall’Assemblea, il Senato ha impegnato il Governo “a garantire che la disposizione di cui all’art. 32 comma 5 venga correttamente intesa come riferita alla conversione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato e che, conseguentemente, la previsione della condanna al risarcimento del lavoratore venga intesa come aggiuntiva e non sostituiva della suddetta conversione”.


Inoltre, durante la seduta del 19 ottobre 2010 alla Camera dei Deputati di definitiva approvazione del provvedimento, a seguito di una richiesta di precisazioni sul punto, il Ministro del Lavoro Sacconi ha dichiarato che (come risulta dal relativo resoconto stenografico) “… il Governo condivide quanto poco fa richiamava il presidente della XI Commissione. Invero, al Senato è stato presentato un ordine del giorno con lo scopo di chiarire la portata della norma citata e il Governo ha accettato quell’ordine del giorno; pertanto, non ho alcuna difficoltà a ribadire che un’oggettiva lettura della norma stessa conduce a ritenere che la conversione di cui si parla sia la conversione del contratto da tempo determinato a tempo indeterminato, e che quindi non vi sia conflitto fra la conversione a tempo indeterminato e quella definizione di risarcimento, anzi i due termini coabitano.” 


Sembrerebbe quindi che anche la nuova normativa garantisca al lavoratore la conversione del contratto a tempo indeterminato, con il diritto alla ripresa del lavoro, oltre il risarcimento del danno nelle misura indicata.


Sottolineo sembrerebbe, in quanto sarebbe stato comunque preferibile riformulare chiaramente la disposizione in modo tale da non creare alcun problema ermeneutico. Anche perché il Giudice, se certamente può tener conto nella sua attività interpretativa di ciò che emerge durante i lavori parlamentari, rimane comunque libero di dare alle parole il senso che ritiene più appropriato. E’ vero che la norma in commento esordisce con l’inciso “nei casi di conversione del contratto a tempo determinato”, ma è altrettanto vero che, nel successivo nucleo normativo, viene disciplinato esclusivamente il risarcimento economico del danno. In definitiva, bisognerà attendere, anche in questo caso, le prime argomentazioni giurisprudenziali in proposito.


Comunque, ritengo personalmente, anche in virtù di ragioni giuridiche che trovano riscontro nel complesso di norme che regolano l’intera materia dei rapporti di lavoro a tempo determinato e che ora sarebbe troppo lungo illustrare, che una interpretazione corretta della nuova normativa faccia ritenere, come espresso nell’Ordine del giorno del Senato, che la condanna al risarcimento del lavoratore deve intendersi come aggiuntiva e non sostituiva della conversione del rapporto a tempo indeterminato.


Ma le preoccupazioni espresse da molti sono certamente fondate anche perché, come si ricorderà, già nel giugno 2008 (con il decreto legge n. 112, poi convertito dalla legge n. 133 del 6 agosto 2008) venne emanata una norma che, con riferimento ai soli giudizi in corso, escludeva il diritto per il lavoratore alla riassunzione a tempo indeterminato, assicurando al medesimo unicamente il risarcimento del danno fino ad un massimo di se mensilità.


La norma, poi dichiarata incostituzionale con sentenza della Consulta n. 214 del 14 luglio 2009, essenzialmente per la evidente discriminazione tra chi aveva un giudizio in corso e chi no,  utilizzava l’avverbio unicamente riferito al risarcimento del danno escludendo così la ripresa del servizio. Nella nuova disposizione non vi è tale avverbio (o parola di analogo significato) ed è quindi fondato ritenere che tale ripresa non sia esclusa.


Il chiarimento, comunque, non tarderà ad arrivare perché la nuova disposizione si applica, per espressa previsione contenuta nel successivo comma 6, anche e tutti i giudizi pendenti alla data di entrata in vigore della legge. Nelle aule di giustizia, quindi, verranno proposte subito dalle parti le eccezioni ed argomentazioni nascenti dalla nuova disciplina e così si potrà verificare, in tempi brevi, quali saranno le valutazioni dei giudici.


L’applicazione di tale nuova normativa anche ai giudizi pendenti ha comunque sollevato molte contestazioni.


Il giudizio è pendente fino a quando non interviene una sentenza passata in giudicato e cioè fino a quando non viene emessa una sentenza di Cassazione o una sentenza, anche di altro giudice, che non è più possibile impugnare.


Per volontà legislativa, quindi, nel caso di sentenza di primo o secondo grado (ma non ancora passata in giudicato), il lavoratore:


- è costretto a correre i rischi sopra menzionati, per quanto attiene alla ripresa del lavoro;


- dovrà subire oltremodo la rideterminazione delle somme eventualmente già assegnate a titolo di risarcimento del danno in virtù dei provvedimenti giudiziali già emessi.


Si faccia l’esempio del lavoratore che, in primo grado, ha ottenuto la conversione del contratto a tempo indeterminato (e che, quindi, ha già ripreso a lavorare) nonché una somma a titolo risarcitorio commisurata al tempo trascorso dalla messa in mora all’effettiva ripresa del servizio; e che alla data di entrata in vigore della nuova legge pende l’impugnazione.


In virtù delle nuove norme, la Corte di appello, anche se riterrà sussistenti i presupposti per la conferma della sentenza positiva di primo grado,


- dovrà valutare (nei termini anzidetti) se con la nuova legge potrà confermare il provvedimento di riammissione in servizio;


- dovrà comunque rideterminare il risarcimento del danno. Se, in virtù della prima sentenza il lavoratore aveva ottenuto e percepito di più della somma stabilita come congrua dalla Corte di appello rispetto al parametro fissato tra 2,5 e, 12 mensilità (il ché avviene spesso dati i tempi per arrivare alla decisione di primo grado), dovrà restituire al datore di lavoro la differenza.


Restano salve, in ogni caso, le somme percepite a titolo di differenze retributive: tali somme vengono in genere riconosciute per i periodi già lavorati prima del giudizio, quando il trattamento retributivo di un lavoratore assunto a termine è inferiore rispetto al trattamento retributivo di un lavoratore, della stessa impresa, assunto con contratto a tempo indeterminato.


In definitiva, anche se verranno confermate le decisioni in merito alla conversione del contratto a tempo indeterminato in virtù dell’interpretazione più positiva della nuova norma, colui che ha già vinto, ma in maniera ancora provvisoria, rischia comunque di dovere pagare lo scotto della restituzione di parte delle somme percepite, se superiori a quelle oggi determinabili in virtù della riforma.


Un‘ultima annotazione a proposito di risarcimento del danno. Il comma 6 dell’art. 32 prevede che “in presenza di contratti ovvero accordi collettivi nazionali, territoriali o aziendali, stipulati con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, che prevedano l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a termine nell’ambito di specifiche graduatorie, il limite massimo dell’indennità fissata dal comma 5 è ridotto alla metà”.


Ciò significa (ed anche tale disciplina si applica ai processi in corso) che se l’impresa datoriale ha formato, con accordo sindacale, una graduatoria per l’assunzione a tempo indeterminato di personale già occupato a tempo determinato, colui che fa causa per l’illegittimità del termine potrà ottenere, a titolo risarcitorio, la somma massima pari a sei mensilità di retribuzione; fatto sempre salvo, laddove venisse accolta la più corretta interpretazione in proposito, il diritto alla ripresa del servizio a tempo indeterminato ed il diritto alle differenze di retribuzione per i periodo lavorati, se dovute.


 


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In ultimo, è rilevante ricordare quanto previsto nell’ultimo articolo (50) del provvedimento in esame, in materia di collaborazioni coordinate e continuative.


Ecco il relativo testo: “Fatte salve le sentenze passate in giudicato, in caso di accertamento della natura subordinata di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, anche se riconducibili ad un progetto o programma di lavoro, il datore di lavoro che abbia offerto entro il 30 settembre 2008 la stipulazione di un contratto di lavoro subordinato ai sensi dell'articolo 1, commi 1202 e seguenti, della legge 27 dicembre 2006, n. 296,(normativa dettata, con la legge finanziaria 2007, per incentivare la stabilizzazione dei rapporti di lavoro) nonché abbia, dopo la data di entrata in vigore della presente legge, ulteriormente offerto la conversione a tempo indeterminato del contratto in corso ovvero offerto l'assunzione a tempo indeterminato per mansioni equivalenti a quelle svolte durante il rapporto di lavoro precedentemente in essere, è tenuto unicamente a indennizzare il prestatore di lavoro con un'indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità di retribuzione, avuto riguardo ai criteri indicati nell'articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604”


    Lo scopo della norma è chiaro: da un lato cercare di incentivare il datore di lavoro a stabilizzare, come subordinati, rapporti di lavoro di collaborazione coordinata e continuativa; dall’altro impedire al lavoratore, che ha rifiutato l’offerta di assunzione, di richiedere successivamente al giudice ciò che prima non ha accettato (anche se il problema della soggezione rimane, in quanto il datore di lavoro potrebbe formulare l’offerta e contestualmente richiedere, all’atto della regolare assunzione, la definitiva  rinuncia a tutti i diritti pregressi maturati durante l’esecuzione del contratto di collaborazione coordinata e continuativa).


     La norma, inoltre, non specifica attraverso quale forma debba manifestarsi l’offerta diretta al lavoratore. Sarebbe stato preferibile infatti, per evitare contestazioni in proposito, prevedere obbligatoriamente la forma scritta.


 


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Il provvedimento reca anche altre disposizioni rilevanti per i rapporti di lavoro (anche giornalistico); ad esempio in materia di: misure contro il lavoro sommerso (art. 4), orario di lavoro (art. 7), mobilità e aspettativa per il personale pubblico (art. 13 e art. 18), lavoro a tempo parziale (art. 16), pari opportunità (art. 21), di deleghe al governo per la disciplina in merito a congedi, aspettative e permessi (art. 23), incentivi all’occupazione, ammortizzatori sociali e lavoro femminile (art. 46), nonché in materia previdenziale ed assistenziale.


Sono tutte questioni di rilievo, ma indubbiamente le modifiche principali che incidono in maniera determinate sull’attuale assetto del diritto del lavoro sono quelle analizzate, in prima valutazione, nelle presenti pagine.


Rimango comunque a disposizione per ogni successivo approfondimento e, nel contempo, invio cordiali saluti


 


Bruno Del Vecchio, avvocato in Roma 


 


 







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