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Le immagini che pubblico neò mio sito (www.paolapastacaldi.it) alla voce “La donna è solo mercato” sono frutto di un lavoro durato quasi dieci anni e svolto per lo più mentre mi muovevo per la città durante il giorno, per le normali necessità di vita e lavoro. Debbo precisare che non sono una fotografa, ma una giornalista esperta di comunicazione su cui lavoro da anni. Queste foto, tutte rigorosamente pubblicitarie, sono state volutamente scattate con lo sguardo casuale di un passante che non ha molto tempo per pensare, ma coglie alle volte anche solo con un colpo d’occhio, nella fretta sostenuta della giornata, immagini intorno a lui, frammenti di cartelloni, particelle infinitesimali, forme, materiali, sguardi e particolari che a volte mai più rivedrà. E ha sensazioni che sono veloci come un lampo e che si sedimentano in quello che forse Freud chiamerebbe il subconscio. Questo correre in città che compone, alla fine, una grande fetta della nostra vita ho voluto che segnasse queste foto con l’elemento della sorpresa e della rapidità, anche se l’unico e solo soggetto erano i manifesti pubblicitari, piccoli o giganteschi, le vetrine, la cartellonistica che aveva per oggetto gli esseri umani, le donne in prima fila, ma anche gli uomini, alla fine i cittadini milanesi e non solo.
Per questo gli scatti sono stati occasionali. Ma l’obiettivo non è stato affatto casuale. Desideravo raccontare la città della pubblicità, la città delle donne e degli uomini di carta. Una città dove i manifesti sempre più giganteschi e sparsi ovunque (all’inizio solo i muri delle abitazioni in restauro, dopo molti altri muri dimenticati, dopo le chiese, ma anche il tribunale, il Duomo e così via) suggeriscono a noi non solo cosa comperare e come vestire, ma anche come pensare, come amare, come fare amicizia. Insomma, non solo apparire, ma anche essere.
Ora debbo fare un passo indietro. Sono stata consigliera per la cultura all’Ordine dei Giornalisti di Milano per due mandati dal 2000 al 2006. In quel periodo mi sono spesso occupata di scrivere articoli di analisi critica della stampa per i giornalisti, materia per cui ho avuto tre laboratori all’università di Milano e Cagliari. Tema estremamente scottante per i giornalisti di questi ultimi due, tre decenni.
Analisi critica della stampa voleva e vuole dire occuparsi della pubblicità. La pubblicità che ormai senza controllo finisce dentro gli articoli, non rispettando le leggi deontologiche dei giornali che chiedono ai giornalisti di tenere informazione e pubblicità separate e riconoscibili per rispetto del lettore e della verità sostanziale dei fatti. In questi anni di lavoro al Consiglio ho avuto modo di conoscere il modo in cui la pubblicità ha invaso i giornali con sempre maggiore aggressività. Sono diventata perciò molto attenta anche alla pubblicità che mi vedevo intorno, in città, fuori dal lavoro e fuori dalla lettura dei giornali. Per alcuni anni l’invasione pubblicitaria mi ha creato anche un disagio personale, infastidendomi la sua invasività, mentre semplicemente me ne andavo in giro per la mia città con l’intenzione di fare altro.
Ne è nato un conflitto interiore. La pubblicità invadeva anche i miei spazi privati. Da questo conflitto sono uscita iniziando a fotografare ciò che mi disturbava o che trovavo invasivo. Ho comperato una digitale e l’ho portata sempre con me! Ovunque. In metrò, per strada, mentre aspettavo l’autobus, mentre entravo in un negozio, mentre comperavo il pane o facevo la spesa. Persino mentre andavo in bicicletta mi fermavo di botto e fotografavo tutto ciò che colpiva di striscio il mio occhio e poi riprendevo la mia strada. Non ho avuto problemi a trovare i soggetti, si presentavano ovunque. Un amico fotografo mi disse un giorno: “Ti ci vuole un cavalletto per farle meglio”. Ecco ciò che non volevo, fare delle foto studiate. Il mio occhio ha colto le immagini di carta nei luoghi più impensati, nei modi più curiosi, assurdi, a volte volgari a volte, banali, improvvisati e veloci e, sì anche poetici ed eleganti. La pubblicità oggi è tutto.
Non desidero discutere qui delle necessità dei giornali di avere anche proventi pubblicitari, mi interessa invece la questione della comunicazione o della mediatizzazione degli spazi in cui viviamo, non solo dei grandi casi mediatici come Cogne, il mostro di Firenze, Olindo e Rosa. La mediatizzazione ormai riguarda anche gli spazi urbani in modo diverso. Milano si è trasformata in un grande contenitore pubblicitario. Qualcuno obietterà: ma anche alcune celebri piazze di Londra e New York, no? Non è esattamente la stessa cosa. Le pubblicità di New York nella famosa piazza rimangono pubblicità, sono così straordinarie, eccessive che divengono a volte un fumetto, un qualcosa di non reale. Insomma la distinzione tra finzione e realtà in qualch modo è salva. Le nostre pubblicità – fateci caso forse perché sono anche più belle – mimano sempre la realtà. Volontà dei pubblicitari? Casualità? Direi da filosofa che tendono a sosituirsi alla realtà. Sia un vestito, una scarpa, un telefono, una scatola di bellezza, una assicurazione un prodotto per il bagno, uno slip, una crema, un auto, una lavatrice – poco importa la banalità del prodotto - propongono modelli da seguire. Sono il modello e non solo per i soggetti deboli o i giovani. Anche per noi, persone di mezza età.
Cosa accade ai cittadini, ai milanesi, agli italiani, donne e uomini, che ogni giorno riscoprono una città abitata da esseri di carta, da uomini in mutande e donne mezze nude, cittadini visti nella loro intimità che vogliono dialogare con noi come fossero veri? Che accade al nostro senso estetico di esseri umani? Che accade ai nostri pensieri, ai nostri sentimenti quando vediamo modelle e modelli affissi sui muri del Tribunale, delle chiese più importanti e antiche e dei palazzi più belli (o meno belli) con affissioni che a volte durano anni con la scusa del restauro e si susseguono in un escalation emotivo di mercificazione?
(Vedi: “La donna è solo mercato. La questione femminile e i giornali” in http://www.odg.mi.it/node/30456)