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Le immagini di Gheddafi
e la pietas occidentale.

La morale della Libia
arcaica fatta di cabile
e tribù. L‘Africa resta
il paese delle Erinni.

“Alcuni giornali e radio hanno commentato la fine di Gheddafi parlando, ai margini, di immagini disumane, di corpo oltraggiato, di barbarie della vendetta. In breve, alludevano alla pietas. Ma questa è la nostra pietas, non è affatto quella dei popoli africani! Trovo questa visione dei fatti falsamente moralistica. O, meglio, trovo questi commenti velati di una mentalità che conserva ancora caratteri retrivi di colonialismo culturale”.

di Paola Pastacaldi - giornalista e scrittrice

Alcuni giornali e radio hanno commentato la fine di Gheddafi parlando, ai margini, di immagini disumane, di corpo oltraggiato, di barbarie della vendetta. In breve, alludevano alla pietas. Ma questa è la nostra pietas, non è affatto quella dei popoli africani! Trovo questa visione dei fatti falsamente moralistica. O, meglio, trovo questi commenti velati di una mentalità che conserva ancora caratteri retrivi di colonialismo culturale. Capisco di contraddire l’opinione di molti analisti dei media. Ma mi sembra che applichiamo pedissequamente la nostra cultura, la nostra morale alla cultura del popolo africano che invece si rapporta, ancora oggi, con una mentalità arcaica. Sono certa che, al di là dei ragionamenti razionali, l’immaginario collettivo sia della gente comune che degli opinionisti, cioè di coloro che hanno seguito minuto per minuto le fasi della caduta del leader, ha sempre in qualche modo saputo, pensato, temuto e persino immaginato una morte feroce, forse ancora peggiore di quella che è stata. Una morte arcaica e primitiva. Perché, come scriveva  Pasolini nel suo “Appunti per una Orestiade africana”, l’Africa è il paese delle Erinni, della vendetta. E questo pensiero non è solo letteratura ma una profonda realtà sociale.


E la Libia? La Libia è un paese ancora fatto di cabile e tribù. Sappiamo veramente che cosa significa, al di là  delle analisi politiche e degli interessi (vedi petrolio), vivere dentro un tribù? Credo proprio di no. La verità è che l’Africa è anche il paese delle zemecià, delle razzie, delle tribù, dove un giovane per essere uomo deve uccidere un altro uomo.  Durante il colonialismo alcuni, pochi, studiosi se ne sono anche occupati, come Enzo Cerulli o il governatore Ferdinando Martini. Da allora molto è mutato anche in Africa, ma con la povertà usi e costumi arcaici sono rimasti e pochi occidentali si prendono la briga di studiare l’Africa come è. Ci rapportiamo sempre agli africani solo per questioni politiche o di interesse, vedi petrolio, o di emergenza (vedi i boat people). Nel nostro arrovellarci e accanirci ad analizzare i fatti libici, giustamente partendo dalla storia, scordiamo che l’Africa non è l’Europa.


Coloro che hanno letto e studiato non solo la storia, ma anche il costume dei paesi d’Africa,  dei paesi ex coloniali, il lato selvaggio, arcaico, che noi europei sentiamo medioevale (usando un termine non so quanto consono all’Africa), sanno che non possiamo cancellarlo. I rapporti di vita in Africa obbediscono a leggi elementari di sopravvivenza. Quanto vale la vita in Africa? Poco, pochissimo, e non tanto perché gli africani sono selvaggi, ma perché danno altro valore alle cose, perché hanno altri principi e problemi di vita. Li conosciamo? Ammettiamo la nostra ignoranza.


Il giovane ribelle libico che ha combattuto per la sua libertà contro il dittatore e che si è trovato improvvisamente di fronte al grande nemico, in carne ed ossa, ma inerme, non poteva che ucciderlo, perché questo rispondeva alla sua cultura arcaica.


I media occidentali hanno fatto bene a farci vedere le foto del corpo del dittatore, perché ci hanno permesso di vedere quale è una parte fondamentale e profonda della realtà storica di quel paese. Lo aveva spiegato molto bene nel suo ultimo libro sulla fotografia Susan Sontag poco prima di morire, dove si diceva favorevole alla pubblicazione delle foto di guerra.


L’Africa è anche questo, un colpo alla testa immediato per eliminare il nemico, senza tanti problemi di giustizia e processi democratici. I nostri giudizi morali, per quanto corretti, appartengono ad un moralismo di ritorno.


Inutile applicare la nostra morale al giovane diciottenne che ha ucciso Gheddafi. L’africano, anche se ha studiato ad Oxford, vedi la dittatura messa in atto in Eritrea da Isaia Afework, spesso ritorna inesorabilmente a gestire la vita con somma violenza, non per caso, ma perché la vita in Africa vale molto molto meno che da noi.





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