Facilissimo, ordinario, capestro. L’accesso agli ordini non brilla per omogeneità. In base ai dati forniti a fine 2009 dal ministero dell’Università, nel corso degli anni Duemila la probabilità di ottenere l’abilitazione a un ordine o a un collegio si è ridotta in media del 10 per cento: solo il 55 per cento dell’intero popolo dei candidati raggiunge il traguardo dell’albo.
A fronte di un afflusso di aspiranti professionisti che cresce di anno in anno, calano le probabilità di farcela, nonostante l’incremento generale degli iscritti: tra il 1997 e il 2010 il loro numero complessivo da 1,5 a oltre 2 milioni. Ma l’accesso all’albo segue criteri differenti e all’interno delle varie categorie si trova di tutto. Per veterinari e farmacisti l’esame di Stato per immatricolarsi all’ordine è una pura formalità: a livello nazionale passa il 98 per cento dei candidati.
Non è molto diverso per odontoiatri (96 per cento), biologi e medici (95 per cento). Per altre categorie, invece, le prove scritte e orali possono diventare una batosta. Tra i consulenti del lavoro le supera appena il 31 per cento, tra gli avvocati il 24 per cento, tra i notai addirittura un misero 7 per cento.
Esclusi i casi in cui gli esami si svolgono a Roma a livello nazionale, come per giornalisti, biologi o notai, in generale le prove si tengono a livello locale, con accorpamento delle sedi nei luoghi in cui il numero di candidati è ridotto. Per categorie come consulenti del lavoro, psicologi, geologi, assistenti sociali, chimici e tecnologi alimentari gli esami sono gestiti dai consigli regionali in sinergia con le università.
In tutti gli altri casi ci pensano invece gli ordini provinciali. Sono i consigli dislocati sul territorio che contribuiscono a preparare e organizzare le sessioni scritte e orali, e che indicano la composizione delle commissioni d’esame, in genere condivise con membri scelti dai ministeri competenti: Università, Lavoro, Giustizia. All’interno delle commissioni sono designati professionisti, accademici, magistrati, esperti della materia, che periodicamente sono chiamati a valutare la preparazione di futuri ingegneri, avvocati o architetti. Nei casi in cui è richiesto, i candidati devono certificare lo svolgimento di un periodo di tirocinio da uno a due anni in uno studio professionale o in una struttura autorizzata. Il più delle volte il tirocinio è remunerato al minimo o per nulla, con ricadute professionali e familiari notevoli per chi rimane troppo a lungo in attesa di ottenere l’accesso. Talvolta, come accade per notai e avvocati, l’aiuto per preparare gli esami è fornito da apposite organizzazioni che fanno capo agli ordini stessi e alle università. Gli avvocati, per esempio, possono scegliere tra 77 scuole, con qualità di insegnamento e tariffe molto differenti tra loro.
Non sono le uniche spese. Se a livello locale il candidato non deve sopportare costi di vitto e alloggio, non è così quando deve spostarsi a Roma per sostenere gli esami. Secondo l’Antitrust la scarsa uniformità della selezione fa sorgere il sospetto che alcuni ordini stabiliscano a tavolino un’implicita barriera all’entrata. L’accusa è che i consigli, oltre a esaminare i candidati sotto il profilo tecnico, agiscano sotto la spinta di logiche corporative. Ma riforme parlamentari ad hoc su singole categorie e moniti del garante sono serviti a poco. D’altronde, il potere di un consiglio locale si esprime anche nella capacità di aprire o chiudere il rubinetto ai nuovi colleghi. A ciò contribuiscono fattori strutturali: per gli aspiranti medici esiste già il numero chiuso al momento dell’iscrizione all’università. Oppure, come avviene per i notai, c’è un numero fisso di posti stabilito in base a parametri economici e territoriali. Altrimenti la prassi può essere influenzata da logiche localistiche: in una zona dove il numero di iscritti all’albo è ritenuto eccessivo e il lavoro non basta per tutti può scattare la stretta, che poi potrà essere premiata in termini di voto al rinnovo degli organi dell’ordine. Viceversa, in zone dove predominano le logiche clientelari e di scambio elettorale può essere più conveniente abbassare la guardia sull’accesso all’albo e imbarcare iscritti, che troveranno il modo di sdebitarsi al momento del voto. Le differenze di valutazione tra una città e l’altra balzano all’occhio.
Per esempio, a fine anni Duemila gli aspiranti architetti sono promossi per il 94 per cento a Napoli e l’86 per cento a Palermo, ma solo per il 34 per cento a Torino e il 25 per cento a Trieste. A Palermo supera l’esame appena il 14 per cento dei candidati dottori commercialisti, a Udine il 7 per cento, mentre a Torino passa il 90 per cento. Sono tuttavia gli avvocati a vantare il primato della minore omogeneità. A fine anni Duemila gli idonei risultano il 16 per cento a Salerno, il 21 per cento a Milano, il 22 per cento a Firenze e Trento, il 27 per cento a Torino. In altre sedi d’esame la situazione si ribalta: 50 per cento a Bologna, 53 per cento a Catanzaro, 65 per cento a Palermo e Lecce. Tale disomogeneità sussiste malgrado una riforma del 2003 varata dal leghista Roberto Castelli, ministro alla Giustizia, che ha ridotto la variabilità dell’esito delle prove forensi. Fino ad allora, infatti, gli scarti tra una sede e l’altra erano ancora più marcati. Con le nuove regole cambia la formula: nelle commissioni non sono più presenti membri dei consigli locali ma liberi avvocati del foro, e a chi svolge l’incarico di commissario è vietato di can- didarsi alle elezioni dell’ordine immediatamente successive agli esami. Questo per annullare il pericolo di scambi di interessi e voti tra consiglieri e candidati. La riforma Castelli ha introdotto un’altra novità: gli elaborati di ogni sede sono corretti dai consigli di un’altra sede distrettuale abbinata con sorteggio.
Vagonate di scritti sono spediti a ordini lontani centinaia di chilometri. Motivo? Contenere il fenomeno del cosiddetto turismo forense: aspiranti avvocati che si spostano da una città all’altra, con la compiacenza di colleghi che attestano tirocini di facciata, nella speranza di affrontare un esame più facile. Così, dal 2003, si spariglia: gli scritti di Milano sono corretti a Roma e viceversa. Siccome le prove orali restano di competenza della sede originaria, non è infrequente che si cerchi di compensare il tasso di ammessi e respinti: se dagli elaborati di Milano, corretti a Roma, risultano troppi promossi, agli orali Milano ne boccerà di più. I candidati che non ce la fanno possono tentare di diventare avvocati all’estero e poi farsi riconoscere in Italia: la via preferita è quella spagnola, ma i corsi formativi sono costosi e pochi la percorrono, anche perché c’è il rischio di restare marchiati dallo stigma del «furbo». Ancora nel 2009 è Catanzaro una delle città più generose nel garantire l’accesso all’albo. Un primato che in passato, quando ogni ordine locale correggeva da sé i propri esami con commissioni composte anche da esponenti del consiglio forense del luogo, è stato ancora più netto e ha dato origine a un clamoroso scandalo.
Lo scandalo di Catanzaro: oltre duemila compiti-fotocopia
Su 2301 prove scritte per l’accesso all’albo degli avvocati consegnate a metà dicembre del 1997 alla commissione d’esame di Catanzaro, ben 2295 risultano identiche. Soltanto sei elaborati, cioè lo 0,13 per cento del totale, appare non copiato. Lo verifica la Guardia di finanza, dopo la soffiata di alcuni esclusi, su mandato della Procura della Repubblica di Catanzaro.
Si apre un’indagine resa pubblica nell’estate 2000 da Gian Antonio Stella sul «Corriere della Sera», in cui si denunciano compiti identici, riga per riga, parola per parola. Le tre prove di diritto civile, diritto penale e atti giudiziari non mettono in risalto differenze. Sono uguali anche negli errori: tutti correggono l’avverbio «recisamente » in «precisamente». Una concorrente rivela che un commissario avrebbe letteralmente dettato lo svolgimento dei temi ai candidati. Racconta: «Entra un commissario e fa: “scrivete”. E comincia a dettare il tema, piano piano, per dar modo a tutti di non perdere il filo». Giuseppe Iannello, presidente dell’ordine forense di Catanzaro, smentisce tutto. Iannello non è uno qualunque ma un notabile dell’ente di categoria. È una vita che siede nel consiglio forense di Catanzaro, del quale per decenni rimane incontrastato presidente (lo sarà fino al 2012), spesso partecipando direttamente alle commissioni d’esame. Molto conosciuto in tribunale, consulente della Regione Calabria e storico socio del Lions club di Catanzaro, Iannello, che ha uno studio anche a Roma, leva la voce a difesa della procedura di accesso alla professione. Ma la candidata continua: «Che imbecilli quelli che hanno parlato, sono stati loro a incasinare tutto. Se non avessero piantato un casino sarebbe andato tutto liscio». L’indagine è affidata ai pm Luigi de Magistris e Federica Baccaglini, che ipotizzano il reato di falso specifico e inviano ben 2295 avvisi di garanzia. Il clima è pesante e il consiglio dell’ordine calabrese protesta contro la «ferocia demolitrice della stampa» e la volontà di «aggredire tutta la città di Catanzaro». Lo scandalo dei 2295 compiti-fotocopia alza il velo su una prassi che molti conoscono.
La sede d’esame della città calabrese è nota per l’altissimo numero di partecipanti e promossi: oltre il 90 per cento. Una marea che sbilancia l’intero numero di accessi nazionali. Non è l’unica mecca delle toghe: le fa concorrenza anche Reggio Calabria che, tra l’altro, nel 2001 promuove il futuro ministro dell’Istruzione per il Pdl Mariastella Gelmini in trasferta da Brescia. Ma Catanzaro è da Guinness dei primati. I candidati arrivano da tutta Italia, e I veri intoccabili soprattutto dalle sedi del Nord dove gli esami sono molto selettivi. Gli aspiranti avvocati milanesi o torinesi risultano residenti a Catanzaro per i sei mesi necessari per il tirocinio, svolto in studi legali del luogo, i quali certificano il praticantato dei futuri colleghi. Frotte di giovani si fanno consigliare dove e come chiedere ospitalità. In città esistono numerose pensioni e alloggi, oltre a cinque alberghi, che periodicamente accolgono con pacchetti scontati i pellegrini forensi. Tutti sanno come funziona e nessuno se ne lamenta. L’omertà è totale. I magistrati interrogano gruppi di candidati dell’esame del dicembre 1997, che rispondono all’unisono: «Mi portai sovente in bagno per bisogni fisiologici […]. Non so spiegare la coincidenza tra gli elaborati da me compilati e quelli esibiti. Mi preme tuttavia evidenziare che qualcuno potrebbe avermi copiato durante la mia assenza». Mentre il procedimento giudiziario avanza a fatica per la difficoltà di gestire un numero così grande di indagati, tutti gli aspiranti avvocati dell’esame del 1997 rifanno le prove nel 1998 nel medesimo posto e sono promossi. Dopo otto anni di indagini e rinvii, nell’estate 2005 il pm Federico Sergi, nuovo titolare dell’indagine, chiede e ottiene per ciascuno il «non luogo a procedere per avvenuta prescrizione». Tutto finito.
© 2011 Chiarelettere editore srl
Tratto da Franco Stefanoni, I veri intoccabili, Chiarelettere, pp.224, euro 15
Franco Stefanoni è giornalista de “il Mondo”. Da anni si occupa di liberi professionisti e ordini professionali, raccontandone fatti e misfatti. È autore di Finanza in crac (Editori Riuniti, 2004), Il codice del potere (2007), Il finanziere di Dio. Il caso Roveraro (2008), Mafia a Milano (con Mario Portanova, Giampiero Rossi, nuova edizione 2011) tutti pubblicati da Melampo.
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