Roma, 9 dicembre 2011. L’individuazione delle professioni, la disciplina dei relativi percorsi formativi e l’esame di Stato per accedere alle professioni stesse sono di competenza esclusiva dello Stato. Lo ha ribadito, con un indirizzo costante, la Corte costituzione in 22 sentenze pronunciate dal 2003 al 2010 (nn. 353 del 2003, 319, 255 e 424 del 2005, 40, 153, 423, 424 e 449 del 2006, 57, 300 e 443 del 2007, 93, 179 e 222 del 2008, 138, 271 e 328 del 2009, 131, 132; 300 del 2010 e 230 del 2011).
Leggiamo la sentenza 153/2006, sesta in ordine di tempo dal dicembre 2003. Questa volta presa di mira dalla Consulta, su ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, è l’articolo 32, comma 1, della legge della Regione Piemonte n. 1 del 2004, che contrasterebbe con l'art. 117, comma terzo, della Costituzione, giacché l'ambigua espressione «individua» sembrerebbe riservare alla Regione la determinazione dei titoli professionali e dei correlativi contenuti della professione, in contrasto con il riparto di competenze previsto dalla norma costituzionale in materia di professioni. Inoltre, secondo Palazzo Chigi, l'articolo 32, comma 2, della medesima legge regionale, nel prevedere quali titoli idonei per l'accesso alla professione di educatore professionale titoli diversi da quelli già richiesti dalla disciplina statale (titoli di formazione regionale e titoli universitari senza alcun esame finale abilitante), violerebbe l'art. 117, terzo comma, Costituzione, perché apparterrebbe alla determinazione dei principi fondamentali l'individuazione, per ciascuna professione, quanto meno del contenuto e del corrispondente titolo professionale; e si porrebbe in contrasto, altresì, con l'art. 33 della Costituzione, perché la materia degli esami di Stato rientrerebbe nell'ambito della potestà legislativa esclusiva dello Stato, con la conseguenza che per le professioni regolamentate, alle quali si accede con un esame di Stato, la disciplina dei titoli che danno accesso alla professione, nonché quella dei relativi percorsi formativi, è di esclusiva competenza statale. La Consulta osserva preliminarmente che l'art. 32 della legge della Regione Piemonte n. 1 del 2004, dedicato alle figure professionali che operano nei servizi sociali, va ricondotto alla materia delle “professioni”, appartenente alla competenza legislativa concorrente, ai sensi dell'art. 117, terzo comma, della Costituzione.
Alla stregua di quanto affermato in materia, la Corte costituzionale ribadisce che “ – spettando allo Stato la determinazione dei principi fondamentali nelle materie di competenza concorrente previste dall'art. 117, terzo comma, della Costituzione – qualora non ne siano stati formulati di nuovi, la legislazione regionale deve svolgersi (ai sensi dell'art. 1, comma 3, della legge 5 giugno 2003, n. 131) nel rispetto di quelli risultanti anche dalla normativa statale in vigore (sentenza n. 355 del 2005)”.
Si legge ancora nella sentenza: “Parimenti, va riaffermato che la potestà legislativa regionale nella materia concorrente delle ‘professioni’ deve rispettare il principio secondo cui l'individuazione delle figure professionali, con i relativi profili e i titoli abilitanti, è riservata, per il suo carattere necessariamente unitario, allo Stato, rientrando nella competenza delle Regioni la disciplina di quegli aspetti che presentano uno specifico collegamento con la realtà regionale. Tale principio, al di là della particolare attuazione ad opera di singoli precetti normativi, si configura infatti quale limite di ordine generale, invalicabile dalla legge regionale (sentenze n. 40 del 2006, n. 424 e n. 319 del 2005 e n. 353 del 2003). L'art. 32, comma 1, della legge della Regione Piemonte n. 1 del 2004, provvedendo ad individuare direttamente le figure professionali, alle quali la Regione fa ricorso per il funzionamento del sistema integrato di interventi e servizi sociali, viola il principio fondamentale che assegna allo Stato l'individuazione delle figure professionali. Altrettanto lesiva delle competenze statali è la disposizione di cui al comma 2 del medesimo art. 32. La stessa indicazione, da parte della legge regionale, di specifici requisiti per l'esercizio della professione di educatore professionale, anche se in parte coincidenti con quelli già stabiliti dalla normativa statale, viola senza dubbio la competenza dello Stato, risolvendosi in un'indebita ingerenza in un settore, quello della disciplina dei titoli necessari per l'esercizio della professione, costituente principio fondamentale della materia”.
Leggiamo ora una delle sentenze più recenti, la 300/2010, che riguarda la legge della Regione Basilicata 13 novembre 2009 n. 37 (Norme in materia di riconoscimento della figura professionale di autista soccorritore). La Corte costituzionale ne ha dichiarato l’illegittimità con questo ragionamento, che non si discosta dalle altre motivazioni precedenti: “Questa Corte ha più volte affermato che «la potestà legislativa regionale nella materia concorrente delle professioni deve rispettare il principio secondo cui l’individuazione delle figure professionali, con i relativi profili e titoli abilitanti, è riservata, per il suo carattere necessariamente unitario, allo Stato, rientrando nella competenza delle Regioni la disciplina di quegli aspetti che presentano uno specifico collegamento con la realtà regionale. Tale principio, al di là della particolare attuazione ad opera dei singoli precetti normativi, si configura infatti quale limite di ordine generale, invalicabile dalla legge regionale. Da ciò deriva che non è nei poteri delle Regioni dar vita a nuove figure professionali» (sentenza n. 153 del 2006, nonché, ex plurimis, sentenze n. 57 del 2007 e n. 424 del 2006). La legge in esame istituisce la figura professionale dell’autista soccorritore (art. 1) e ne disciplina il percorso di formazione, rimettendo ad un regolamento della Giunta regionale la regolamentazione e l’organizzazione dei corsi di formazione professionale per ottenere il titolo abilitativo (art. 2). Inoltre, tra i compiti e le funzioni attribuiti alla nuova figura professionale ve ne sono alcuni riconducibili direttamente allo svolgimento di professioni sanitarie, come la «capacità di riconoscere le principali alterazioni alle funzioni vitali attraverso la rilevazione di sintomi e di segni fisiologici», e «la conoscenza delle procedure da adottare in caso di TSO (trattamento sanitario obbligatorio)» (allegato B e art. 5), o come il supporto al personale responsabile della prestazione sanitaria e agli altri operatori dell’equipaggio, in caso di interventi di urgenza/emergenza per «la liberazione delle vie aeree, il mantenimento della temperatura corporea, il mantenimento delle funzioni vitali e la defibrillazione effettuata a mezzo DAE (defibrillatore semiautomatico esterno)» o per «le procedure diagnostiche e la stabilizzazione del paziente sul luogo dell’evento» (allegato A e art. 5). L’art. 1 della legge 1° febbraio 2006, n. 43 (Disposizioni in materia di professioni sanitarie infermieristiche, ostetrica, riabilitative, tecnico-sanitarie e della prevenzione e delega al Governo per l’istituzione dei relativi ordini professionali), prevede che «sono professioni sanitarie infermieristiche, ostetriche, riabilitative, tecnico-sanitarie e della prevenzione, quelle previste ai sensi della legge 10 agosto 2001, n. 251 [...] i cui operatori svolgono, in forza di un titolo abilitante rilasciato dallo Stato, attività di prevenzione, assistenza, cura o riabilitazione». Pertanto, la legge regionale censurata, istituendo la figura di autista soccorritore e regolandone il percorso formativo diretto al conseguimento del relativo attestato di qualifica, nonché attribuendole compiti e funzioni riconducibili direttamente allo svolgimento di professioni sanitarie, non rispetta il limite imposto dall’art. 117, terzo comma, Cost. in materia di professioni, secondo il quale l’individuazione delle figure professionali, con i relativi profili e titoli abilitanti, è riservata, per il suo carattere necessariamente unitario, allo Stato (sentenza n. 179 del 2008)”.
La sentenza più recente (n. 230/2011) stronca, invece, la legge del 22 novembre 2010, n. 28 (Norme in materia di sport nella Regione Calabria): “Le disposizioni impugnate vanno senza dubbio ascritte alla materia, di legislazione concorrente (art. 117, terzo comma, Cost.), delle professioni, dato che ne è evidente la finalità, e l’effetto obiettivo, di incidere sulla individuazione dei profili professionali operanti nell’ambito sportivo: questa Corte ha già ritenuto che, ai fini della selezione della materia pertinente, non abbia «alcuna influenza» l’oggetto su cui si esercita l’attività professionale, venendo in rilievo la sola prioritaria attinenza dell’intervento legislativo al campo delle professioni (sentenze n. 424 del 2005, n. 138 del 2009, n. 222 del 2008, n. 40 del 2006). Si tratta, perciò, di decidere se il legislatore regionale abbia ecceduto i limiti della normativa di dettaglio. Sotto tale profilo, va posto in rilievo che le norme censurate operano su di un duplice livello: da un lato, esse consentono alla Giunta, ove la legge statale non abbia riconosciuto determinate figure professionali, di definirne gli elementi costitutivi e le modalità formative (art. 17, comma 1, lettera a); dall’altro lato, istituiscono direttamente (art. 3, comma 1, lettera m; art. 11, comma 5) o per atto della Giunta (art. 17, comma 1, lettera b), e comunque disciplinano (art. 11, commi 6 e 7) gli albi professionali.
Si è perciò in presenza di un articolato intervento, il cui nucleo si colloca nella fase genetica di individuazione normativa della professione: all’esito di essa una particolare attività lavorativa assume un tratto che la distingue da ogni altra e la rende oggetto di una posizione qualificata nell’ambito dell’ordinamento giuridico, di cui si rende espressione, con funzione costitutiva, l’albo.
Questa Corte ha costantemente ritenuto che una simile operazione abbia carattere di principio e competa pertanto al solo legislatore statale (ex plurimis, sentenze n. 300 del 2010, n. 328 del 2009, n. 93 del 2008, n. 57 del 2007, n. 153 del 2006, n. 424 del 2005 e n. 353 del 2003). In particolare, non spetta alla legge regionale né creare nuove professioni, né introdurre diversificazioni in seno all’unica figura professionale disciplinata dalla legge dello Stato (sentenza n. 328 del 2009), né, infine, assegnare tali compiti all’amministrazione regionale, e in particolare alla Giunta (sentenze n. 93 del 2008, n. 449 del 2006). Infatti, la potestà legislativa regionale si esercita sulle professioni individuate e definite dalla normativa statale (art. 1, comma 3, del decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 30, recante norme in tema di ricognizione dei principi fondamentali in materia di professioni, ai sensi dell’articolo 1 della legge 5 giugno 2003, n. 131).
Nel caso di specie, le disposizioni impugnate sono incorse in tutti questi profili di invasione della competenza statale: l’art. 11, comma 5, contiene un elenco di professioni sportive, anche ignote, in quanto tali, alla legge nazionale (cariche nelle associazioni sportive dilettantistiche; dirigenti sportivi; esperti gestori di impianti sportivi; istruttori qualificati; tecnici federali; assistenti o operatori specializzati; atleti e praticanti; altre figure tecnico-sportive): l’incompiutezza della descrizione normativa rende, poi, obbligato il ricorso ad un atto della Giunta, al fine di definirne in forma sufficientemente analitica gli elementi costitutivi.
Nel contempo, l’albo professionale non svolge una funzione meramente ricognitiva o di comunicazione e di aggiornamento di professioni già riconosciute dalla legge statale, come è invece consentito disporre da parte della legge regionale (sentenza n. 271 del 2009), ma, all’esito di un percorso formativo cui è subordinata l’iscrizione, assume una particolare capacità selettiva ed individuatrice delle professioni, che ne tradisce l’illegittimità costituzionale, «anche prescindendo dal fatto che la iscrizione nel suddetto registro si ponga come condizione necessaria ai fini dell’esercizio della attività da esso contemplata» (sentenze n. 93 del 2008, n. 132 del 2010, n. 138 del 2009). L’introduzione dell’albo, inoltre, diviene indice sintomatico (sentenza n. 93 del 2008) dell’illegittimità dell’intervento normativo regionale, anche con riguardo alle figure dei fisioterapisti e dei massaggiatori, indicate dall’art. 11, comma 5, lettera h), ma oggetto di normazione da parte della stessa legge dello Stato.
Quanto ai fisioterapisti, non è consentito alla legge regionale, a fronte di un profilo compiutamente descritto dal decreto ministeriale 14 settembre 1994, n. 741 (Regolamento concernente l’individuazione della figura e del relativo profilo professionale del fisioterapista), sulla base dell’art. 6, comma 3, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), conferire una particolare specificità al fisioterapista sportivo, giungendo a richiedere a tal fine il conseguimento di un titolo rilasciato da enti pubblici o istituzioni sportive abilitate, in potenziale contrasto con le competenze attribuite sul punto al Ministro dell’università e della ricerca scientifica (art. 6, comma 3, del d. lgs. n. 502 del 1992).
Analogamente, la normativa statale si è limitata ad istituire l’albo dei massaggiatori privi della vista (art. 8 della legge 21 luglio 1961, n. 686, recante norme sul collocamento obbligatorio dei massaggiatori e massofisioterapisti ciechi), senza conferire invece ai massaggiatori sportivi alcuna posizione differenziata, rispetto a quanto previsto in via generale, e con riguardo anche al titolo di studio necessario, dalla legge 19 maggio 1971, n. 403 (Nuove norme sulla professione e sul collocamento dei massaggiatori e massofisioterapisti ciechi) (sentenze n. 179 del 2008, n. 449 del 2006, n. 319 del 2005). Né emerge quale particolare collegamento vi possa essere tra le disposizioni censurate e le peculiari esigenze della realtà territoriale cui la legge regionale si rivolge, e in relazione alle quali soltanto si giustifica l’intervento legislativo di dettaglio nella materia delle professioni (sentenza n. 153 del 2006). In conclusione, tutte le disposizioni impugnate si pongono in contrasto con l’art. 117, terzo comma, Cost., e vanno conseguentemente dichiarate costituzionalmente illegittime”.
Le leggi 138 e 183/2011 nonché il dl 201/2011, che hanno riordinato l’organizzazione delle professioni intellettuali regolamentate, non hanno violato in alcun modo il dettato costituzionale.
ARTICOLI CORRELATI
In http://www.francoabruzzo.it/document.asp?DID=7636 – Dpr –OdG-Lstabilità
In http://www.francoabruzzo.it/document.asp?DID=7667 – Odg e Legge stabilità
In http://www.francoabruzzo.it/document.asp?DID=5828 - Odg ok dall’Ue
In http://www.francoabruzzo.it/document.asp?DID=7691 –Leggi 2011/professioni
In http://www.francoabruzzo.it/document.asp?DID=7710 –Laurea abilitante
In http://www.francoabruzzo.it/document.asp?DID=7712 - Ordini/Monti pensiero
in http://www.francoabruzzo.it/document.asp?DID=7756 -138et183-analisiGargano
In http://www.francoabruzzo.it/document.asp?DID=7711 – esame di S. una beffa
In http://www.francoabruzzo.it/document.asp?DID=7780 – Ue/meno professioni
In http://www.francoabruzzo.it/document.asp?DID=7808 - Giornalisti-in Cost
In http://www.francoabruzzo.it/document.asp?DID=7868 – Via gli Ordini senza dpr
§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§
REGIONE EMILIA ROMAGNA
DIREZIONE GENERALE CENTRALE
AFFARI ISTITUZIONALI E LEGISLATIVI
FOCUS sulla GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE
in materia di PROFESSIONI (2001 - 2010)
A cura di Luigi Ramenghi – Servizio Affari legislativi e qualità dei processi normativi (Direzione Generale Affari istituzionali e legislativi) della Giunta regionale (aggiornato al 31/12/2010)
In generale
Il focus professioni cerca di fondere approfondimento giuridico e taglio “operativo”, affinché ne risulti uno strumento utile anche ai tecnici e amministratori attivi nel settore della formazione oltre che delle professioni, i quali spesso devono decifrare le fonti di un ordinamento mutevole e non sempre chiaro.
Saranno innanzitutto estrapolati i principali indici d’incostituzionalità che emergono dalla giurisprudenza costituzionale maturata dopo la riforma del titolo V, parte II, della Costituzione, avviata con la legge costituzionale n. 3 del 2001, in questa materia. Successivamente saranno affrontati alcuni dei problemi giuridici e operativi più rilevanti e discussi, nell’intento di ricostruire un quadro sintetico ma generale della materia, che dunque prenda in considerazione i provvedimenti legislativi più recenti e non trascuri le questioni settoriali, come per esempio quella delle professioni ordinistiche o di quelle sanitarie.
Orientamento precedente alla riforma costituzionale del 2001
L’orientamento sulle professioni che la Corte ha sviluppato dopo il 2001 non sembra, per certi aspetti, discostarsi troppo dal precedente.
Si pensi alla sent. n. 372/1989. In quel caso Piemonte e Lombardia impugnarono la legge n. 6/1989 (Ordinamento della professione di guida alpina) e in particolare l’art. 7, sotto il profilo della lesione delle competenze regionali nella materia allora contemplata dall’art. 117 Cost. della “istruzione artigiana e professionale”. Ai sensi dell'art. 7, l. n. 6/1989, l'abilitazione tecnica all'esercizio della professione di guida alpina si conseguiva mediante la frequenza di appositi corsi teorico-pratici e il superamento dei relativi esami; i corsi erano finanziati dalle regioni (nell'ambito dei programmi regionali relativi alla formazione professionale) ma erano organizzati, programmati e conclusi (con esami) dai collegi professionali (regionali e statale) (inoltre l'art. 9 affidava ai collegi regionali, senza prevedere alcuna partecipazione delle regioni, l'organizzazione dei corsi di aggiornamento professionale, corsi i cui contenuti o modalità erano stabiliti dai direttivi degli stessi collegi regionali; l'art. 22 poi, per gli “accompagnatori di media montagna”, prevedeva un'abilitazione tecnica da conseguire mediante corsi ed esami organizzati – seppure d'intesa con la regione – dai collegi regionali delle guide, secondo programmi e modalità stabiliti dagli stessi collegi, sempre d'intesa con le regioni).
A giudizio della Consulta, una simile disciplina comprimeva indebitamente – già ante riforma 2001 – il ruolo riservato alle regioni in materia di istruzione professionale, dal momento che affidava l'organizzazione dei corsi professionali, di abilitazione o di aggiornamento, agli stessi organi dell'ordinamento professionale, escludendo, di contro, la presenza regionale (come nel caso dell'art. 9), ovvero limitandola alla sola vigilanza (come nel caso dell'art. 7) o, al massimo, all'intesa con gli stessi collegi (come nel caso dell'art. 22).
Come si vede, all’epoca la giurisprudenza costituzionale era orientata a ricondurre la definizione dei programmi e l'organizzazione dei corsi dentro la sfera delle attribuzioni regionali, salva la presenza di possibili forme di coordinamento e controllo centrale dirette a garantire standard minimi quantitativi e qualitativi, relativi ai corsi, nonché verifiche relative alla fase della valutazione finale del risultato della frequenza ai corsi, ove questa comportasse il rilascio di titoli abilitanti su scala nazionale (sentenze n. 216 del 1976, n. 89 del 1977 e n. 165 del 1989).
Nota bene: ciò accadeva materia di “istruzione professionale”, non di professioni, dove all’epoca le regioni non avevano competenze. Questo non escludeva peraltro la possibilità che, ai fini dell'organizzazione dei diversi corsi professionali e della definizione dei criteri didattici e dei programmi, gli organismi rappresentativi della categoria professionale potessero trovare spazio collaborativo: tale apporto – ben giustificato in relazione al peculiare contenuto tecnico e di esperienza proprio delle materie oggetto dei corsi professionali – poteva essere definito, in forme appropriate, tanto in sede di eventuale formulazione di nuovi principi da parte della legge statale quanto in sede di legislazione regionale.
Alla luce di questa giurisprudenza, si pone oggi il cruciale problema di dove collocare la formazione professionale propedeutica all’esercizio delle professioni, e non soltanto di quelle cosiddette chiuse o ordinistiche. Come vedremo, anche nell’ambito delle professioni “aperte” o prive di ordini le qualifiche professionali sembrano spettare alle regioni, mentre le abilitazioni – una sorta di livello ulteriore della f.p. – rientrano nelle “professioni” e dunque qui la competenza statale sarà più ampia, riguarderà anche gli ordinamenti didattici e i titoli. Con la precisazione che disciplina della formazione regionale può avere valenza meramente territoriale, e allora godrà di maggiore o totale autonomia, o valenza nazionale, ma in tal caso dovrà rispettare i livelli essenziali formativi posti dal legislatore statale, come previsto, per esempio, dal d.lgs. n. 226/2005 relativo al secondo ciclo dell’istruzione e formazione professionale.
I punti fermi dell’orientamento costituzionale in materia di professioni
Ci troviamo di fronte a un indirizzo sostanzialmente costante, per quanto articolato, in tutte le pronunce della Corte riguardanti la materia: v. sentenze nn. 353 del 2003, 319, 255 e 424 del 2005, 40, 153, 423, 424 e 449 del 2006, 57, 300 e 443 del 2007, 93, 179 e 222 del 2008, 138, 271 e 328 del 2009, 131, 132 e 300 del 2010; 230/2011.
Le numerose sentenze con cui la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità di varie leggi regionali in tema di professioni fondano i propri presupposti logico-giuridici sui seguenti principi:
a) La legislazione generale delle professioni, soggetta a riparto concorrente Stato-regioni (art. 117, comma terzo, Cost.), per come emerge dall’ordinamento nazionale positivo, è ispirata al
principio fondamentale secondo cui l'individuazione delle figure professionali (“funzione individuatrice”), con i relativi profili e ordinamenti didattici, è riservata allo Stato (sent. n. 355/2005). Va notato che la Corte ha tratto questo principio “dall’art. 2229, primo comma, del Codice civile, oltre che dalle norme relative alle singole professioni” (la funzione d’individuazione delle professioni è riservata allo Stato per via del “suo carattere necessariamente unitario”), e che il principio è poi stato positivizzato dal d.lgs. n. 30/2006. Non si tratta dunque di un principio costituzionale bensì legislativo, che quindi potrebbe mutare, in generale o solo in alcuni settori (es. in futuro lo Stato potrebbe collocare, almeno per certe professioni, la funzione a livello regionale, oppure sottoporla a procedura consensuale Stato-regioni come nella l. n. 43/2006, sulla quale v. oltre).
b) Rientra, quindi, nella competenza delle regioni la disciplina di quegli “aspetti che presentano uno specifico collegamento con la realtà regionale” (sent. n. 355/2005).
c) Le regioni dunque non possono, né in via diretta né in via indiretta, creare e disciplinare nuove figure professionali (a meno che non sia la legge statale a prevederlo) (sent. n. 353/2003).
Questioni specifiche
Sulla base di questi punti fermi, è possibile affrontare alcune questioni di grande importanza per l’ordinamento regionale, anche per i loro risvolti applicativi.
Creazione (illegittima) di nuove professioni da parte delle regioni
a) In alcuni casi la Consulta ha sanzionato non una singola norma bensì un complesso di norme, come nel caso della più risalente pronuncia in materia, la sent. n. 353/2003: con legge il Piemonte aveva regolamentato “pratiche terapeutiche e discipline non convenzionali” istituendone un apposito registro regionale e creando una commissione permanente presso la giunta regionale col compito di definire i requisiti minimi per il riconoscimento degli enti di formazione degli operatori e verificare il possesso dei requisiti occorrenti all’iscrizione nel registro regionale. In altre parole la l.r. Piemonte n. 25/2002 aveva istituito un registro dedicato sia agli operatori medici sia a quelli non medici, giudicato dalla Corte sostanzialmente equivalente a un albo professionale, quindi illegittimo, perché riservato a soggetti che avessero superato un esame regionale. La stessa legge regionale aveva previsto, inoltre, percorsi formativi pluriennali nonché il rilascio di titoli professionali, peraltro in un campo segnato da formazione universitaria, ma su questo i Giudici non si sono espressi, ritenendo il punto assorbito dal precedente.
Parzialmente diverso il caso della sent. n. 300/2007 relativa alle leggi regionali di Veneto e Liguria sulle “discipline bionaturali per il benessere”. Anche qui la funzione individuatrice è stata desunta “da una pluralità di elementi”. In primo luogo dalla descrizione (seppure generica) dei compiti assegnati agli operatori delle discipline bionaturali, presente tanto nella l.r. Liguria quanto nella l.r. Veneto (si afferma che tali attività concorrono “a prevenire gli stati di disagio fisici e psichici stimolando le risorse vitali proprie di ciascun individuo”, avendo come finalità “il mantenimento dello stato di benessere della persona”, ecc.). In secondo luogo dall’istituzione di un apposito elenco, il quale però secondo la Consulta esprime già di per sé la funzione individuatrice della professione – “prescindendosi dalla circostanza … che tale iscrizione si
caratterizzi o meno per essere necessaria ai fini dello svolgimento della attività cui l'elenco fa riferimento”.
b) In altri casi la legge regionale aveva unicamente istituito un registro professionale, ed è bastato questo come motivo d’illegittimità costituzionale per la caducazione dell’intera legge regionale (es. la citata sent. n. 355/2005 sulla legge Abruzzo istitutiva del registro regionale degli amministratori di condominio). E ciò, si badi, non perché il registro comporti una “chiusura” del mercato regionale ossia una violazione del principio di concorrenza – mai la Corte ha fatto ricorso a tale principio nelle sue pronunce in tema di professioni – bensì perché la violazione è in re ipsa, cioè nella funzione individuatrice di nuova professione insita in uno strumento come un registro professionale (posto che ciò contrasta con i principi statali). Questo orientamento, nato con le sentenze n. 353/2003 e n. 355/2005, è stato ribadito e precisato nel 2007 con le sentenze n. 57 (l.r. Marche n. 28/2005 istituiva l’ennesimo registro regionale degli amministratori di condominio) e n. 300 (leggi Liguria e Veneto su discipline bionaturali) allorché è stata giudicata irrilevante perfino l’espressa previsione di l.r. che dalla mancata iscrizione al registro/elenco regionale non sarebbero derivate preclusioni all’esercizio dell’attività professionale (“l’istituzione di un registro professionale e la previsione delle condizioni per l’iscrizione ad esso hanno, già di per sé, «una funzione individuatrice»”).
Dunque il criterio del Giudice delle leggi rischia di poggiare sul formale contrasto tra parametri normativi più che sull’effettiva tutela degli interessi pubblici sottostanti.
Solo in un caso i Giudici della Consulta si sono pronunciati diversamente, in merito all’istituzione regionale di elenchi provinciali riferiti a professioni turistiche (v. sent. n. 271/2009 sulla l.r. Emialia-Romagna n. 7/2008). Se infatti esula dalla competenza legislativa regionale in materia di professioni l’istituzione di nuovi e diversi albi rispetto a quelli già istituiti dalle leggi statali, per l’esercizio di attività professionali (perché questi albi svolgono funzione individuatrice), non vale lo stesso per gli albi regionali con “funzioni meramente ricognitive o di comunicazione e di aggiornamento” i quali “non si pongono al di fuori dell’ambito delle competenze regionali, dovendo intendersi riferiti a professioni già riconosciute dalla legge statale”.
c) Profili d’illegittimità potrebbero sorgere anche dalla regolazione di aspetti formativi. Come anticipato, la disciplina della formazione di una figura professionale inesistente a livello nazionale non pare svolgere, di per sé, la funzione d’individuare una professione, in quanto rientra nell’autonomia normativa regionale prevista dall’art. 117, comma quarto, Cost. In questo modo si determineranno delle differenze tra regione e regione nell’ambito dei “mercati formativi” (es. in Emilia-Romagna potrebbe essere aperto un corso formativo relativo a una figura non prevista in Sicilia), tuttavia questo rappresenta una delle possibili declinazioni del “regionalismo differenziato” che contraddistingue la nostra forma di governo nazionale.
I problemi di costituzionalità emergono nel momento in cui la formazione condiziona l’esercizio professionale. Su questo, la sent. n. 319/2005 ha affermato che la specifica finalità di abilitazione all'esercizio della professione, che la l.r. abruzzese aveva attribuito ai corsi di massaggiatore-capo bagnino (formazione regionale immediatamente abilitativa), non ammetteva all’esercizio della professione chi avesse ricevuto una formazione diversa (es. in un’altra regione). Questo
effetto immediatamente abilitante del corso di f.p. rende incostituzionale anche quella l.r. che si limita a regolare corsi formativi senza anche istituire albi o registri: da ciò sembra emergere come la Corte ravvisi la funzione individuatrice laddove una regione ponga limiti non previsti dallo Stato all’esercizio professionale, o ponendo un filtro “a monte”, in fase formativa (abilitazione regionale), o “a valle”, in fase amministrativa (registro regionale).
La questione è stata pure affrontata nella citata sent. n. 57/2007 (amministratori di condominio) dove la Consulta ha richiamato a sostegno della propria tesi il d.lgs. n. 30/2006 che vieta non la creazione e regolazione regionale di una qualifica, bensì di una qualifica abilitante (“per l’esercizio”). Peraltro il ragionamento della Corte qui ruota intorno all’istituzione dell’elenco più che dei corsi, visti come mere condizioni d’iscrizione all’elenco, e solo come tali criticati.
Questa linea interpretativa è stata confermata dalla successiva sent. n. 300/2007 sulle discipline bionaturali, secondo cui non solo l’istituzione di un registro professionale ma anche la previsione delle condizioni per l’iscrizione a esso hanno già di per sé una funzione individuatrice della professione, sebbene non limitino l’accesso alla professione. E tra questi condizioni solitamente sta la necessità di un’apposita formazione. Sempre nella sentenza 300 il Giudice delle leggi ha precisato che “per un evidente motivo di consequenzialità” anche le attività di formazione professionale (e la relativa potestà regionale) “non possono che accedere ad ambiti professionali già riconosciuti con l'osservanza, sia da parte dello Stato che delle Regioni, dei rispettivi piani di competenza”.
Tutto ciò lascia temere che anche una mera indicazione regionale dei titoli necessari per svolgere una certa attività sia incostituzionale, se tale attività non è prevista a livello statale (la citata l.r. Marche n. 28/2005 istituiva, presso la giunta, il registro regionale degli amministratori di condominio, prevedendo che nel registro potesse essere iscritto chi possedesse l’attestato regionale di qualifica professionale – titoli non preesistenti – oppure chi fosse iscritto “in altri albi di ordini o collegi professionali affini” – titoli preesistenti).
Anche l’orientamento più recente va in questa direzione, laddove salva le norme con cui le regioni si attribuiscono funzioni concernenti la programmazione e autorizzazione di attività formative relative a professioni istituite dallo Stato (v. sent. 271/2009 in materia di professioni di accompagnamento turistico: “In base alla giurisprudenza costituzionale, «in materia di formazione professionale, la definizione dei programmi e l’organizzazione dei corsi spetta alla sfera delle attribuzioni regionali, salva la presenza di possibili forme di coordinamento e controllo centrale» (sentenza n. 372 del 1989, nonché sentenza n. 50 del 2005)”).
In definitiva, per ora la novella costituzionale del 2001 sembra avere ampliato la potestà regionale in materia di professioni più sul piano formale che sostanziale, schiacciandola sulla materia residuale della formazione professionale, fino quasi a fare coincidere le due sfere di competenza.
Casi in cui una legge regionale disciplina le professioni invece che la formazione professionale
La sent. n. 319/2005 afferma che “la specifica finalità di abilitazione all'esercizio della professione”, che la l.r. abruzzese attribuisce ai corsi di massaggiatore-capo bagnino (oltre
all’attribuzione alla regione dell’individuazione dei requisiti necessari per la frequenza ai corsi, dei programmi di studio e delle modalità di valutazione finale), porta a escludere la normativa regionale dalla materia (residuale) della formazione professionale e dimostra invece che tale normativa “si propone invece la finalità – diversa ed ulteriore rispetto a quella propriamente formativa – di disciplinare una specifica figura professionale … regolandone le modalità di accesso e così incidendo sul relativo ordinamento didattico”. Ovvero: la formazione regionale in questione è immediatamente abilitativa, cioè non ammette all’esercizio della professione chi ha ricevuto una formazione diversa, non pubblica o magari ricevuta in un’altra regione. Questo effetto immediatamente abilitante del corso di f.p., dunque, esclude che si rientri nella materia “f.p.” (art. 117, comma quarto, Cost.), e fa slittare la normativa che lo produce nella materia “professioni” (117, comma terzo).
Le sentenze del 2007 però, come notato in precedenza, sembrano ridurre ulteriormente gli spazi di potestà regionale, così pure il citato d.lgs. n. 30/2006.
L’orientamento costituzionale circa le Professioni “ordinistiche”
Nella fondamentale sent. n. 405/2005, la l.r. Toscana in materia di libere professioni intellettuali – che definiva le modalità di raccordo (coordinamenti) tra la regione e le professioni intellettuali regolamentate con la costituzione di ordini o collegi, e istituiva la commissione regionale delle professioni e delle associazioni professionali – è stata giudicata incostituzionale perché prevedeva l’istituzione obbligatoria dei coordinamenti tra regione e ordini (disponendo che tali coordinamenti fossero finanziati col contributo degli ordini stessi), attribuiva ai coordinamenti funzioni prima svolte dagli ordini e prevedeva che tali coordinamenti avessero un ruolo nella commissione regionale per le professioni.
Il motivo della declaratoria tuttavia consiste nella violazione non dell’art. 117, comma terzo, Cost., bensì del 117, comma secondo, lettera g), ovvero: così facendo la regione Toscana ha inciso l’ordinamento e l’organizzazione degli ordini e dei collegi professionali. La Corte ha spiegato che l’ordinamento vigente su ordini e i collegi tutela un “rilevante interesse pubblico la cui unitaria salvaguardia richiede che sia lo Stato a prevedere specifici requisiti di accesso e ad istituire appositi enti pubblici ad appartenenza necessaria, cui affidare il compito di curare la tenuta degli albi nonché di controllare il possesso e la permanenza dei requisiti in capo a coloro che sono già iscritti o che aspirino ad iscriversi”, al fine di garantire il corretto esercizio della professione a tutela dell'affidamento collettivo.
A giudizio della Consulta, dalla dimensione nazionale – e non locale – dell'interesse sotteso e dalla sua infrazionabilità deriva che ad essere implicata sia la materia “ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali” (art. 117, lettera g, Cost.: esclusiva statale), non quella delle professioni.
Secondo la Corte, in fine, l’art. 117, comma terzo, attribuisce alle regioni la competenza a disciplinare – nei limiti dei principi fondamentali:
a) “le professioni per il cui esercizio non è prevista l'iscrizione ad un Ordine o Collegio”;
b) “le altre, per le quali detta iscrizione è prevista … limitatamente ai profili non attinenti all'organizzazione degli Ordini e Collegi”.
Competenze previste dalla legge n. 43 del 2006
La legge 1 febbraio 2006, n. 43 (Disposizioni in materia di professioni sanitarie infermieristiche, ostetrica, riabilitative, tecnico-sanitarie e della prevenzione e delega al Governo per l'istituzione dei relativi ordini professionali), all’art. 5 dispone che l’individuazione di nuove professioni sanitarie (il cui esercizio deve essere riconosciuto su tutto il territorio nazionale) può avvenire anche per iniziativa delle regioni, ed è effettuata mediante uno o più accordi, sanciti in sede di Conferenza permanente Stato-regioni e province autonome.
A questo proposito va segnalato che nella sent. n. 300/2007 sulle leggi veneta e ligure in materia di discipline bionaturali, la Corte ha ritenuto non pertinente il richiamo all’art. 1, co. 2, della l. n. 43/2006, secondo cui alle regioni rimane la competenza “nell'individuazione e formazione dei profili di operatori di interesse sanitario non riconducibili alle professioni sanitarie”. La Corte ha argomentato come segue:
a) Innanzitutto la l. n. 43/2006 stabilisce che i profili di competenza regionale vadano riferiti esclusivamente ad attività con carattere “servente” e “ausiliario” rispetto a quelle pertinenti alle professioni sanitarie (peraltro a un livello inferiore rispetto a quello proprio delle “arti ausiliarie delle professioni sanitarie”, anch’esse rientranti nella materia delle professioni), e questo carattere non è ravvisabile nell'attività dell'operatore delle discipline bionaturali del benessere;
b) in secondo luogo, il richiamato art. 1, co. 2, l. n. 43/2006 va comunque letto insieme con il successivo comma 3 secondo cui “la potestà legislativa regionale si esercita sulle professioni individuate e definite dalla normativa statale”.
Recente evoluzione normativa e giurisprudenziale
L’orientamento costituzionale in materia di professioni è rimasto costante nel tempo, anche in ragione del fatto che una nuova disciplina generale di livello statale non è mai stata adottata.
Meritano di essere citate però due pronunce.
Con la sent. n. 131/2010 è stata dichiarata illegittima la l.r. Piemonte n. 26/2005 in quanto istitutiva della professione di mediatore familiare, inesistente a livello nazionale. In questo caso il legislatore regionale aveva tentato di creare, presso ogni azienda sanitaria locale, la figura del “coordinatore per la mediazione familiare”, il quale avrebbe dovuto possedere la qualifica di mediatore familiare (con la conseguente fissazione a opera della legge regionale dei compiti di questa particolare figura). In proposito la Consulta ha precisato che non rileva la circostanza che il mediatore familiare non sia un professionista autonomo bensì una figura legata alla Regione con compiti e funzioni di rilievo pubblicistico, in quanto:
a) la competenza statale a individuare i profili professionali e i requisiti di esercizio spetta anche quando l’attività professionale sia destinata a svolgersi in forma di lavoro dipendente (v. artt. 1, comma 3, e 2, comma 3, d.lgs. n. 30/2006);
b) l’individuazione di una specifica area caratterizzante la professione è ininfluente ai fini della regolamentazione delle competenze derivante dall’applicazione nella materia in esame del terzo comma dell’art. 117 Cost.
Altra recente sentenza di rilievo è la n. 271/2009, con cui è stata giudicata incostituzionale la l.r. Emilia-Romagna n. 7/2008 (Norme per la disciplina delle attività di animazione e di accompagnamento turistico). Spiccano qui i rapporti con le norme statali di derivazione comunitaria.
Va tenuto conto che manca in materia una compiuta disciplina nazionale, e che alcune indicazioni vengono dal decreto-legge n. 7/2007, convertito in legge n. 40 dello stesso anno (“Bersani bis”), al cui art. 10 sono dettate norme di liberalizzazione delle attività di guida e accompagnatore turistici. Il comma 4 dell’art. 10 ha infatti disposto che per l’esercizio di queste professioni non serve più autorizzazione, bastano i requisiti formativi fissati dalle regioni. Di conseguenza la Corte ha dichiarato l’illegittimità della disposizione regionale che indicava – tra le condizioni essenziali di esercizio professionale - la verifica di requisiti ulteriori, che in base alla legge dell’Emilia-Romagna sarebbero stati previsti con successiva deliberazione di Giunta regionale (“Il compito di definire «le modalità attuative per il conseguimento dell’idoneità all’esercizio delle attività di cui alla presente legge», di per sé non contrario alla Costituzione, risulta ampliato, con il disposto dei commi citati, sino a comprendervi la previsione di requisiti per l’esercizio della professione, il che lo pone, perciò, in conflitto con i principi che prevedono la competenza dello Stato … violando il principio fondamentale che riserva allo Stato non solo l’individuazione delle figure professionali, ma anche la definizione e la disciplina dei requisiti e dei titoli necessari per l’esercizio delle professioni stesse”).
L’intreccio tra la materia delle professioni e quella, di derivazione comunitaria, della tutela della concorrenza si è estrinsecato in un’ulteriore dichiarazione d’incostituzionalità, a danno delle norme della stessa l.r. Emilia-Romagna che limitavano l’abilitazione e l’esercizio professionale ad ambiti territoriali: in questo la Consulta ha ravvisato una lesione al principio della libera prestazione dei servizi, di cui all’art. 40 del Trattato CE (ex art. 49 Trattato CEE), e, dunque, la violazione del rispetto del vincolo comunitario di cui all’art. 117, primo comma, Cost., oltre che della libera concorrenza, la cui tutela rientra nella esclusiva competenza statale, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. Nella stessa ottica, l’art. 10, comma 4, del citato d.l. n. 7/2007, stabilisce che le attività di guida turistica e accompagnatore turistico non possono essere subordinate all’obbligo di autorizzazioni preventive, al rispetto di parametri numerici e a requisiti di residenza, e che i soggetti abilitati allo svolgimento dell’attività di guida turistica nell’ambito dell’ordinamento giuridico del Paese comunitario di appartenenza operano in regime di libera prestazione di servizi, senza necessità di alcuna autorizzazione né abilitazione, sia essa generale o specifica. In altre parole, le restrizioni previste dalle norme regionali annullate, circa l’ambito di validità territoriale delle autorizzazioni, sono state ritenute sostanzialmente antitetiche al quadro normativo delineato.
Da ultimo, un cenno alla sentenza n. 230/2011, con cui la Calabria ha dettato un’articolata – e illegittima – disciplina delle attività sportive sul territorio regionale, individuando alcune figure professionali, tra le quali fisioterapisti e massaggiatori, e richiedendo un particolare titolo professionale per l’iscrizione ai relativi albi.
La pronuncia in questione rileva innanzitutto per il suo contenuto “riepilogativo”, dal momento che i Giudici hanno ribadito come in questa materia la legge regionale non possa:
a) né creare nuove professioni,
b) né introdurre diversificazioni in seno all’unica figura professionale disciplinata dalla legge dello Stato (sent. cost. n. 328 del 2009),
c) né, infine, assegnare tali compiti all’amministrazione regionale (sent. cost. n. 93 del 2008, n. 449 del 2006).
Il nucleo della legge si collocava “nella fase genetica di individuazione normativa della professione: all’esito di essa una particolare attività lavorativa assume un tratto che la distingue da ogni altra e la rende oggetto di una posizione qualificata nell’ambito dell’ordinamento giuridico, di cui si rende espressione, con funzione costitutiva, l’albo. Questa Corte ha costantemente ritenuto che una simile operazione abbia carattere di principio”.
In particolare, le norme censurate operavano su di un doppio livello: alcune consentivano alla Giunta di colmare i vuoti di legge statale su determinate figure professionali (potere di costituire albi non meramente ricognitivi, di definire i profili professionali non disciplinati dalla legge statale e d’individuare caratteristiche e requisiti dei percorsi formativi propedeutici), altre direttamente istituivano e disciplinavano i relativi albi (“… l’albo professionale non svolge una funzione meramente ricognitiva o di comunicazione e di aggiornamento di professioni già riconosciute dalla legge statale, come è invece consentito disporre da parte della legge regionale (sentenza n. 271 del 2009), ma, all’esito di un percorso formativo cui è subordinata l’iscrizione, assume una particolare capacità selettiva ed individuatrice delle professioni … (sentenze costituzionali n. 93 del 2008, n. 132 del 2010, n. 138 del 2009)”.
Quanto ai fisioterapisti, il loro profilo è compiutamente descritto dalla normativa statale (v. decreto ministeriale 14 settembre 1994, n. 741 “Regolamento concernente l’individuazione della figura e del relativo profilo professionale del fisioterapista”, sulla base dell’art. 6, comma 3, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 “Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421”), quindi la legge regionale non può conferire una specificità al fisioterapista sportivo, chiedendo a tal fine il conseguimento di un titolo rilasciato da enti pubblici o istituzioni sportive abilitate, in “potenziale contrasto” con le competenze attribuite sul punto al Ministro dell’università e della ricerca scientifica (art. 6, comma 3, d. lgs. n. 502/1992).
Analogamente, la normativa statale si è limitata a istituire l’albo dei massaggiatori privi della vista (art. 8 della legge 21 luglio 1961, n. 686) senza conferire ai massaggiatori sportivi una posizione differenziata, nemmeno riguardo al titolo di studio necessario contemplato dalla legge 19 maggio 1971, n. 403 (Nuove norme sulla professione e sul collocamento dei massaggiatori e massofisioterapisti ciechi). Da ultimo la Consulta non ha ravvisato un particolare collegamento tra le disposizioni censurate e le peculiari esigenze della realtà territoriale cui la legge regionale si rivolge, in relazione alle quali si sarebbe giustificato l’intervento legislativo regionale di dettaglio nella materia delle professioni.
(Testo in http://www.regione.emilia-romagna.it/wcm/autonomie/sezioni_home/banchedati/Contenzioso_Costituzionale/Focus/Focus_professioni_aggiornamento_dic_2010.pdf)