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Cassazione civile e
cronaca giudiziaria

Giornalista assolto
quando pubblica
una dichiarazione
resa in un processo

“Quando la notizia diffusa da un giornalista consiste nella cronaca di una dichiarazione resa in sede giudiziaria, non può ritenersi che il giornalista sia tenuto a svolgere specifiche indagini sull'attendibilità del dichiarante poiché tale valutazione riguarda il merito della dichiarazione e la sua rispondenza a verità. Per il giornalista, invece, sussiste solo l'obbligo di accertare che la dichiarazione sia stata effettivamente resa e il contesto in cui ciò sia avvenuto, con l’indicazione, in particolare, della fase processuale in cui tali dichiarazioni sono state rese e gli atti da cui provengono, in modo che il lettore o l'ascoltatore possa chiaramente intendere se la dichiarazione abbia già avuto il vaglio processuale da parte del magistrato e se ne dovrà avere altri”.

di Valeria FALCONE

Con sentenza del 10 marzo 2009 n. 5727, la terza sezione della Cassazione civile respinge il ricorso di W. e V.C., i quali si erano rivolti prima al Tribunale di Roma, poi alla Corte d’Appello di Roma, per ottenere il risarcimento del danno patrimoniale e morale subito a seguito della pubblicazione da parte dei giornalisti M.G. e A.N. di alcuni articoli ritenuti dagli stessi diffamatori. Sia il Tribunale sia la Corte d’Appello avevano rigettato la loro domanda di risarcimento del danno e, pertanto, W e V.C. ricorrevano in Cassazione.


Lamentavano, in primo luogo, “come il criterio decisionale adottato dall'impugnata sentenza conduca a riconoscere al giornalista la possibilità di pubblicare qualsiasi dichiarazione lesiva dell'altrui reputazione senza effettuare alcun accertamento sul contenuto della stessa purchè la medesima sia stata resa in un atto giudiziario”. Aggiungevano, inoltre, che gli articoli in questione solo marginalmente parlavano di un “avviso di garanzia” e di un “ordine di cattura”, mentre non indicano nemmeno uno degli atti di indagini preliminare trasfusi negli avvisi di garanzia e nel corpo dell'ordinanza di custodia preliminare. Secondo i ricorrenti, era onere dei giornalisti verificare ed accertare la “verità sostanziale dei fatti” oggetto della notizia stessa, a prescindere dagli accertamenti giudiziali in itinere e “non solo di controllare l'attendibilità della fonte (non sussistendo fonti informative privilegiate)”.


Nel caso di specie, affermano i sig.ri W. e V.C., nessun accertamento o controllo fu invece effettuato, nè venne rispettato il criterio della “verità specifica”, intesa come riferita al “fatto concretamente asserito o riportato come asserito”, e non già al mero fatto “dell'avvenuta asserzione”.


Con la sentenza in esame, la Cassazione civile respinge i motivi di ricorso appena descritti e nel farlo richiama un recente orientamento giurisprudenziale della stessa Corte.


Quando la notizia diffusa da un giornalista consiste nella cronaca di una dichiarazione resa in sede giudiziaria, si legge nella sentenza, non può ritenersi che il giornalista sia tenuto a svolgere specifiche indagini sull'attendibilità del dichiarante poichè tale valutazione riguarda il merito della dichiarazione e la sua rispondenza a verità. Per il giornalista, invece, sussiste solo l'obbligo di accertare che la dichiarazione sia stata effettivamente resa e il contesto in cui ciò sia avvenuto, con l’indicazione, in particolare, della fase processuale in cui tali dichiarazioni sono state rese e gli atti da cui provengono, in modo che il lettore o l'ascoltatore possa chiaramente intendere se la dichiarazione abbia già avuto il vaglio processuale da parte del magistrato e se ne dovrà avere altri (Cass. civ., sez. III, 6 marzo 2008 n. 6041 in Guida al diritto 2008, 30, 83; Cass. civ., sez. III, 24 maggio 2006 n. 12358, in Giust. civ. Mass. 2006, 5).


I ricorrenti denunciavano, altresì, che anche se i giornalisti avessero divulgato atti di indagine ovvero il contenuto di un avviso di garanzia e dell'ordinanza di custodia cautelare, anche in questo caso non poteva essere loro accordato il diritto di cronaca perchè tali atti, all'epoca delle pubblicazioni predette, non erano stati resi pubblici e, pertanto, non potevano essere divulgati, stante il preciso divieto degli artt. 114 e 329 c.p.p..


Secondo la Cassazione, anche questa tesi non è fondata “perchè la segretezza incide sul profilo della violazione del segreto istruttorio e non sull'oggetto di questo processo che verte sulla dedotta responsabilità diffamazione”. (Cass. Civ., sez. III, 10 marzo 2009 n. 5727, pres. Preden, rel. D'Amico “PUBBLICAZIONE DI ATTI PROCESSUALI E DIFFAMAZIONE: ONERI DEL GIORNALISTA” ).


 


Corte di cassazione - Sezione III Civile - Sentenza 10 marzo 2009, n. 5727


V.C., V.W. e V.L., vedova di V.V., fratello dei primi due, convenivano in giudizio dinanzi al Tribunale di Roma A.N. e M.G., giornalisti del quotidiano "(OMISSIS)", nonchè l'Editrice s.p.a. L'Unità poi società ARCA, per sentirli condannare, in proprio favore, al risarcimento del danno, patrimoniale e morale, da diffamazione nella misura di L. 1.000.000.000. Tale danno essi ritenevano di aver subito a seguito della pubblicazione, sul detto quotidiano, dell'articolo a firma A.N. dal titolo "Tramonta la stella dei V.", nonchè dell'articolo sempre a firma A.N., dal titolo "Una talpa ha fatto fuggire V.W.", pubblicato il (OMISSIS).


Si costituivano i convenuti A.N. e M.V. e rilevando, l'inammissibilità della domanda avanzata da V. L. quale vedova di V.V. per difetto assoluto di legittimazione attiva, concernendo la domanda lesioni di beni e diritti facenti capo unicamente al marito defunto e soltanto da quest'ultimo ipoteticamente azionabili. Nel merito, chiedevano il rigetto della domanda, invocando l'esercizio del diritto di cronaca.


Concludevano evidenziando la assoluta mancanza di qualsiasi nesso di causalità tra la pubblicazione degli articoli ed i danni patrimoniali allegati dagli istanti.


La Editrice s.p.a. "L'Unità" restava contumace.


Il Tribunale di Roma, con sentenza del 15.11.2000 dichiarava il difetto di legittimazione passiva di M.V. ( G.); condannava A.N. e la Editrice s.p.a.


L'Unità - poi società Arca, in solido, al pagamento di L. 20.000.000, a titolo di risarcimento del danno morale, in favore di V.L.; rigettava la domanda di risarcimento del danno proposta da C. e Vi.Vi.; condannava questi ultimi a rifondere le spese processuali a A.N. e M.V. ( G.).


Con citazione del 10.9.2001 proponevano appello C. e V. V. chiedendo la condanna degli appellati al pagamento in favore di ciascun appellante della somma di L. un miliardo, oltre accessori o della diversa somma ritenuta di giustizia.


M.G. e A.N. chiedevano il rigetto dell'appello.


La Corte distrettuale romana con sentenza n. 2208/2004 determinava nella complessiva somma di Euro 3.966,39 le spese di lite che gli attori avrebbero dovuto rifondere a A.N. e M. G., confermando nel resto l'impugnata sentenza.


Proponevano ricorso per cassazione W. e V.C..


Resistevano M.G. e A.N..


Alla pubblica udienza del 21.10.2008 l'Avv. Vi.Vi., ricorrente e difensore nel presente processo rivolgeva istanza a questa Corte per conoscere se alcuno dei componenti del Collegio giudicante facesse parte del gruppo associativo di "Magistratura Democratica" riservandosi, in caso di risposta affermativa, di chieder termine per poter presentare ricorso per ricusazione ai sensi del disposto dell'art. 52 c.p.c., e art. 51 c.p.c., n. 3, nei confronti di quello o di quegli appartenenti al detto sodalizio che asseriva, da molti anni, essere in "aspro conflitto personale", ovvero in rapporti di "inimicizia grave contro lo stesso esponente".


 


Motivi della decisione


Prima di procedere all'esame dei motivi del ricorso deve dichiararsi l'irrilevanza dell'eventuale iscrizione di un componente del collegio giudicante ad un gruppo della magistratura associata, denominato "Magistratura democratica". In più occasioni infatti questa Corte ha ritenuto che non costituisce valido motivo di ricusazione la pretesa appartenenza dei membri di un collegio giudicante a tale gruppo associativo, nè sotto il profilo dell'interesse del Giudice alla causa" (in relazione al disposto dell'art. 51 c.p.c., comma 1, n. 1), nè sotto quello dell'"inimicizia grave" (come enucleato nello stesso art. 51 c.p.c., comma 1, n. 3), atteso che la prima ipotesi postula la ricollegabilità dell'interesse a fatti e circostanze specifiche, mentre la seconda può rendere concreto anche un semplice sospetto di imparzialità del Giudice soltanto se la detta inimicizia risulti, a sua volta, collegata a specifici fatti direttamente attribuibili al ricusato o ai ricusati che l'abbiano resa manifesta (Cass., 20.10.2006, n. 22540; Cass. Pen., 9 aprile 2003, n. 37315; Cass., Ordinanza, 12.10.2002, n. 14.573; Cass. Pen., 25.6. 1996, n. 4336).


Tanto premesso, con il primo motivo del ricorso parte ricorrente denuncia: "1. Violazione degli artt. 112, 167, 171, 180, 182 e 183 c.p.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5".


Sostengono i V.: 1) che l'indicazione di " M. V." in luogo di " M.G." non costituisce un mero refuso; 2) che il M. convenuto in giudizio dagli attori non era M.V., bensì M.G.; 3) che M. V. non era il sottoscrittore dell'articolo per cui è causa;


4) che l'articolo del (OMISSIS) dell'"(OMISSIS)" era a firma di A.N."; 5) che fu quest'ultimo il convenuto in giudizio;


6) che M.G. venne convenuto quale "direttore responsabile, all'epoca, del quotidiano "(OMISSIS)" e non come "colui che ha sottoscritto l'articolo in questione"; 7) che lo stesso M. non ha sollevato alcuna eccezione circa la sua legittimazione passiva in quanto la stessa fu correttamente indicata dagli attori, attuali ricorrenti; 8) che quanto rilevato dal primo Giudice costituisce eccezione sollevata d'ufficio in violazione degli artt. 167, 171, 180, 182 e 183 c.p.c.; che la motivazione della corte di merito, viola altresì il disposto dell'art. 112 c.p.c., perchè ha confermato una decisione emessa "ultra petita", al di fuori dell'oggetto della lite quale fissato dalle istanze e dalle eccezioni proponibili solo dalle parti.


Il motivo, in tutte le sue articolazioni, non può essere accolto.


In specie, esaminando per ragioni di priorità logico - giuridica la censura qui indicata con il numero 7), deve rilevarsi che la stessa non è stata sollevata ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.


Secondo la giurisprudenza di questa Corte tale motivo è pertanto inammissibile in quanto proposto sotto il profilo della violazione di norme di diritto, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 3, come vizio della motivazione, sussumibile nel cit. art. 360 c.p.c., n. 5), anzichè, più correttamente ai sensi dell'art. 112 c.p.c., e dell'art. 360 c.p.c., n. 4, (Cass., 19.1.2007, n. 1196).


Infondata è anche la critica alla tesi della Corte d'Appello secondo la quale l'indicazione di " M.V." in luogo di " M.G." costituisce un refuso.


Dal testo stesso della sentenza risulta infatti che l'inesatta indicazione del nome della parte non è il prodotto di un'incertezza sulla sua identificazione sostanziale dato che dal contesto della decisione, risulta con sufficiente chiarezza l'identificazione della parte stessa e non può esservi dubbio che " M.V." sia in effetti " M.G." (Cass., 8 agosto 2003, n. 11972;


Cass., 4 giugno 2002, n. 8094; Cass., 15 aprile 1998, n. 3820).


Neppure fondata è l'altra censura del medesimo motivo con la quale i ricorrenti sostengono che M.G. era stato convenuto in giudizio in veste di "direttore responsabile", all'epoca, del quotidiano (OMISSIS) e non già come "colui che ha sottoscritto l'articolo" apparso sul medesimo quotidiano.


La tesi non è corretta. Risulta infatti in atti che la citazione effettivamente notificata a M.G. il 28.5.1998 lo chiamava in giudizio nella sua qualità di autore dell'articolo ritenuto diffamatorio, mentre l'altra citazione che disponeva la chiamata in giudizio dello stesso M.G. quale direttore responsabile del quotidiano (OMISSIS) non è stata a lui notificata.


Con ulteriore censura i ricorrenti sostengono poi che M. G. si costituì in giudizio in qualità di direttore di (OMISSIS) e non sollevò alcuna eccezione circa la sua legittimazione passiva perchè correttamente indicata dagli attori, mentre "quanto rilevato dal primo Giudice doveva e deve essere considerato come eccezione sollevata d'ufficio in violazione degli artt. 167, 171, 180, 182 e 183 c.p.c.".


Anche questa censura è infondata.


Secondo il costante orientamento di questa Corte, ai fini della rilevabilità d'ufficio occorre distinguere da un lato la legitimatio ad causam, quale titolarità del potere e del dovere di promuovere o subire un giudizio in ordine al rapporto sostanziale dedotto in causa, secondo la prospettazione dell'attore e prescindendo dall'effettiva titolarità del rapporto controverso; dall'altro la titolarità della situazione giuridica sostanziale (Cass., 10.1.2008, n. 355; Cass., 12.10.2006, n. 21933). Il Giudice non può esaminare d'ufficio la seconda perchè la contestazione della titolarità del rapporto controverso si configura come una questione che attiene al merito della lite e rientra nel potere dispositivo e nell'onere deduttivo e probatorio della parte interessata. Piuttosto egli ha il dovere di verificare d'ufficio, in ogni stato e grado del procedimento, la legitimatio ad causam, attiva e passiva.


In questo processo M.G. è stato citato in qualità di autore dell'articolo ritenuto diffamatorio. Il Tribunale lo ha ritenuto carente di legittimazione passiva in quanto non risulta che egli avesse sottoscritto gli articoli ritenuti diffamatori, sottoscritti invece da A.N.. Poichè la circostanza dedotta da parte ricorrente attiene alla legittimazione processuale, non alla titolarità della situazione giuridica sostanziale, deve ritenersi senz'altro corretta la tesi della Corte d'appello secondo la quale la carenza di legittimazione poteva essere rilevata d'ufficio (sentenza p. 3).


Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano "Violazione dell'art. 91 c.p.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5".


Deve preliminarmente rilevarsi: a) che nonostante il titolo evochi la violazione dell'art. 91 c.p.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 il ricorso non specifica poi gli errori nei quali l'impugnata sentenza sarebbe incorsa in sede di liquidazione delle spese processuali; b) che il motivo in esame ha ad oggetto la liquidazione delle spese processuali in favore di M.G., mentre non contiene alcuna impugnativa nei riguardi di " M.V.".


Sostengono al riguardo i V. che la Corte d'Appello avrebbe dovuto riconoscere come M.V. fosse una persona inesistente ed avrebbe di conseguenza dovuto annullare la parte della sentenza del Tribunale, già contestata, relativa alla liquidazione delle spese a favore di costui. Non avendolo fatto ed avendo ridotto le spese di primo grado in favore di M.G. è caduta, secondo i ricorrenti, in contraddizione perchè da un lato ha dato ragione al primo Giudice ritenendo che evocato in giudizio fu M.V.; dall'altro ha condannato gli attori appellanti per le spese di primo grado a favore di M.G. che essa stessa aveva dichiarato non essere stato citato in primo grado, non aver fatto parte del relativo giudizio e non considerarsi parte vittoriosa. Le censure non sono fondate. Nella sentenza della Corte d'appello non è dato infatti rinvenire la denunciata contraddizione tra la tesi che l'evocato in giudizio fu M.V. e la condanna degli attori appellanti per le spese di primo grado in favore di M.G.. Quanto al primo punto (evocazione in Giudizio di M.V.) la Corte distrettuale ha in proposito ritenuto che l'indicazione di " V." in luogo di " G." M. da parte del Tribunale sia stato il frutto di un mero errore materiale, risultando invece con sufficiente chiarezza l'identificazione del soggetto al quale la decisione stessa si riferiva (Cass., 4 giugno 2002, n. 8094; Cass., 8 agosto 2003, n. 11972). Non si può dunque affermare che la Corte d'Appello abbia individuato nello sconosciuto M.V. il soggetto evocato in giudizio avendo invece correttamente individuato in M. G. il vero convenuto, erroneamente indicato come " V.".


Per la medesima ragione non può dirsi che " M.G." sia stato considerato "inesistente" per il primo Giudice in quanto lo stesso, seppure erroneamente indicato come " V.", era stato dichiarato privo di legittimazione passiva ed in suo favore erano state liquidate le spese di lite. E che M.G. fosse privo di legittimazione passiva ben risulta, comunque, dalla circostanza che la citazione a lui notificata il 28.5.1998 lo qualificava come autore dell'articolo ritenuto diffamatorio, mentre quella che lo qualificava direttore responsabile del quotidiano (OMISSIS) non gli fu mai notificata.


In conclusione, seppur non legittimato, M.G. ha partecipato al giudizio di primo grado e la carenza di legittimazione non esclude il diritto al rimborso delle spese processuali (Cass, 30.1. 2002, n. 1206).


I motivi dal n. 3 al n. 5 e quello di cui al n. 8 devono essere trattati congiuntamente in ragione della stretta connessione, se non sostanziale coincidenza, dei temi che ne costituiscono l'oggetto e che risulta del resto dagli stessi titoli.


Con essi parte ricorrente rispettivamente denuncia: "3) Violazione dell'art. 595 c.p., e L. n. 47 del 1948, art. 13, in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5"; 4) "Altra violazione dell'art. 595 c.p., e L. n. 47 del 1948, art. 13, e violazione dell'art. 2697 c.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5"; 5) "Ulteriore violazione dell'art. 595 c.p.c., e L. n. 47 del 1948, art. 13, in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5"; 8) "Ulteriore violazione dell'art. 595 c.p.c., e L. n. 47 del 1948, art. 13, in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5".


Lamentano in primo luogo i V. come il criterio decisionale adottato dall'impugnata sentenza conduca a riconoscere al giornalista la possibilità di "pubblicare qualsiasi dichiarazione" lesiva dell'altrui reputazione senza effettuare alcun accertamento sul contenuto della stessa purchè la medesima "sia stata resa in un atto giudiziario". Ed aggiungono che gli articoli per cui è causa solo marginalmente parlavano di un "avviso di garanzia" e di un "ordine di cattura", mentre non indicano nemmeno uno degli atti di indagini preliminare" trasfusi negli avvisi di garanzia e nel corpo dell'ordinanza di custodia preliminare: tutte le notizie riferite in tali articoli avevano invece la loro "fonte" nel B., esplicitamente indicato dagli stessi giornalisti, mentre non si ritrova nemmeno un rigo di quanto affermato nè nei suddetti avvisi di garanzia, nè nel corpo dell'ordinanza di custodia cautelare, nè nella richiesta di rinvio a giudizio. Incombeva proprio ai giornalisti, concludono i V., verificare ed accertare la "verità sostanziale dei fatti" oggetto della notizia stessa, a prescindere dagli accertamenti giudiziali in itinere e "non solo di controllare l'attendibilità della fonte (non sussistendo fonti informative privilegiate)".


Nel caso di specie, secondo i V., nessun accertamento o controllo fu invece effettuato, nè venne rispettato il criterio della "verità specifica", intesa come riferita al "fatto concretamente asserito, o riportato come asserito", e non già al mero fatto "dell'avvenuta asserzione".


In questo contesto di argomentazioni si sottolinea nell'ottavo motivo che tutte le "notizie" ed "informazioni" apparse sul (OMISSIS) non erano contenute in nessuno degli atti evocati come "fonti" dal primo giudice e nella sentenza impugnata. Pertanto, in ordine alle dette affermazioni giornalistiche i V. sostengono che i convenuti avrebbero dovuto dimostrare in giudizio quali erano, uno per uno, i "riscontri" da essi affermati.


I motivi appena esaminati devono essere respinti.


II quarto e l'ottavo, in particolare, risultano non autosufficienti perchè non riproducono integralmente gli articoli richiamati sì da consentire a questa Corte di verificare se siano stati effettivamente citati o no in essi gli atti giudiziari contenenti le dichiarazioni ritenute diffamatorie dai ricorrenti.


Ma si deve soprattutto tener presente che, secondo il più recente orientamento di questa Corte, allorchè la notizia diffusa da un giornalista consiste nella cronaca di una dichiarazione resa in sede giudiziaria non può ritenersi che egli sia tenuto a svolgere specifiche indagini sull'attendibilità del dichiarante poichè tale valutazione riguarda il merito della dichiarazione e la sua rispondenza a verità. Per il giornalista, invece, sussiste solo l'obbligo di accertare che la dichiarazione sia stata effettivamente resa e il contesto in cui ciò sia avvenuto. In particolare, con l'indicazione della fase processuale in cui tali dichiarazioni sono state rese e gli atti da cui provengono, in modo che il lettore o l'ascoltatore possa chiaramente intendere se la dichiarazione abbia già avuto il vaglio processuale da parte del magistrato e se ne dovrà avere altri. E lo stesso criterio, pur con i dovuti adattamenti, è seguito da questa Corte in materia di pubblicazione del testo di interrogazioni parlamentari. Ha infatti affermato questa Corte che costituisce legittima espressione del diritto di cronaca, quale esimente della responsabilità civile per danni, la pubblicazione di una interrogazione parlamentare dal contenuto oggettivamente diffamatorio, sempre che corrisponda al vero la riproduzione (integrale o per riassunto) del testo dell'interrogazione medesima, essendo priva di rilievo, per converso, l'eventuale falsità del suo contenuto che il giornalista non ha il dovere di verificare, pur avendo l'obbligo di riprodurlo in forma impersonale ed oggettiva, quale semplice testimone, senza dimostrare, cioè, con commenti o altro, di aderire comunque al suo contenuto diffamatorio ed abbandonare, così, la necessaria posizione di narratore asettico e imparziale del fatto - interrogazione (Cass., 27.10.2004, n. 20783; Cass. Pen.. 30.9.1987, Saraceni; Cass. Pen., 2 marzo 1999, Mennella; Cass. Pen., 23 febbraio 2000, Scalfari; Cass., 19.12.2001, n.15999; Cass., SS.UU. 30 maggio 2001, Galiero).


Nel nostro caso la sentenza di primo grado, a proposito degli articoli oggetto del presente giudizio, aveva affermato che "Le circostanze riferite - traggono fondamento dalle "FONTI" costituite dagli atti di indagini preliminari del suindicato procedimento, trasfuse prima negli avvisi di garanzia e nel corpo dell'ordinanza di custodia cautelare emessa in data 21 maggio 1993 dal GIP Cappiello e successivamente nella richiesta di rinvio a giudizio del P.M. Armati".


E l'impugnata sentenza afferma che è acquisita al procedimento di appello la suddettta ordinanza mentre "agli attori incombeva l'obbligo, per dimostrare la natura diffamatoria degli articoli de quibus, versare agli atti del procedimento quelli riportati negli articoli di stampa e che si assumeva negli stessi essere stati stravolti o falsati si da derivarne una condotta diffamatoria, talchè l'utilizzazione da parte del giudice di detti atti giudiziari, ancorchè tardivamente prodotti da parte convenuta, rispondeva ad un interesse probatorio comune alle parti recepibile otre le preclusioni poste alla documentazione di interesse esclusivo di parte".


Come si è appena visto il giudizio sull'adempimento dell'onere probatorio è stato già espresso dalla Corte di merito e, considerata la correttezza dell'iter logico giuridico da essa seguito, non è sindacabile in questa sede.


Carattere autonomo rispetto ai precedenti riveste il sesto motivo con il quale i ricorrenti denunciano "Ulteriore violazione dell'art. 595 c.p., e L. n. 47 del 1948, art. 13, e degli artt. 114 e 329 c.p.p., in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5". Deducono i ricorrenti che anche se i giornalisti avessero divulgato atti di indagine ovvero - il contenuto di - un avviso di garanzia e dell'ordinanza di custodia, cautelare, anche in questo caso non poteva essere loro accordato il diritto di cronaca perchè tali atti, all'epoca delle pubblicazioni predette, non erano stati resi pubblici e, pertanto, non potevano essere divulgati, stante il preciso divieto degli artt. 114 e 329 c.p.p..


La tesi non è fondata perchè la segretezza incide sul profilo della violazione del segreto istruttorio e non sull'oggetto di questo processo che verte sulla dedotta responsabilità diffamazione.


Con il settimo motivo si denuncia una "Ulteriore violazione dell'art. 595 c.p., e L. n. 47 del 1948, art. 13, e dell'art. 324 c.p.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5". Si sottolinea in motivazione che nel secondo articolo pubblicato il (OMISSIS), differentemente dal primo, l'uso costante dell'indicativo ed il riferimento giornalistico a precisi riscontri rappresentava i fatti delittuosi di cui alle imputazioni elevate come già accaduti ed accertati. Di contro ha osservato la Corte d'appello che anche il secondo articolo "come il primo nel quale il giornalista correttamente riporta la notizia delle imputazioni penali a carico dei V., quali conformate dall'autorità giudiziaria secondo le iniziative del PM e le denunce dell'esponente e contrastate dalle riportate proteste di innocenza degli incolpati - non implica alcuna personale esposizione del giornalista sulla concreta colpevolezza degli imputati medesimi".


Con valutazione di merito la Corte d'appello ha dunque ritenuto che tutto il contesto dell'articolo di cui trattasi fa sempre riferimento agli atti giudiziari e ai riscontri inerenti ai provvedimenti disposti dai Giudici, sussistendo la interpretazione personale del giornalista solo su di una lecita consequenziale argomentazione logica, secondo cui se era stata possibile la latitanza di V. W., tanto doveva deduttivamente imputarsi ad un avvertimento ricevuto - la ed. talpa. Al contrario, si legge nel ricorso, va osservato che le risultanze processuali erano quelle individuate nelle sentenze assolutorie dei V. e di condanna dei B. prodotte in giudizio. La Corte d'Appello Civile di Roma, con la sentenza qui impugnata, ha violato il giudicato formatosi sul punto con la sentenza della Corte d'Appello di Roma (App. Roma, 23.10.2000).


La tesi non è fondata. In questa sede non rileva infatti la colpevolezza o no del comportamento dei V., ma la corrispondenza fra il contenuto degli atti giudiziari e quello degli gli articoli per cui è causa. E non risulta che sul primo punto si sia formato il giudicato.


Con il nono motivo, i ricorrenti denunciano infine "Ulteriore violazione dell'art. 595 c.p., e L. n. 47 del 1948, art. 13, in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5". A loro avviso la motivazione dell'impugnata sentenza è apodittica, disancorata dagli atti processuali, contraddetta dalle risultante processuali, viziata dal punto di vista logico - giuridico in quanto espressioni quali "Tramonta la stella dei V." nulla hanno a che fare con un corretto esercizio del diritto di cronaca e/o di critica. E nella prosa giornalistica dei resistenti non è dato apprezzare, secondo i V., nemmeno un rigo di riflessione critica.


Il motivo non è autosufficiente perché non riproduce l'intero contesto all'interno del quale le espressioni criticate sono utilizzate ed è altresì inammissibile perché intende sindacare una valutazione di merito effettuata dai Giudici di secondo grado nell'ambito della loro discrezionalità. Nè la relativa motivazione presenta quei vizi logico giuridici denunciati dai ricorrenti che soli giustificherebbero il sindacato di questa Corte.


Per tutte le ragioni che precedono, disattesi i nove motivi del ricorso, parte ricorrente deve essere condannata alle spese del giudizio di cassazione che si liquidano come in dispositivo.


 


P.Q.M.


 


La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente alle spese del giudizio di cassazione che liquida in complessivi Euro 3.100,00, di cui Euro 3.000,00, per onorari, oltre rimborso forfettario delle spese generali ed accessori come per legge.


Così deciso in Roma, il 21 ottobre 2008.


Depositato in Cancelleria il 10 marzo 2009


 


 


 


 


 


 





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