Onorare Walter Tobagi significa anche onorare le sentenze dei giudici sul delitto. Nel numero di maggio di Tabloid abbiamo pubblicato una ricostruzione minuziosa dell’assassinio e dei processi, a firma Enzo Magrì. Ed abbiamo parlato ampiamente anche dei dubbi e delle polemiche sulle indagini, sui presunti mandanti occulti e sui misteri del crimine. Magrì ha raccontato: “Oltre che da Dalla Chiesa, l’ipotesi del regista fu scartata anche dal suo braccio destro il colonnello Nicolò Bozzo e dal pubblico ministero del processo Armando Spataro. Facendo appello alla sua esperienza, l’ufficiale ricordò che non era un fenomeno nuovo la circostanza che sospetti di complicità con gli assassini s’addensassero nell’ambiente di lavoro della vittima specialmente nei delitti di terrorismo. Era accaduto dopo l’uccisione d’un dirigente della Fiat. Il volantino di rivendicazione aveva sbalordito carabinieri e manager del complesso automobilistico perché conteneva frasi che si riferivano ad un incontro tenuto alla presenza di nove persone. Poco tempo dopo la faccenda fu chiarita: le locuzioni erano state estrapolate da un giornale interno del gruppo tanto che una copia era stata trovata in un covo delle Br. Della tesi di Bozzo si rese mallevadore il pubblico ministero Armando Spadaio che non si richiamò ad elementi dottrinali bensì ad una personale cognizione. Spiegò: ”So per esperienza che i documenti di rivendicazione danno a quelli che vivono nell’ambiente della vittima la sensazione d’essere spiati. Sembrano essere stati scritti da qualcuno che ci vive accanto. E’ successo nei casi degli assassini di Alessandrini e di Galli”. Il magistrato ricordò che “le indagini esigono razionalità e lucidità”. Ammonì: “Il brigatismo è maniacalmente portato alla raccolta delle informazioni. Il linguaggio del terrorismo è il prodotto d’una cultura tetra e infida”. La sentenza escluse l’esistenza dei mandanti. Per i giudici, il giornalista fu scelto come bersaglio in una rosa di giornalisti attenti come lui al fenomeno terroristico. Il verdetto rimarcò la pregiudizievole dannosità della tesi che sosteneva l’esistenza del suggeritore perché “i sospetti e le illazioni coltivate con pervicacia, in assenza di qualsiasi positivo riscontro, finivano per impoverire un sacrificio e per svilire una figura tanto degna facendone soltanto un vessillo per una lotta fra diverse fazioni”. Il rispetto delle regole dell’informazione vuole che “Tabloid” pubblichi un articolo di Armando Spataro, il sostituto che condusse le indagini sul delitto e che sostenne come Pm l’accusa in aula. Un articolo, che, nelle intenzioni dell’autore, dovrebbe contribuire a spegnere le antiche polemiche e far chiarezza : “Provo a ripetere ancora – scrive Spataro - che misteri, complotti e omissioni non vi furono”. (Fr. Ab).
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L'Unità del 25 maggio 2005 (pagine 1 e 23)
Walter Tobagi, il Coraggio della Verità
di Armando Spataro*
Venticinque anni sono passati dall’omicidio di Walter Tobagi. Altrettanti da quello di Guido Galli. Ventisei da quello di Emilio Alessandrini. Dirò più avanti perché non riesco a disgiungere, nel mio ricordo, le immagini di questi tre martiri «milanesi», uccisi dal piombo dei terroristi, per le stesse ragioni. Il Comune di Milano, l’Ordine e l’Associazione lombarda dei giornalisti ricorderanno il 27 ed il 28 maggio Walter Tobagi: non solo sarà reso onore all’uomo e al giornalista, ma sarà rafforzato il dovere della memoria, poiché la peggiore eredità che potremmo avere di quegli anni sarebbe quella dell’oblio e dell’ignoranza. Ignoranza sul «perché» e sul «chi».
Ho rivisto pochi giorni fa, su Rai Due, dopo mezzanotte, il ricordo che di Tobagi e del suo omicidio ha tracciato una brava giornalista, Daniela Orsello. Mi ha colpito constatare che per la prima volta, al centro dell’attenzione degli autori vi erano finalmente l’uomo e la sua storia e che, pur doverosamente citando le polemiche che avevano fatto seguito alla mite condanna degli assassini «pentiti», non si parlava di misteri, di mandanti occulti, di fidanzate di assassini, di carabinieri piduisti e di tutto il corredo di «non-verità» depistanti che hanno alimentato, in questo quarto di secolo, libri e commenti sull’omicidio di Tobagi. Le chiamo «non verità» per il rispetto dovuto innanzitutto al dolore dei congiunti e degli amici della vittima, nonché dei tanti cittadini che in perfetta buona fede, alla luce di quanto hanno letto ed udito, si chiedono se davvero le indagini prima, ed il processo dopo, abbiano fatto chiarezza su ogni risvolto dell’omicidio. Le chiamerei semplicemente «menzogne» se pensassi invece a quanti hanno sfruttato il tema dei presunti misteri dell’omicidio mossi unicamente da interessi personali. Anche se di costoro e della natura dei loro interessi non intendo curarmi, mentirei a me stesso, specie in occasione di un anniversario così doloroso, se non dicessi, da pubblico ministero che diresse le indagini e rappresentò l’accusa nel pubblico dibattimento, quanto quelle polemiche e quelle insinuazioni mi abbiano segnato: non mi riferisco, però, al piano professionale, che non può essere scalfito se si ha la certezza di avere adempiuto fino in fondo al proprio dovere, ma al piano umano. Mi hanno colpito, infatti, le parole e i dubbi l’anno scorso espressi da Benedetta Tobagi, figlia di Walter.
E credo che essi possano essere anche di suo fratello Luca o della signora Stella (che pure ho avuto la fortuna di incontrare). Ecco, pensando a loro, e sperando di poterli un giorno incontrare e rispondere ad ogni loro domanda, provo a ripetere ancora che misteri, complotti e omissioni non vi furono. Solo questo vorrei raccontare basandomi sui fatti accertati. Ognuno degli interrogativi sollevati in questi anni, infatti, ha trovato risposta nelle decisioni dei giudici: basterebbe rileggere le sentenze, compresa quella di secondo grado, così ignorata dai commentatori, per pervenire a quelle certezze che giustamente si invocano. Ed è solo per questa ragione che ho accettato di tornare, con le parole che uso da anni, sulle ragioni di dubbio e sui presunti misteri:
1) non è vero che un confidente abbia preannunciato ai carabinieri il progetto di omicidio di Tobagi, rivelando persino i nomi di chi lo avrebbe eseguito. Il confidente aveva solo ipotizzato l’esistenza di un progetto di sequestro, coltivato mesi prima da altra organizzazione, che non aveva avuto poi alcun seguito: al povero Tobagi fu comunque proposta una scorta che egli rifiutò. Nessun rapporto esisteva dunque tra quel progetto e il successivo omicidio;
2) non è vero che la spontanea confessione di Barbone sia stata argomento di contrattazione alcuna, meno che mai avente ad oggetto l’impunità della sua compagna: la ragazza non aveva avuto alcun ruolo nell’omicidio e si era allontanata da ogni attività illegale già da tempo, come anche i complici di Barbone confermarono;
3) non è vero che vi siano stati mandanti occulti dell’omicidio o che qualcuno abbia suggerito ai terroristi il testo del volantino di rivendicazione: chi lo crede ignora o dimentica che due dei componenti della «28 marzo» (compreso Barbone) erano figli di giornalisti, che il gruppo da tempo aveva come obiettivo il mondo dell’informazione e che furono ampiamente documentate - e sequestrate a casa del collaboratore - le riviste da cui erano state tratte, spesso copiandone il lessico, le specifiche notizie contenute nel documento.
È vero, invece, e questo è l’argomento da cui altri interrogativi sono nati, che l’entità della pena inflitta a Barbone e ad altri pentiti, così come la libertà provvisoria concessagli, sconcertò la pubblica opinione. Ma si trattava delle conseguenze di una legge «a tempo», votata dal Parlamento senza praticamente obiezioni, che servì a salvare decine (o centinaia?) di vite umane e che azzerò il terrorismo. Ne ho chiesto l’applicazione anche per gli assassini dei miei colleghi e maestri Alessandrini e Galli: lo rifarei anche oggi. Naturalmente rispetto fino in fondo le diverse opinioni di quanti in buona fede possono dubitare dei risultati della inchiesta ma a tutti vorrei dire che vi sono molte pagine fulgide nelle indagini sul terrorismo e tra queste vi è quella dell’inchiesta Tobagi, condotta dai più fedeli e preparati uomini del gen. Dalla Chiesa, un altro martire di questa Repubblica. Ma a Dalla Chiesa e ad alcuni dei suoi uomini - penso al gen. Bonaventura - non è più dato di potersi difendere da ombre e sospetti: ecco perché la verità che affido fiducioso a chi voglia conoscerla onora la memoria di Walter Tobagi, ma anche di tutti coloro che furono uccisi per la loro fede nella democrazia e per il modo in cui interpretavano il loro ruolo professionale.Ed ecco che allora è possibile spiegare le ragioni per cui Walter Tobagi, Emilio Alessandrini e Guido Galli sono uniti nel mio ricordo, a 25 anni dal loro sacrificio: lo spiego raccontando di quando, a poche ore di distanza dall’omicidio di Emilio (29/1/79), da piemme appena trentenne cui le indagini erano state affidate, ricevetti nella mia abitazione la visita di amici e maestri come Gerardo D’Ambrosio e Gigi Fiasconaro, che con Alessandrini avevano lavorato all’inchiesta su Piazza Fontana. Mi raccontavano dell’eccezionale acume investigativo di Emilio, della sua capacità di muoversi intelligentemente nel grigio territorio delle deviazioni e coperture istituzionali, e capivo che era forte il loro timore che, per inesperienza, potessi trascurare la pista dei «servizi deviati». Emilio, dicevano, non aveva mai smesso di indagare su Piazza Fontana e tutti temevano che potesse pervenire ad ulteriori, inoppugnabili verità. Sembrava impossibile, a loro, a tutti, che un’organizzazione sia pure eversiva come Prima Linea, che si autodefiniva «di sinistra», potesse colpire un uomo come Emilio che dell’ansia di progresso e della democrazia era simbolo riconosciuto.
Li ascoltavo attento e mi pare che nulla di quei discorsi tralasciai nelle indagini, ma pensavo anche che erano forse loro a trascurare l’ipotesi che la follia di quegli anni stava producendo lo sterminio degli uomini migliori, di quelli cioè - e cito quasi a memoria i lugubri proclami che imparammo a riconoscere - che «con la loro personale efficienza e con il riformismo conferivano credibilità alle istituzioni». Era, quella di D’Ambrosio e di altri, dunque, l’incredulità di tutti i congiunti e degli amici di tante vittime del terrorismo di sinistra, l’inconsapevole ed inespresso bisogno di attribuire le morti di Alessandrini, Galli, Tobagi e di altri ancora - da ultimi di D’Antona e Biagi - a «menti raffinate», a complotti istituzionali piuttosto che alla folle ideologia di una folle stagione, che credo irripetibile ad onta della persistenza, nel tessuto sociale, di palesi disuguaglianze tra i cittadini. Il 27 ed il 28 maggio non sarò a Milano: sarò lontano, ancora una volta a discutere del giusto equilibrio tra contrasto del terrorismo e rispetto dei diritti degli indagati. Ma se avessi potuto ed ove fossi stato certo di non suscitare imbarazzi, sarei stato in ultima fila, a sentire parlare di Walter Tobagi, un uomo di cui avrei voluto essere amico e che tuttavia mi pare di avere profondamente conosciuto ed amato.
* Procuratore aggiunto della Repubblica di Milano e Coordinatore del Dipartimento Terrorismo ed Eversione