Figlio d’un ferroviere, era nato per fare il giornalista. Dopo le prime esperienze a “Milan-Inter”, alla “Zanzara” e all’”Avanti” completa il praticantato all’”Avvenire” per passare poi al “Corriere d’Informazione” e infine al “Corsera” mentre si laurea in Storia Contemporanea. Per la seria preparazione storico-sindacale e il moderatismo politico, è impegnato sul fronte del terrorismo dove si segnala per equilibrati e documentati servizi che però lo indicano ai terroristi come “un nemico di classe”. Quando Franco Di Bella lo utilizza in un altro settore, è gia troppo tardi. La brigata “28 marzo” capeggiata da Marco Barbone e Paolo Morandini, due giovani appartenenti a famiglie vicine al mondo editoriale, ha decretato la sua morte, Individuata quasi subito dal generale Dalla Chiesa, la banda degli assassini comprendente sei elementi è incarcerata nel mese d’ottobre. Il pentimento di due dei maggiori imputati chiarì per grandi linee le dinamiche del delitto ma lasciò consistenti dubbi sul perché la vittima fosse già nel mirino della banda Barbone nel 1978, sull’esistenza dei mandanti e sull’ambiente nei quali questi s’annidavano. I carabinieri e i giudici esclusero l’esistenza di registi occulti; il direttore del giornale di via Solferino, Bettino Craxi e molti colleghi se ne dichiararono invece certi. Sfruttando la legge sui pentiti, i principali responsabili dell’assassinio acquistarono la libertà nel novembre del 1983, il giorno dopo la lettura della sentenza di primo grado che comminò pene dagli otto a 24 anni di carcere. Il processo d’appello lasciò quasi immutate le pene.
di Enzo Magrì
Quel mercoledì 28 maggio 1980 Walter Tobagi uscì di casa più tardi del solito. Il cielo era nuvoloso. Era spiovuto da poco dopo una notte d’acqua repente. La sera prima, quale presidente dell’Associazione Lombarda dei Giornalisti, aveva moderato un dibattito sul segreto istruttorio al Circolo della Stampa e aveva tirato mattina in pizzeria con due colleghi. Lasciata attorno alle 11 l’abitazione di via Solari 2, a porta Genova, si accinse a ritirare l’automobile custodita in un garage di via Valparaiso (duecento metri a piedi) attraversando la breve via Andrea Salaino.
Appena comparve in strada, due giovanotti appostati dietro un’edicola situata sul marciapiede opposto a quello in cui egli stava procedendo lasciarono il rifugio, attraversarono la via e, armi in pugno, lo incalzarono. Il primo ammonì l’altro che lo seguiva:”Piano”. Mentre il compagno rallentava l’andatura, il capofila continuò a correre e, senza prendere la mira, sparò dalla distanza di cinque metri circa tre colpi di pistola alle spalle del giornalista che cadde a terra tra la strada e il marciapiede, le scarpe su una pozzanghera d’acqua, una mano nascosta da un fianco, l’ombrello vicino, una penna accosto sdrucciolata dal taschino. Colui che aveva fatto fuoco premette una quarta volta il grilletto d’una 7,65 ma la pistola munita di silenziatore s’inceppò. Entrò in azione il giovane che lo seguiva. Questi, in affanno, mentre scavalcava il corpo inerte del professionista lasciò partire due colpi da una calibro nove corto anche questa silenziata (e munita di retina per non lasciare bossoli) che andarono a bersaglio. La breve raffica fu inutile perché il giornalista era agonizzante. Gli assassini corsero verso una Peugeot guidata da un complice che li attendeva poco distante in mezzo alla strada e s’infilarono nell’auto che partì velocemente. All’incrocio con la via Valparaiso l’automobile si scontrò con una “127” ma riprese la fuga e scomparve nel traffico cittadino.
Sulla matrice terroristica dell’agguato non ci furono incertezze. Nel mese di dicembre dell’anno precedente il reparto operativo dei carabinieri di Milano aveva avvertito il giornalista che era sottoposto a minacciosa vigilanza dall’eversione. Tempestiva la conferma giunse da una rivendicazione telefonica con la quale una nuova sigla terroristica, quella della brigata 28 marzo, notificò “d’avere eliminato il terrorista di stato Walter Tobagi”. Due giorni più tardi, un volantino lungo sei fogli dattiloscritti ne spiegò le “ragioni”. Il documento analizzava i processi di ristrutturazione in corso nel mondo dell’editoria e indicava nella “corporazione dei giornalisti una piramide con al vertice i direttori di testata e le grandi firme e, sotto, i veri vermi striscianti”. Gli assassini ammonivano che c’e un solo modo per sfuggire alla giustizia proletaria “cambiare mestiere al più presto”. Tobagi, spiegavano, è stato ammazzato perché “riassumeva in sé le figure sopradescritte caratterizzandosi come efficiente persecutore della classe operaia e caposcuola della tendenza intelligente degli apparati della controguerriglia psicologica”. L’inviato del “Corriere della Sera” era inoltre definito “sindacalista della corporazione che promuove i passi necessari all’attuazione di un rapporto organico tra i giornali e i corpi antiguerriglia” e “dirigente del processo di ristrutturazione che ha come fine l’asservimento della stampa alle direttive dello stato imperialista delle multinazionali”.
Prima di Tobagi, il terrorismo, nei tre anni precedenti, aveva colpito i giornalisti Vittorio Bruno, vice direttore del “Secolo XIX” a Genova (1 giugno 1977); Indro Montanelli, direttore del “Giornale nuovo” a Milano (2 giugno 1977); Emilio Rossi, direttore del TG1 a Roma (3 giugno 1977); Antonio Garzotto, redattore del “Gazzettino” a Venezia (7 luglio 1977); Nino Ferrero, redattore dell’”Unità” a Torino (19 settembre 1977); Carlo Casalegno, vice direttore della “Stampa” a Torino (16 novembre 1977); Franco Piccinelli, caporedattore della Rai a Torino (24 aprile 1979) e Guido Passalacqua, capo servizio della “Repubblica” a Milano (7 maggio 1980).
Contro Tobagi gli assassini manifestano la stessa determinazione d’uccidere che hanno posto in atto nell’agguato contro Carlo Casalegno morto in ospedale dopo tredici giorni d’agonia. Come si saprà più tardi, la sentenza di morte era stata giustificata dai delinquenti con la circostanza che Tobagi rappresentava “il massimo esponente della corrente intelligente dei giornalisti ”. Nel vagellante profilo tratteggiato dai criminali assassini, la sottolineatura del fervido ingegno che sorreggeva il giovane giornalista ammazzato era il solo riscontro che avesse una qualche correlazione con la realtà. D’altronde Franco Di Bella, colui che firmava il giornale di via Solferino e che lo aveva assunto, non aveva avuto incertezze nell’indicare in Walter “un uomo importantissimo per il giornale, un futuro direttore.”
A farne ipotizzare una rilucente carriera concorreva intanto la constatazione che a trentatrè anni egli era uno dei primi inviati del “Corriere”. Quindi la sua affermazione nel settore del sindacalismo giornalistico tanto da assurgere alla carica di presidente dell’Associazione Lombarda ruolo che appena una quindicina d’anni prima era stato ricoperto da Ferruccio Lanfranchi, uno dei più accrediti giornalisti italiani. Infine lo sbalorditivo, breve, lasso di tempo durante il quale egli era passato dai “fondi” della “Zanzara”, il giornale d’istituto del Liceo Parini, a quelli del più importante foglio italiano.
Tobagi era nato giornalista anche se non proveniva da gente dotta. Figlio del ferroviere Ulderico e d’una casalinga, la signora Lucia (era nato a San Brizio una frazione di Spoleto il 18 marzo 1947), era giunto a Milano con la famiglia nel 1955. E’ al liceo Parini che il ragazzo conosce e l’impegno politico e la passione per il giornalismo. Siamo agli inizi degli anni Sessanta e attraverso i fogli d’istituto, gli studenti eseguono le prime prove di “contestazione del sistema”. Alla scuola di via Goito si pubblica la “Zanzara”. Walter, alunno della sezione A, quella dei “cervelli”, non fa fatica a farsi ammettere in redazione. Subito mostra le sue qualità di garbato polemista e di politico misurato in uno scontro dialettico con un collaboratore. La controversia mette in luce uno dei paradossi cui era esposta la nostra società: quello del rampollo dell’industriale che recitava la parte del rivoluzionario materialista disapprovato dal figlio dell’impiegato delle Ferrovie che fa professione di conformismo e di moderatismo. Sono sicuramente le doti d’agilità e di chiarezza che improntano la sua scrittura a farlo assurgere a redattore capo del giornale. Il 1965, allorché frequenta la terza liceo, si rivela un anno fortunato per il ragazzo. Un suo scritto sui lager nazisti, apparso sul giornale scolastico, é premiato dal Leone XIII con un viaggio nei luoghi delle stragi naziste. Durante quel pellegrinaggio conosce Maristella Olivieri una giovane studentessa della quale s’innamora corrisposto. Nell’ottobre dello stesso anno, per la dose d’equilibrio che lo contrassegna e per le qualità di mediatore che ormai tutti gli riconoscono, è eletto ministro della cultura dell’istituto. Sono i tre coordinatori del giornale Marco De Poli, Beltramo Ceppi e Marco Sassano, da lui indicati alla direzione dopo la sua elezione, i quali fanno deflagrare nel 1966 il caso della Zanzara, una vicenda che li porta in tribunale per un’inchiesta sulla libertà e sull’educazione sessuale. Anche se nel foglio scolastico i giovani danno prova di praticare un giornalismo consapevole e responsabile, quel dilettantismo non appaga più le ambizioni del giovanotto. Intraprendente, scrive ad Amos Zaccaria, direttore di “Milan-Inter”, chiedendogli di potere assistere alle diverse fasi che contraddistinguono l’uscita settimanale d’un rotocalco. Dalla visita nasce la sua collaborazione con il foglio sportivo. E mentre si prepara per la maturità scrive pezzi sulle due squadre che si dividono la gran parte del tifo meneghino. Ma l’argomento calcio è per lui una semplice pratica di scrittura, perché, conseguita la maturità classica, inizia a collaborare con l’”Avanti” mentre segue i corsi di Storia Contemporanea all’università Statale. Walter ha in mente espliciti e precisi traguardi: conseguimento della laurea per onorare i sacrifici del padre che aspira ad appendere nel salotto il diploma del figlio “riuscito” e continuare a scrivere per i giornali. Realizzerà entrambi i desideri e anche qualcosa di più. Ritardando d’un paio d’anni il diploma di laurea, il figlio del ferroviere porta a termine un’‘originale ricerca sul movimento operaio nel secondo dopoguerra. E’un lavoro in due volumi che fa intendere meglio, attraverso il fenomeno sindacale, i risvolti della storia d’un’Italia ancora attristata dalla guerra appena finita e sfigurata da montagne di macerie. L’opera gli apre le porte dell’insegnamento universitario: diviene assistente del professore Brunello Vigezzi, docente di Storia Contemporanea alla Statale. Anche se è spesso assalito dal rimorso di non dare ascolto al richiamo degli studi universitari, Tobagi non se la sente di disattendere il forte richiamo verso il giornalismo. Tanto più che abbandonato l’”Avanti”, dove non ha alcuna prospettiva, nel 1969 è assunto all’”Avvenire”. Nel giornale della Cei vi resta però solo due anni; il tempo di scrivere (1970) il suo primo libro (Storia del Movimento studentesco e dei marxisti leninisti in Italia, ed. Sugarco), di completare il praticantato professionale e di lasciare in Leonardo Valente che dirige il foglio, il ricordo d’un “ragazzo preparatissimo, acuto e leale, interessato alla politica, allo sport, alla filosofia, alla sociologia e alle tematiche della contestazione giovanile”.
Difficilmente un giovane giornalista provvisto di queste qualità resta confinato in giornali laboratorio, com’era l’”Avvenire” diretto dal bravissimo Valente in quel periodo. Nel 1972, lo stesso anno in cui il giovanotto sposa Maristella, è assunto al “Corriere d’Informazione”. In quel periodo la contestazione che agita la società civile scuote anche le redazioni dei giornali. Negli organismi sindacali di base della categoria si manifesta la stessa ardente febbre estremista che affligge parte della comunità.
Tobagi ha 25 anni ed è già maturo come uomo e come professionista. Il tono di voce sempre basso, il sorriso raro, lo scrupolo per la precisione e il riferimento statistico, l’ampiezza e la gamma delle informazioni che sa ricavare leggendo ogni sorta di rivista e di libro, ma soprattutto la capacità d’affrontare qualsiasi argomento senza passionalità, sia quando scrive sia quando parla, ne fanno il candidato ideale per il ruolo di membro del comitato di redazione.
Gli impegni quotidiani che si moltiplicano non fanno venir meno la sua voglia di fare. Mentre continua ad assolvere al ruolo di assistente universitario e d’inviato di via Solferino, scrive per Fabbri Gli anni del Manganello, un saggio sul periodo dell’ascesa del fascismo. Poco più tardi, dà alle stampe La fondazione della politica salariale della CGIL, un lavoro pubblicato negli Annali della Fondazione Feltrinelli. La consacrazione al lavoro non fa venir meno il suo entusiasmo di marito e di babbo premuroso. Se qualcuno gli telefona mentre dà la pappa al primo nato, non esita a piantare l’”importuno” per dedicarsi al bimbo e soddisfarne i languori.
Uno in possesso delle eccellenze di Tobagi non poteva non destare l’attenzione di quel magnifico scopritore di talenti che era Franco Di Bella. Il quale nel 1976, con la massima qualifica per un giovane giornalista, quella d’inviato speciale, lo assume al “Corriere della Sera”. Walter mette in campo disponibilità ed l’impegno e convalida il buon giudizio che il direttore si è fatto di lui mostrando insieme con alcuni altri bravi inviati del giornale “di non battere ciglio all’ordine di partire per un servizio urgente”.
Il terrorismo tormenta l’Italia da sei anni. Le ragioni della sua nascita e quelle delle sue origini impegnano politici, sociologi e storici. Delle sue gesta quasi quotidiane si occupano però i cronisti. Ma se insieme con la precisione dei particolari e la puntualità dei riscontri, la narrazione di quegli eventi unisce anche la competenza dello storico e la conoscenza delle vicende sindacali (realtà dalle quali molti ritengono che siano nati i brigatisti), l’analisi del fenomeno si fa più chiara e il lettore ne guadagna in conoscenza. Dev’essere stato questo il ragionamento che convinse Di Bella ad impiegare nel 1977 il giovane inviato sul fronte delle brigate rosse.
Le frequenti missioni di cronista viaggiatore non interferiscono né con il suo impegno di docente incaricato alla cattedra di Storia Contemporanea (per la quale abbozza l’idea di realizzare un archivio universitario per armonizzare l’attualità con la riflessione storica), né con il ruolo di presidente dell’Associazione Lombarda dei Giornalisti al quale è chiamato nel 1979.
Gli incarichi poi si rivelano funzionali con la sua mai trascurata attività di saggista. Ne arricchiscono anzi l’esperienza d’esperto di storia del sindacato perché la sofferta tragicità degli eventi che è costretto a trattare è frequente stimolo di consapevole e meditata riflessione storica. Nel 1978, per il Saggiatore, scrive La rivoluzione impossibile, rievocazione dell’attentato a Palmiro Togliatti. Qui osserva come sulla base di quell’esperienza fosse pura illusione che il movimento operaio potesse conquistare il potere “con un colpo rivoluzionario”. Sullo stesso filone scrive poi un altro volume che licenzia nel 1979, Il sindacato riformista, in cui mette a fuoco due momenti decisivi delle vicende vissute dal nostro paese: l’eta giolittiana e la ricostruzione dell’Italia all’indomani della fine del fascismo. Anche in questo libro sottolinea l’importanza del gradualismo come risposta alle tentazioni delle rivoluzioni spontaneiste.
Il suo moderatismo, critico, intelligente e persuasivo, non poteva certo non essere avvertito con malsofferenza dall’eversione brigatista. Negli articoli d’attualità che appaiono sul “Corriere della Sera” e nella saggistica tobagiana, i gruppi clandestini della destabilizzazione trovano documentati elementi che evidenziano il loro velleitarismo criminale e il loro rivoluzionarismo piccolo borghese. Nel dicembre del 1978 e nel febbraio del 1979, il reparto operativo del gruppo dei carabinieri di Milano aveva rinvenuto “due documenti recanti note biografiche del giornalista”. Una di queste note era stata trovata all’interno d’un covo, presumibilmente in via Negroli, l’altra in una valigetta “24 ore” abbandonata nel gennaio 1979 dai terroristi sotto la neve nei pressi di piazza Durante-Viale Lombardia. Le carte facevano intendere che Walter era “oggetto d’istruttoria” da parte di due gruppi di terroristi: le Formazioni comuniste combattenti e i Reparti comunisti d’attacco. L’elenco comprendeva 35 nomi (giudici tra i quali Emilio Alessandrini, ucciso il 29 gennaio 1979 dai killer di “Prima Linea”; avvocati e tre giornalisti: con Tobagi, anche Leo Valiani e Franco Abruzzo). Quest’ultimo, che era dal 14 settembre 1978 nella Giunta della “Lombarda” con Tobagi, lavorava come cronista giudiziario per “Il Giorno”.
Sia pure seriamente e fortemente inquieto per la messa in guardia scaturita dal ritrovamento di quelle informazioni, il giornalista continua ad occuparsi d’eversione anche per approfondire le ragioni d’un fenomeno di cui s’era fatto e si faceva un uso politico. I suoi articoli evidenziano “una penetrazione che va di là dalle verità apparenti; ben più incisiva di una mera indignata condanna delle efferatezze compiute dai terroristi nel nome di un’ideologia, risalendo alle origini delle organizzazioni clandestine, ripercorrendone la storia e smantellandone il mito della invincibilità”.
L’inviato di via Solferino è evidentemente consapevole del rischio cui si espone. Il 28 marzo 1980, quando Franco Di Bella lo sveglia alle 7 del mattino per mandarlo a Genova dove in un covo di via Fracchia i carabinieri hanno abbattuto quattro brigatisti, il direttore del “Corriere” avverte in lui “i primi tentennamenti, le prime esitazioni a partire”. Ciononostante egli infila in valigia la sua roba e si mette in macchina. Legittimamente impensierito, ma anche deciso a non estendere né a Stella né ai genitori il turbamento che lo cruccia, fruca nella sua forza d’animo. Il 20 aprile butta giù il pezzo che probabilmente segna la sua condanna. “A volere essere realisti” scrive nell’articolo intitolato Non sono dei samurai invincibili “si deve dire che il tentativo di conquistare l’egemonia nelle fabbriche è fallito. I terroristi risultano isolati dal grosso della classe operaia. E però sono riusciti a penetrare in alcune zone calde delle grandi fabbriche, com’è successo alla Presse e alle Carrozze della Fiat. Si è scoperto che il terrorismo non esita ad acquattarsi sotto lo scudo protettivo delle confederazioni e persino del Partito comunista…”. Ammonisce: “Lo sforzo che si deve fare è di guardare la realtà nei suoi termini più prosaici, nell’infinita gamma delle sue contraddizioni; senza pensare che i brigatisti debbano essere per forza di cose samurai invincibili”. La sua linea d’impegno professionale e politico trova rincoramento nelle persone che hanno patito la violenza terrorista. Andrea Casalegno, figlio del giornalista ucciso due anni prima dai brigatisti a Torino, lo incoraggia: “Non si deve disertare: Bisogna denunciare; la denuncia è importante e va fatta”. Anche la mobilitazione dello stato comincia a produrre buoni esiti. L’eversione subisce significative disfatte. Tuttavia gruppi clandestini continuano a colpire e a prendere di mira i giornalisti. Il 7 maggio 1980 è la volta di Guido Passalacqua, caposervizio della “Repubblica”, che è gambizzato nel suo stesso appartamento. Walter sente sempre più incombente l’insidioso pericolo. Durante il dibattito che il 27 maggio (vigilia del suo assassinio) modera al Circolo della Stampa si chiede:”Adesso vedremo a chi toccherà prossimamente”. Qualche ora più tardi, verso le tre di notte, a Massimo Fini che lo ha accompagnato fin sotto casa dopo lo spuntino in una pizzeria di via Moscova con Giorgio Santerini, confida:”Sai, da un mese ho abbandonato le inchieste sul terrorismo. Non voglio morire per questi qui”.
Consapevole che i cimentosi servizi hanno attirato malvagie curiosità sul suo giovane inviato, il direttore del “Corriere della Sera” a partire dall’inizio di maggio lo impiega in inchieste preelettorali in vista delle elezioni amministrative. Walter può cosi dedicare parte del suo tempo all’Associazione Lombarda dei Giornalisti, all’Università per la realizzazione dell’archivio universitario (un’iniziativa realizzata per non troncare il legame che lo tiene unito alle aule universitarie) e alla preparazione d’un nuovo saggio sulla sua materia prediletta: il sindacalismo. Richiesto dalla Rizzoli, il libro, intitolato Che cosa contano i sindacati, é una riflessione sulla situazione del momento, sui problemi organizzativi e strategici che le organizzazioni dei lavoratori devono affrontare insieme con un’analisi storica e con i profili di alcuni dei principali leader delle tre centrali.
Avendolo allontanato dal pericoloso fronte del terrorismo, Franco Di Bella ritiene d’avere discostato dalla persona del suo collaboratore le gravi minacce che s’addensavano sul suo capo e di averne azzerato i rischi. Quando, attorno alle 11,30 del 28 maggio, pochi minuti prima che cominci la riunione dei capiservizio, Fabio Mantica irrompe nella stanza della direzione gridando ”hanno ammazzato Tobagi”, il direttore del giornale di via Solferino sente di vivere il giorno più triste e tragico della sua esistenza. Recatosi, accompagnato dal vice direttore Gaspare Barbiellini Amidei, in via Salaino s’inginocchia sul marciapiede fracido accanto al corpo esanime del suo inviato e piange sommessamente. Volgendo lo sguardo verso quel forellino rosso di sangue dietro l’orecchio sinistro del giovane sfortunato collega, il giornalista si chiedeva chi mai avesse potuto commettere un delitto cosi orrendo, un’infamia così grande.
Il dolore del direttore del “Corriere” trasfigura in rabbia qualche giorno più tardi. Leggendo il volantino di rivendicazione dei terroristi assassini alla presenza di Salvatore Di Paola, alto dirigente della Rizzoli, questi gli fa notare una frase. Questa: ”necessità pubblicitarie localmente circoscritte”. Il manager rivela d’averla pronunziata durante un incontro al quale partecipavano una decina di rappresentanti sindacali e non ricorda che fosse mai stata riportata da alcun documento. La scoperta radica nel giornalista la convinzione che all’interno della casa editrice esiste una talpa. Più tardi, incontrando il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa che assume le indagini sull’assassinio, Di Bella si raccomanda: ”Ci conosciamo da trent’anni; tu eri tenente io cronista: vedi di mettercela tutta; è come se mi facessi un favore personale”. “Te lo farò senz’altro” rispose l’altro.
La determinazione e l’impegno dei suoi uomini e la stella benigna (o qualcos’altro di cui non si è mai capito bene la natura durante e dopo il processo) consentono all’alto ufficiale d’adempiere in un tempo davvero breve alla promessa fatta all’amico. Già il 5 giugno i carabinieri, sospettando che qualcuno dei terroristi possa essere stato presente al dibattito che Walter ha moderato la sera del 27 maggio, mostrano al direttore del giornale di via Solferino e ai suoi cronisti i volti di alcuni dei presenti alla manifestazione al Circolo della Stampa ma senza risultati. A meta mese, l’inchiesta s’infila nella direzione giusta. Nel covo di via Negroli, dopo l’arresto del brigatista Corrado Alunni, i militi di Dalla Chiesa recuperano un volantino scritto a mano con il quale si rivendica il disarmo di due vigili urbani. La grafia è confrontata con quella delle lettere che Marco Barbone, un giovane di 22 anni, figlio di Donato Barbone, un dirigente editoriale della Sansoni (che fa parte della casa editrice Rizzoli), scrive alla sua compagna Caterina Rosenzweig detenuta a San Vittore. La giovane, che ha la residenza in via Solferino 34, casa frequentata dal giovanotto, ha compiuto un attentato incendiario contro la ditta Bassani-Ticino. Pedinato per giorni, il sospettato “presenta”, inconsapevolmente, ai carabinieri alcuni dei suoi amici che sono fotografati.
Una delle loro facce assomiglia terribilmente all’identikit della persona che il 7 maggio ha sparato a Guido Passalacqua. La fotografia è mostrata al caposervizio della “Repubblica” il quale trasalisce: “Ma questo è “Cina” sclama; questo è un amico”. Autenticamente attristato, commenta:”Se è tutto vero, se c’entra lui, è una vicenda straziante. “Cina” è il soprannome di Manfredi Di Stefano, un giovane militante della sinistra che il giornalista frequenta da qualche tempo.
Alla fine del mese di giugno del 1980 Carlo Alberto Dalla Chiesa ha già individuato l’accozzaglia di giovani sbrigliati che quasi certamente sono responsabili dell’assassinio di Tobagi. Tuttavia, per evitare che insufficienze investigative possano fornire appicci ai responsabili del delitto per sottrarsi al castigo o mettere in ombra elementi significativi per l’accusa, il generale procede con cautezza non lasciandosi sfuggire in quella fase alcunché delle indagini neppure con il suo amico Di Bella che pure agogna di vedere in galera gli assassini del suo bravo inviato. Ma dopo l’8 luglio, la segretezza che ha tenuto celati risultati e sviluppi (anche se incompleti) delle investigazioni rischia d’essere vanificata dalla naturale voglia di scoop di due giornalisti.
Quel giorno l’alto ufficiale é chiamato a Roma a deporre presso la Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro. Interrogato da alcuni deputati sullo stato delle indagini dell’assassinio Tobagi, fornisce in via riservata parecchie indiscrezioni che alcune settimane più tardi sono riportate da un periodico. Per non pregiudicare il prosieguo dell’inchiesta, e per evitare che qualcuno dei colpevoli possa sottrarsi all’arresto, il 25 settembre i carabinieri arrestano Marco Barbone che presta servizio militare ad Albenga. Condotto a Milano nella caserma di via Moscova, il giovanotto è interrogato dallo stesso Dalla Chiesa.”Devi essere un soldato che parla al suo generale; ti conviene confessare” lo ammonisce.
Barbone, che si è dato il nome di battaglia di “Enrico”, osserva la consegna ricevuta e “confessa” lo svolgimento completo dell’assassinio del giornalista del “Corriere della Sera” rivelando i nomi dei suoi complici che i carabinieri hanno in gran parte individuato. Sono: Paolo Morandini (Alberto), 21 anni, studente universitario, figlio del critico cinematografico del “Giorno”, in procinto di partire per il servizio militare; Manfredi Di Stefano (Ippo), salernitano, operaio, ex militante di Lotta continua; Francesco Giordano (Cina), 28 anni, calabrese di Catanzaro, operaio, collaboratore d’una impresa che distribuisce giornali; Daniele Laus (Gianni), un romano di 22 anni, studente d’architettura a Firenze, figlio d’un dirigente industriale e di un’insegnate di lingue e infine Luigi Marano (Fabio), 27 anni, anche lui studente d’architettura con il padre dirigente d’azienda. Oltre ai sei, Dalla Chiesa arresta altre 24 persone appartenenti all’area eversiva in cui il gruppo si é formato.
Il baricentro attorno al quale orbita la compagnia di malfattori é Marco Barbone come accerta la magistratura cui il giovane è stato affidato dall’Arma il 2 ottobre. Dapprima impegnato nei collettivi scolastici del liceo Berchet, successivamente, nonostante la sua giovane età, era stato ammesso nei circoli esclusivi dell’Autonomia milanese dove aveva iniziato la sua militanza in Rosso. Con quell’appellativo era conosciuto un periodico dell’ultrasinistra. In realtà dal 1976 questa denominazione indicava un’organizzazione politico militare, lo stato maggiore dell’Autonomia organizzata. Per Autonomia, negli anni Settanta, s’intendeva l’area politica extraparlamentare dell’estrema sinistra che ambiva di “promuovere la rivoluzione in modo autonomo e al di fuori dei partiti e dalle istituzioni”. Dopo un breve bigio passato in alcuni schieramenti eversivi quali le “Formazioni comuniste combattenti”, le “Unità comuniste combattenti” e le “Brigate comuniste”, i sei giovanotti avevano deciso di dare vita ad una loro organizzazione.
La nuova struttura nasce il 28 marzo 1980, lo stesso giorno in cui i carabinieri abbattono a Genova i quattro brigatisti nel covo di via Fracchia. Gli articoli dei giornali sull’evento ligure colpiscono particolarmente la banda di fusciarra la quale decide d’adottare la data quale denominazione del proprio gruppo e di preparare un’azione contro i giornalisti. L’operazione avrebbe dovuto servire ai sei per acquistare ragguardevolezza presso le sigle più temute del brigatismo rosso.
La scelta di colpire il settore della stampa va messa probabilmente in relazione con gl’incolpevoli rimbombi che di quel mondo i genitori di Barbone e di Morandini facevano risuonare gli echi nelle loro case e nelle “accademie” in cui culminavano le periodiche riunioni con gli amici. L’”analisi politica” elaborata dalla brigata assegna al settore dell’editoria il ruolo di “sistema portante della controrivoluzione” e ai giornalisti l’ufficio di professionisti “impegnati nella gestione della guerriglia psicologica”. Il passaggio all’azione sarebbe dovuto avvenire per gradi: avrebbero cominciato con piccole operazioni intimidatorie per passare a un ferimento e culminare con un omicidio.
Mentre si sviluppa la prima parte del programma con l’incendio dei furgoni del “Corriere della Sera” e l’assalto ad un mezzo di trasporto dell’”Unita”, la banda lavora alla schedatura dei giornalisti da colpire. La selezione ne assortisce un gruppo formato da “democratici illuminati, orientati politicamente verso la sinistra istituzionale e che il terrorismo ha cominciato a considerare nemici di classe”. Dall’odiosa cerna sortiscono il direttore della “Notte” Livio Caputo e gl’inviati Marco Nozza del “Giorno”, Giampaolo Pansa della “Repubblica” e Walter Tobagi del “Corriere della Sera”. L’elenco comprende anche il nome di Guido Passalacqua e quelli di alcuni cronisti giudiziari di giornali milanesi. Ma per questi ultimi la brigata 28 marzo ha in programma solo intimidazioni e ferimenti. Per i primi quattro la decisione unanime è: morte. Caputo, non fa parte del gruppo dei giornalisti orientati a sinistra. La sua colpa è quella “d’essersi dichiarato favorevole all’operazione dei carabinieri di Genova”.
La preparazione degli attentati impegna la masnada in pedinamenti, appostamenti e riscontri d’orari che nel caso del direttore della “Notte” mettono in luce complicate difficoltà le quali consigliano alla banda di abbandonare l’obiettivo. Cade anche le ipotesi d’assassinio di Marco Nozza. L’azione avrebbe esposto la congrega “ad un’operazione problematica” in quanto il cronista del “Giorno” abitava nel centro di Milano “in una zona militarizzata”. Il personaggio poi non osservava orari regolari. Pansa, al contrario, era prevedibile nei suoi quotidiani impegni che assolveva con diligente esattezza. Tuttavia prima di pensare a lui, i brigatisti mettono in calendario il ferimento di Passalacqua che “sotto l’alibi della sinistra svolgeva funzioni d’appoggio alla repressione”. La missione si rivelò semplice: Giordano conosceva tutto del personaggio; dove abitava, gli orari e come passava la giornata. Il giornalista della “Repubblica” fu colpito alle gambe il 7 maggio 1980 nella sua abitazione. Per agevolare i soccorsi, gli attentatori lasciarono la porta dell’appartamento aperta; Barbone e Morandini chiamarono addirittura l’autoambulanza.
Rispettosi del programma che si erano imposti, i terroristi, secondo l’agenda, avrebbero dovuto occuparsi di Giampaolo Pansa. L’inviato di “Repubblica” fu però involontariamente salvato dai “Reparti comunisti d’attacco”. Un giorno i brigatisti di quella formazione irruppero in una radio privata. Dai microfoni dell’emittente minacciarono il professionista che da quel momento modificò impegni e orari quotidiani sconciando il progetto criminale di quelli della 28 marzo.
E’ giunge il momento stabilito per colpire Tobagi. Alla sua eliminazione concorrono due elementi: uno d’ordine generale e l’altro di carattere personale. Intanto il rapido passaggio da uno stadio semplice a uno più complesso della lotta armata in Italia. A partire dal mese di febbraio 1980 sono stati assassinati il professor Vittorio Bachelet, presidente dell’Azione Cattolica e vice presidente del Csm, i giudici Nicola Giacumbi, Girolamo Minervini, e Guido Galli mentre una guardia della polizia privata è stata uccisa a Torino. Che cosa avrebbe dovuto fare in quel frangente una formazione al suo esordio se non accreditarsi con un assassinio, tenuto anche conto che il ferimento del giornalista di “Repubblica” aveva sollevato critiche nell’ambiente dove si sosteneva che “in fondo di giornalisti peggiori di Passalacqua ce n’erano altri?”. Questo era stato il ragionamento aberrante dei sei che attraverso la deviante riflessione pervengono al paralogismo”: “ bisogna colpire Tobagi, che è considerato il massimo esponente della corrente intelligente dei giornalisti”.
Attraverso riscontri, sorveglianze e appostamenti, l’accozzaglia scopre che Walter quale inviato non osserva orari fissi d’ufficio. Accerta che quando è a Milano esce di casa fra le 9,30 e le 10 e vi fa ritorno fra le 13 e le 13,30; rimette piede in redazione attorno alle 16 e rincasa fra le 19,30 e le 20. Verifica pure che guida un’automobile e che la parcheggia nel garage di via Valparaiso, un paio di centinaia di metri in linea d’aria dalla sua abitazione.
“Una prima ipotesi operativa” richiede che alcuni della combriccola si appostino nella rampa del garage per “ impattarlo”. Stabilito il come ucciderlo, restano tutte le incertezze che si riferiscono al quando. Tobagi viaggia molto e l’unico giorno certo circa la sua presenza in città è la domenica. Cosicché senza indugiare oltre, la banda decide d’ucciderlo la mattina del 24 maggio. Barbone e Marano s’agguatano dietro all’edicola che sorge nei pressi della casa del giornalista; Morandini dovrebbe avvistarlo e avvisare Laus che si trova alla guida d’una Renault rapinata a San Siro: Gianni dovrà portare l’auto davanti alla siepe del ristorante “dai Gemelli” dove i primi sono incaricati di sparare contro l’inviato. Manca Giordano impiegato in azioni di copertura.
Attesa per un’ora e mezza la vittima, il drappello, temendo “d’aver dato nell’occhio”, abbandona la zona.”Provando la via di fuga” gli sconsiderati s’accorgono che davanti ad una banca stazionano due pantere della polizia e deducono che se avessero agito quel giorno sarebbero stati sicuramente arrestati. Quando si sono già congedati dagli altri, Barbone e Laus scorgono Tobagi in piazzale Baracca insieme con la famigliola; la moglie Stella e i due figlioletti.
L’attentato fu differito alla domenica successiva. Tuttavia la notizia che l’inviato del “Corriere” avrebbe moderato un dibattito al Circolo della Stampa la sera di martedì 27 diede loro la certezza che il giornalista sarebbe stato sicuramente a Milano il 28 e decretarono per quel giorno la sua fine.
Mercoledì mattina Barbone, Marano, Morandini e Laus s’incontrarono presto davanti alla stazione di Porta Genova. Di Stefano, che si trovava già sotto la casa dell’inviato, appena li scorse lasciò la postazione rimpiazzato da Morandini. Questi, avvistato qualche ora dopo Tobagi, inforcò la bici, ne segnalò agli altri la presenza in strada e fuggì verso casa dove apprese dalla radio l’esecuzione del giornalista. A sparare per primo alle spalle del professionista era stato Marano seguito da Barbone.
Esecrata dal mondo civile, l’uccisione di Walter fece giungere “significativi consensi” agli assassini. Il nucleo storico delle brigate rosse “valutò positivamente l’azione”. Nonostante i complimenti ricevuti da coloro presso i quali avrebbero voluto acquistare stima, poco dopo il delitto, Barbone (questo vorrà far credere più tardi) avverti “un crollo psicologico che non gli permise di prendere più in mano un’arma” e “dovette forzarsi per partecipare ad una rapina per autofinanziamento”. Sulla base di questo sentire, si è portati a supporre che dopo l’assassinio potrebbe essere maturato in lui il desiderio del castigo per una vera catarsi al fine di pervenire ad una completa purificazione dello spirito. Barbone e Morandini si pentirono sì subito dopo l’arresto ma il loro gesto fu considerato (dalla maggioranza dell’opinione pubblica) un’azione strumentale per evitare i rigori del codice penale e per utilizzare la legge sui pentiti. Forse perchè come Roskolnikov in Delitto e Castigo, i due coltivarono nei loro animi la convinzione di non avere commesso un delitto ma di avere sbagliato uccidendo invano.
Il processo si tenne a Milano nel 1983 nell’aula bunker di piazza Filangieri a partire dal primo marzo. La sentenza pronunziata il 28 novembre, dopo 106 udienze, condannò Barbone a 8 anni e 9 mesi di carcere. La stessa pena fu inflitta a Paolo Morandini. Gli altri subirono le seguenti condanne. Manfredi Di Stefano, 28 anni e 8 mesi; Daniele Laus, 27 anni e 8 mesi; Mario Marano, 20 anni e 6 mesi; Francesco Giordano, 30 anni e 8 mesi. Il verdetto colpì particolarmente l’opinione pubblica anche per qualche paradosso scaturito dalla legislazione. Una ripugnante assurdità furono considerati i quasi nove anni di carcere comminati a Marco Barbone, uno dei due assassini materiali di Tobagi a fronte dei trent’anni inflitti a Francesco Giordano che nel delitto aveva svolto il ruolo del palo. Alla mitezza della pena s’aggiunse l’altra stravaganza, per non dire altro, costituita dalla contemporanea liberazione di Barbone e di Morandini.
Con il benestare del pubblico ministero, i due principali imputati furono posti in libertà provvisoria all’indomani della sentenza e a meno di tre anni del loro arresto. Il provvedimento fu spiegato con l’aritmetica giudiziaria. Applicando la legge sui pentiti, la pena dell’ergastolo era stata ridotta al minimo: dieci anni. Un riconosciuto “contributo eccezionale” aveva comportato un ulteriore sconto preteso dalle attenuanti generiche che aveva obbligato i giudici a diminuire ancora la condanna d’un terzo fino ad abbassarla a quattro anni e quattro mesi e dunque a mettere fuori dal carcere i beneficiari.
Il risultato di quei calcoli sconcertò parecchia gente. Facendosi interprete del disagio di molti, Montanelli, in uno di quei suoi pezzi che confermavano la sua forte disposizione alla concretezza, ricordò che senza i pentiti (“schiuma della terra, il peggio del peggio”) l’Italia non ce l’avrebbe fatta ad uscire dagli anni di piombo.
Non rinunciò però a proclamare il suo disgusto definendo quelle norme “inique, infami e infamanti applicate dai magistrati perché volute dal paese”. Per tutti i nauseati come lui domandò una sola cosa: “essere liberati dall’incubo d’incontrare questi figuri per non vedere riflessi nei loro occhi la nostra vergogna di avere avuto bisogno di loro e di avere risposto al loro falso rimorso con un perdono altrettanto falso”.
Il blando castigo invocato durante la sua arringa anche dal pm Spataro e il suo benestare alla richiesta di libertà provvisoria presentata dalla difesa a favore dei due principali responsabili dell’assassinio, fecero avvampare la polemica mentre i giudici popolari e togati entravano in camera di consiglio in un cascinale vicino Monza. I contrasti sulle incongruenze emerse dalla vicenda Tobagi, che non si erano mai chetate, videro contrapposti ancora una volta magistrati ed esponenti del Psi. Il direttore dell’”Avanti” Ugo Intini scrisse di “offesa alla morale perchè la coscienza del più insensibile dei cittadini mai si sarebbe potuto capacitare all’idea che a tre anni esatti dall’assassinio l’esecutore se ne vada in libertà” e di offesa al diritto in quanto “le miti pene proposte non erano imposte da quella legge che prevede forti sconti per chi nel pentimento offre alla giustizia contributi eccezionali ma dipenderebbero dalla parzialità del magistrato”.
Il pubblico ministero replicò che “l’immoralità doveva essere riscontrata non nella richiesta del magistrato ma nella legge che andava applicata”, che “quando Barbone aveva confessato nessuna contestazione gli era stata mossa dai carabinieri” e che “l’imputato con la sua testimonianza aveva contribuito a far luce su 11 omicidi”.
Le dispute sulla scarcerazione e sulla non corretta applicazione della legge sui pentiti si aggiungevano alla mai risolta controversia sull’esistenza dei mandanti e al sospetto (che si richiamava ad una vecchia indiscrezione), secondo il quale gli inquirenti (carabinieri e magistratura) sarebbero venuti a conoscenza del delitto ben cinque mesi prima che Tobagi fosse ucciso. Ebbene, il 17 dicembre 1980, diciotto giorni dopo la sentenza di prima istanza, l’”Avanti” eliminava il condizionale (tempo della eventualità) dalla rivelazione che sostituiva con il presente (tempo della certezza) e divulgava il nome del confidente, il terrorista pentito Rocco Ricciardi, soprannominato “il postino”. Se era vera la circostanza, le domande erano tre: come si spiegava il mancato intervento per evitare l’assassinio del cronista? Ancora: che tipo di “contributo eccezionale” aveva portato Barbone alla scoperta d’un delitto del quale cinque mesi prima si sapeva che sarebbe stato commesso? Infine: per quale favore e in nome di che cosa egli sarebbe stato compensato con la notevole riduzione della pena prevista per pentiti?
A denunziare, sia pure in una forma vaga, che i carabinieri erano a conoscenza del progetto d’uccisione di Tobagi era stato il segretario del partito socialista quando il processo di primo grado era ancora alle prime battute. Il 27 maggio 1980, in un discorso tenuto alla conferenza organizzativa del Psi al Castello Sforzesco, Bettino Craxi aveva chiesto ai giudici se esisteva agli atti una lettera anonima che il generale della Chiesa aveva ricevuto dopo il delitto Tobagi e che conteneva indicazioni relative all’agguato. Domandava pure “se era vero che organi di polizia e magistratura fin dal dicembre 1979, e cioè sei mesi prima del delitto, erano a conoscenza che gruppi terroristici prospettavano un attentato ad un giornalista milanese e che la fonte confidenziale informava che il giornalista sarebbe stato Walter Tobagi e indicava dove l’attentato sarebbe stato compiuto e dove poi effettivamente l’assassinio fu compiuto”.
La replica del procuratore della Repubblica Mauro Gresti e del pm del processo Armando Spataro era stata immediata. I due assicuravano che “tutte le lettere anonime pervenute all’inchiesta erano state vagliate, fatte oggetto d’indagini e si trovavano nei fascicoli del processo”. Quanto alle informazioni confidenziali, negavano che fosse mai giunta alcuna segnalazione alla procura. Aggiungevano che l’interesse dell’eversione verso il giornalista del “Corriere” era stato desunto da una serie di appunti che riguardavano lui e il senatore Leo Valiani contenuti in una valigetta “24 ore” trovata nel 1979 sotto un cumulo di neve a Milano e che “entrambi gli interessati erano stati informati”.
Le risposte dei magistrati non estinguono la forte curiosità del leader socialista e dei suoi collaboratori e neanche l’irrequieto desiderio dell’opinione pubblica alquanto turbata da una rivelazione fatta dall’importante esponente politico. Le udienze del processo appena iniziato, che si prevedono interessanti e, si presume, rivelatrici di molti risvolti della faccenda rimasti in penombra, favoriscono il differimento delle questioni sollevate dall’uomo che guida il Psi e anche di parecchi altri quesiti che erano stati patrocinati da altri, curiosi di sapere se nel delitto c’era stato un regista, perché non era stata coinvolta nel processo la fidanzata di Barbone, come mai non si era andati a fondo nel tentativo di sequestro di Tobagi organizzato da Barbone e da altri nel 1978, episodio rivelato in udienza da Antonio Marocco: interrogativi questi sui quali durante la fase dibattimentale era tornato a martellare insistentemente il giornale socialista.
Deluso delle risposte balzate fuori dal processo e dalla sentenza, l’”Avanti”, mentre Barbone libero si è ritirato in un istituto religioso (non si sa bene se per meditare sul delitto compiuto o per ringraziare i santi del miracolo ricevuto), racconta la vicenda di Rocco Ricciardi un trentenne salernitano infiltrato nelle file delle “Formazioni combattenti comuniste”, che regolarmente informava “gli inquirenti” attraverso un contatto che era tenuto da un brigadiere dei carabinieri. Questi ad ogni incontro “redigeva un resoconto che era poi trasmesso a tutte le autorità competenti”. Alla rivelazione, il direttore del giornale Ugo Intini faceva seguire un commento duro con il quale si domandava chi avesse avvisato Tobagi dell’esatta natura del pericolo e quali misure fossero state disposte per sventarlo.
La procura di Milano definì la faccenda una “montatura pazzesca” di cui qualcuno dovrà rispondere. Ma tre giorni più tardi, Oscar Luigi Scalfaro confermava la correttezza della denunzia del foglio socialista. Il ministro degli Interni, rispondendo ad un’interrogazione, riferiva che “agli atti del reparto operativo del gruppo carabinieri di Milano 1 esisteva l’originale di una relazione di servizio redatta da un sottufficiale dell’Arma il 13 dicembre 1979. Nel documento si leggeva: “Secondo il postino, il… (segue il nome d’un altro confidente) e gli altri avrebbero lasciato il proposito di compiere azioni in Varese ma avrebbero in programma un’azione a Milano. Il… non ha lasciato capire pienamente quale possa essere il loro obiettivo ma ha riferito al postino che si tratta d’un vecchio progetto delle Formazioni comuniste combattenti”. L’informativa del sottufficiale, di cui più tardi si saprà il nome in codice ”Ciondolo”, proseguiva:”Per quanto riguarda l’azione da compiere qui a Milano e la zona nella quale il gruppo sta operando, il postino ritiene che vi sia in programma un attentato o il rapimento di Walter Tobagi, esponente del “Corriere della Sera”. La zona in cui il gruppo sta operando dovrebbe essere quella di piazza Napoli-piazza Amendola- via Solari dove il Tobagi dovrebbe abitare. Il Tobagi è un vecchio obiettivo delle Formazioni comuniste combattenti”.
Il ministro degli Interni ricordava che “in precedenza, nel settembre 1978 e nel gennaio 1979, erano stati rinvenuti, rispettivamente all’interno di un covo ed in una valigia “24 ore” abbandonata, due documenti eversivi recanti una nota biografica del pubblicista, verosimilmente oggetto d’inchiesta da parte delle stesse F.C.C. e C.R.A., che tali reperti erano stati consegnati all’autorità giudiziaria competente che -secondo quanto consta all’Arma-ne aveva informato il Tobagi e l’autorità di Ps e che il giornalista avrebbe rifiutato la scorta propostagli”.
Ma allora avevano ragione Craxi e l’”Avanti”? Dalle dichiarazioni di Scalfaro sembra poi emergere un’altra sconcertante novità. E cioè che gli informatori siano due. Queste rivelazioni, in aggiunta alle durissime critiche riservate alla scarcerazione dei principali imputati avvenuta una ventina di giorni prima, inducono il quotidiano del Psi a formulare accuse contro i magistrati che si erano occupati dell’inchiesta incolpati d’avere assicurato l’impunità a Caterina Rosenzweig, d’avere occultato prove e alterato atti processuali per fare apparire spontanea e genuina la confessione del principale pentito.
Mentre preparano contro l’”Avanti”, accusato di diffamazione, le querele (seguite da condanne (1985) poi amnistiate (1987)), i giudici precisano e correggono il ministro che è incolpato anche di “inesattezze storiche”. Spiegano di non essere stati informati nemmeno verbalmente e che solo agli inizi di giugno, qualche settimana dopo la denunzia del segretario socialista Bettino Craxi al comizio del Castello Sforzesco, i magistrati avevano sollecitato una spiegazione e che i carabinieri avevano raccontato “di quella confidenza”. Quanto all’esistenza di un secondo postino, puntualizzano che si tratta d’un equivoco nel senso che il “postino” era sempre il Ricciardi che alcune volte (da qui il fraintendimento) era citato con quel soprannome non grazie ad un codice particolare bensì perchè era nell’organico delle Poste italiane.
Ma che cosa aveva raccontato il postino? Ricciardi, superando il risentimento che lo aveva contristato nel dicembre dell’80 in seguito al suo smascheramento, il 17 giugno del 1985, durante la deposizione davanti ai giudici della corte d’Assise d’Appello del processo Tobagi, svelerà la sua verità. Militante delle Formazioni comuniste combattenti, nel marzo del 1979 era stato fermato dopo una perquisizione nel suo appartamento. Per evitare la presura, aveva accettato di diventare informatore dei carabinieri lasciandosi alle spalle la lunga militanza eversiva. Nove mesi più tardi espose al suo referente, un sottufficiale dei carabinieri, un interessante accadimento. Narrò d’essersi imbattuto a Milano in un altro brigatista, Pierangelo Franzetti, uomo di vertice dei “Reparti comunisti d’attacco”. Questi gli riferì che la banda stava “studiando qualche operazione contro la stampa”. Gli confidò pure che per superare le portinerie nel lavoro di schedatura di possibili obiettivi si dava per propagandista del settimanale “Famiglia Cristiana”. Ricciardì assicurò che l’altro brigatista non gli diede alcuna indicazione sul possibile obiettivo cui era diretta l’operazione in corso d’attuazione.
Ma allora com’era venuto fuori il nome dell’inviato del “Corriere della Sera?” Secondo il confidente “non fu illogico interpretare il discorso di Franzetti nel senso di riconoscere nel loro bersaglio la persona di Tobagi ricollegandosi ad un vecchio tentativo delle Formazioni comuniste combattenti, di cui lui aveva fatto parte, di rapire il giornalista di via Solferino, progetto che lo aveva visto protagonista insieme con Marco Barbone e con Caterina Rosenzweig. Si trattava del sequestro denunciato in aula in un’udienza del processo da Antonio Marocco? Proprio di quello.
Il piano messo a punto nel 1978 prevedeva la cattura di Walter davanti alla sua abitazione e il suo trasferimento dentro un furgone in una baracca lungo il Naviglio dove sarebbe stato tenuto prigioniero finché i brigatisti non avessero ottenuto spazio sui quotidiani “per le loro idee e per le loro battaglie”.
Il giorno stabilito per l’azione, Ricciardi s’appostò sotto la casa di Tobagi in attesa che questi uscisse mentre l’automezzo con i complici stazionava poco distante pronto ad accoglierlo. Tuttavia sopraggiunse un imprevisto . In via Solari irruppe sgommando una pantera della polizia che si fermò a pochi passi da Ricciardi. Dietro l’auto si collocò il furgone. Il brigatista sostenne che i poliziotti “capirono l’antifona” e cioè che egli era pronto a sparare, e s’allontanarono. In ogni caso il piano saltò.
Ma quando il postino collega per associazione d’idee il vecchio progetto di rapire Tobagi con la nuova azione promossa dai “Reparti comunisti d’attacco” di Franzetti ne parla ai carabinieri? E questi che cosa fanno? Ricciardi a due anni di distanza dal processo in corte d’Assise non fornisce risposte convincenti. Anzi non offre affatto spiegazioni. Perché si ripara dietro i non ricordo. Incalzato, è costretto a svelare che “nei suoi rapporti confidenziali non raccontava tutto”. Protesta: “Dovevo premunirmi rispetto a un mio possibile arresto e non potevo vuotare il sacco sui miei reati”. La studiata cautela manifestata dal testimone porta a supporre che i carabinieri avessero sbagliato a non essere andati a fondo all’abortito sequestro del 1978 perché se lo avessero fatto sarebbero arrivati sicuramente a Barbone impedendo quanto accadde il 28 maggio 1980.
Anche se largamente carente, la puntualizzazione di Ricciardi indizia di forte ambiguità la confessione di Barbone il quale aveva raccontato che il l’inviato era stato scelto insieme con gli altri tre dopo la costituzione della brigata 28 marzo mentre dalle parole del postino si deduce che egli era già nel mirino della sua pistola quando ancora non era una firma. L’episodio raccontato dal salernitano rende poi fragile la tesi di coloro che nella diversità delle sigle che si contendevano Tobagi e nella distanza di tempo in cui si collocano le operazioni criminali cui è fatto oggetto il cronista, indicano l’alibi per giustificare la sua mancata protezione. Non va però dimenticato che Ricciardi parla due anni dopo il primo processo e che le sue verità sono come quelle del “Quinto evangelista”.
Anche sul mandante (o regista o suggeritore) del delitto, di cui il direttore del “Corriere della Sera” aveva sospettato l’esistenza con una connotazione aziendale, era stato Bettino Craxi a rilanciare il sospetto nel comizio del 27 maggio 1980 mentre si svolgeva il processo nell’aula bunker. Commemorando il “compagno e l’amico vilmente assassinato”, il segretario del Psi aveva riproposto il tema del “delitto politico frutto di fanatismo, dell’odio del terrorismo lungamente progettato e ispirato da mandanti”.
Sin dal primo momento Di Bella aveva acquistato certezza d’avere individuato nel volantino “la presenza di un cervello professionale informatissimo per raffinatezza di linguaggio e per conoscenza di problemi editoriali”. Barbone appena arrestato ne aveva escluso fermamente l’esistenza. Nei primi interrogatori cui l’aveva sottoposto Dalla Chiesa, aveva spiegato che la perfezione di linguaggio editoriale che si pretendeva egli (insieme con Morandini) avesse utilizzato per stilare il documento, altro non era che una sorta di zibaldone che mescolava discorsi sentiti nelle loro abitazioni e nelle case dei loro amici insieme con l’estrapolazione d’informazioni e di locuzioni compendiate da “Prima Comunicazione”, un mensile che si occupa di editoria e di giornalismo, da “Numero zero”, un giornale che allora era portavoce della Federazione nazionale della Stampa (che in quel periodo attaccava spesso la posizione politica di Tobagi) e da Ikon.
La precisazione non aveva crepato in alcun modo il convincimento del direttore del foglio di via Solferino. Di Bella era un professionista disincantato da anni di cronaca; un uomo cui il giornalismo aveva insegnato l’effettività e lo aveva provvisto d’un’acutezza d’ingegno che gli permetteva di leggere gl’indecifrabili caratteri di certe realtà che spesso si appiattano fra l’intricato groviglio degli elementi che avvolgono talune informazioni.
Dell’esistenza d’un burattinaio che non agiva all’interno del corpo redazionale bensì in quello più vasto “dell’ambiente giornalistico- editoriale-pubblicitario” (anche se aveva esortato Dalla Chiesa “a cercare pure nei corridoi di via Solforino”) aveva suspicato leggendo il contenuto del volantino di rivendicazione alla presenza di altri del mestiere. La sua ferma opinione s’era rafforzata quando Di Paola, direttore generale della casa editrice Rizzoli, aveva ribadito d’avere pronunziato la frase ”necessità pubblicitarie localmente circoscritte”, riferendola al lancio dell’”Occhio” (il giornale affidato poi a Maurizio Costanzo), alla presenza d’una decina di persone. Appena era venuto a conoscenza dell’arresto di Barbone, il giornalista aveva esternato le sue inquietudini all’amico generale. Questi lo aveva rassicurato garantendo che “il delitto non aveva avuto suggeritori ma era stato consumato dai sei al solo scopo di superare gli esami di terrorismo”.
Il direttore aveva screduto a quella tesi. Sapeva che il suo inviato era stato bersaglio di polemiche anche dure. “Un giorno” racconterà più tardi al processo “Tobagi giunse in redazione quasi piangente per gli attacchi verbali che aveva ricevuto”. Tuttavia egli non disponeva di prove atte a dare corpo alle ombre agitate dai suoi sospetti. Qualche settimana dopo l’arresto dei sei, Di Bella riaprì con il generale il discorso sulla questione del mandante. I due tenzonarono su che cosa si dovesse intendere per mandante: se un suggeritore o un istigatore. Entrambi alzarono la voce.
Ostinato, il direttore del “Corsera” preparò una serie di domande che l’alto ufficiale sottopose a Barbone. Dal confronto non venne fuori null’altro che il rassodamento del forte disaccordo esistente tra il giornalista e il militare il quale ribadì in quella occasione che “non c’era alcun elemento penalmente apprezzabile sui mandanti”. La discussione fu ancora una volta aspra: i due si rimbeccarono. Il generale se ne usci con la frase.”Tu sei come Craxi e Martelli, radicati nella convinzione che esistono dei mandanti”. Per mesi quando s’incontravano, il giornalista e il carabiniere non si rivolgevano la parola.
La polemica sui mandanti affocò ancora una volta con violenza durante la celebrazione del processo allorché l’”Avanti”, che ne propugnava l’esistenza, pubblicò (1 giugno 1983) alcuni brani della relazione che Dalla Chiesa aveva svolto l’8 luglio 1980 davanti alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul delitto Moro. In quella occasione l’ufficiale aveva definito la banda della 28 marzo “cani sciolti che hanno trovato nel giornalismo qualche sostenitore più accanito”. Aveva pure rivelato che dopo il delitto “nei giornali si trovava una carica maggiore, non dico a favore, ma quasi a giustificare il gesto, l’atto, il fenomeno per non essere individuati e non essere colpiti”. E ancora:“Si erano spaventati tutti: dagli editori, ai direttori, agli azionisti, ai cronisti”. Aveva aggiunto: “Però, secondo me, è qualcosa che rimane nell’ambito dei cronisti e i cronisti ospitano nelle loro file certamente qualcuno che si è avvalso di killer per uccidere Tobagi”.
Dalla Chiesa si mostrava consapevole della gravità di quanto affermava tuttavia rimarcava che sapeva di “poterlo sostenere”. Un commissario gli domandò: “E i mandanti? “ L’ufficiale replicò: “Siamo a livello d’indizi e se ne ho parlato è perchè questi indizi in quella direzione sono apparsi. Ma che da questo si possa passare all’imputazione, mentre un’indagine è in corso, credo di non poterlo sostenere”.
L’alto ufficiale precisò ancora che le motivazioni alla base del volantino non potevano venire che dall’ambiente. “La brigata 28 marzo ha quasi il significato che sia qualche organizzazione nuova spuntata anche nel settore del giornalismo; cosi come può nascere in fabbrica, può nascere nel corpo redazionale di un giornale, in un ambiente giornalistico, anche se fa tremare l’idea che un giornalista possa arrivare a fare il mandante”.
Le tortuosità verbali e le ambiguità concettuali che improntano le dichiarazioni dell’allora comandante dei carabinieri della Lombardia sono quasi certamente da imputare allo stato d’incompletezza in cui versano in quel mese di luglio 1980 le indagini su Barbone che, non ancora arrestato, ed in procinto di partire per il servizio militare (o forse già in divisa), è controllato costantemente dai carabinieri. Successivamente, dopo avere interrogato lungamente il principale imputato, l’ufficiale si convincerà dell’inesistenza del regista, determinazione che provoca lo scorticante dissenso con Di Bella, persuaso del contrario, e con Craxi. Il quale, irriducibile anche lui, affida ad un’equipe d’esperti uno studio comparato del volantino con gli scritti apparsi sulle riviste specializzate del mondo dell’informazione. L’indagine sarà poi trasmessa alla magistratura che non troverà alcun elemento atto a legittimare la presenza d’un suggeritore nel delitto.
L’ipotesi dell’ispiratore parve acquistare vigore nell’udienza del 12 ottobre del 1983. Francesco Giordano rivelò che una decina di giorni dopo l’assassinio del giornalista accompagnò Barbone nella sede del “Corriere della Sera”. Quando corte, difesa, pubblica accusa e parte civile gli chiesero cosa fosse andato a fare il suo complice in via Solferino, se per accedere agli uffici aperti al pubblico (abbonamenti, inserzioni, necrologie, servizio arretrati), per incontrare un giornalista o per altra ragione, il calabrese replicò dapprima con un rosario di non so. Successivamente, lasciando sconcertati tutti, se ne uscì asserendo che non aveva fatto domande perché “tra loro non si usava”.
Il presidente della corte Antonino Cusumano poco convinto del rapporto contegnoso che l’imputato voleva far credere improntasse le relazioni personali fra assassini, gli rivolse questa domanda. “Ma secondo lei, c’era qualcuno alle spalle di Barbone? C’era insomma un mandante? Giordano rispose: “Ho dei pensieri, ma preferisco…”
Oltre che da Dalla Chiesa, l’ipotesi del regista fu scartata anche dal suo braccio destro il colonnello Nicolò Bozzo e dal pubblico ministero del processo Armando Spataro.
Facendo appello alla sua esperienza, l’ufficiale ricordò che non era un fenomeno nuovo la circostanza che sospetti di complicità con gli assassini s’addensassero nell’ambiente di lavoro della vittima specialmente nei delitti di terrorismo. Era accaduto dopo l’uccisione d’un dirigente della Fiat. Il volantino di rivendicazione aveva sbalordito carabinieri e manager del complesso automobilistico perchè conteneva frasi che si riferivano ad un incontro tenuto alla presenza di nove persone. Poco tempo dopo la faccenda fu chiarita: le locuzioni erano state estrapolate da un giornale interno del gruppo tanto che una copia era stata trovata in un covo delle Br.
Della tesi di Bozzo si rese mallevadore il pubblico ministero Armando Spadaio che non si richiamò ad elementi dottrinali bensì ad una personale cognizione. Spiegò :”So per esperienza che i documenti di rivendicazione danno a quelli che vivono nell’ambiente della vittima la sensazione d’essere spiati. Sembrano essere stati scritti da qualcuno che ci vive accanto. E’ successo nei casi degli assassini di Alessandrini e di Galli”. Il magistrato ricordò che “le indagini esigono razionalità e lucidità”. Ammonì: “Il brigatismo è maniacalmente portato alla raccolta delle informazioni. Il linguaggio del terrorismo è il prodotto d’una cultura tetra e infida”.
La sentenza escluse l’esistenza dei mandanti. Per i giudici, il giornalista fu scelto come bersaglio in una rosa di giornalisti attenti come lui al fenomeno terroristico. Il verdetto rimarcò la pregiudizievole dannosità della tesi che sosteneva l’esistenza del suggeritore perchè “i sospetti e le illazioni coltivate con pervicacia, in assenza di qualsiasi positivo riscontro, finivano per impoverire un sacrificio e per svilire una figura tanto degna facendone soltanto un vessillo per una lotta fra diverse fazioni.”
A Barbone e a Morandini le pene furono confermate nel 1985. Riduzioni subirono quelle di Giordano (21 anni); Laus (16 anni) e Marano (12 anni). Quanto a Manfredi Di Stefano, la morte, sopravvenuta nell’aprile del 1981, lo affidò ad un Magistrato che i pentiti li giudica scrutando dentro al cuore degli uomini (anche di quelli che hanno cambiato cognome) e senza elevare ad articoli di fede i verbali degli incartamenti processuali. Almeno si spera.
Enzo Magrì
(Tabloid, maggio 2005)