di Francesco M. de Bonis
Milano, 6 aprile 2008. Franco Abruzzo ha raccontato ieri che, con una maggioranza di 12 a 5, il Consiglio dell’Associazione “W. Tobagi” ha approvato il contratto che legherà, con "funzioni direttive", il giornalista professionista Enrico Regazzoni (notissima firma di Repubblica e dell'Europeo) all’Ifg “C. De Martino” per 12 mesi rinnovabili a partire dal 9 gennaio scorso. Lo stipendio mensile, che comprende lo straordinario fisso (15%), è di euro 3.392,39 lordi (46.792 euro lordi all'anno, che, con gli oneri sociali, diventeranno 62mila). Regazzoni, ascoltato dal Consiglio, ha confermato quello che aveva già detto: "Il mio impegno lavorativo non supererà le 3 mezze giornate a settimana" (12 ore complessive, ndr). Non posso vivere con 2mila euro netti al mese". Il tutto con una illegittima deroga al Cnlg (che parla di 36 ore settimanali) e con la benedizione di pezzi forti del sindacato. Alcuni consiglieri dell’Ordine della Lombardia hanno chiesto al presidente dell’ente di mettere sotto processo disciplinare Abruzzo: quelle notizie erano destinate a rimanere segrete! Abruzzo ha annunciato che agirà in tutte le sedi a tutela della sua libertà e dei suoi diritti (artt. 21 e 24 Cost). Va detto che l’Ordine di Milano negli ultimi 5 anni ha versato all’Afg 700mila euro, fondi pubblici il cui impiego non ammette silenzi e segreti. E sono pubblici ovviamente anche i finanziamenti della Regione Lombardia (840mila euro nel periodo 2007/2009). La trasparenza è un obbligo di legge ma anche un dovere.
Possono i Consigli dell’Ordine dei Giornalisti “processare” i giornalisti che si avvalgono del diritto di informazione e di critica in maniera forte e penetrante? La risposta è negativa: “La libertà di informazione e di critica, definita ‘insopprimibile” dalla legge professionale, non può essere messa sotto accusa in sede disciplinare. Se ciò accadesse, sarebbe un fatto gravissimo tale da provocare un intervento del Ministero della Giustizia diretto a sciogliere il Consiglio che ha commesso un simile abuso. Più in generale un evento simile darebbe fiato a quanti, come Beppe Grillo, chiedono la morte dell’Ordine. La repressione del dissenso è un autogol”. Il dibattito riguarda la pubblicazione delle decisioni adottate nei Consigli dell’Ordine o negli enti strumentali (come l’Afg “W. Tobagi”). Siamo al paradosso. Letizia Gonzales afferma in una sua lettera: “Siamo a fine settembre ed eccoci a darvi notizie dopo il rientro dalle vacanze e raccontare le delibere più interessanti del primo consiglio che abbiamo tenuto subito dopo le ferie. Sempre nel nome della trasparenza intendiamo continuare questo dialogo per mantenere con tutti voi quei legami che ci fanno sentire vicini ai nostri iscritti. Grazie! ai colleghi che ci hanno scritto o telefonato per esprimere il loro consenso alla prima newsletter” (https://www.odg.mi.it/docview.asp?DID=2754). L’informazione è un monopolio del presidente? Soltanto lei può stabilire quali delibere siano interessanti e degne di diffusione?
I Consigli degli Ordini devono o dovrebbero, comunque, leggere e rileggere questo passo della sentenza 11/1968 con la quale la Corte costituzionale ha ritenuto legittima la legge 69/1963 sull’ordinamento della professione di giornalista:
“La Corte ritiene, del pari, che i poteri disciplinari conferiti ai Consigli non siano tali da compromettere la libertà degli iscritti. Due elementi fondamentali vanno tenuti ben presenti: la struttura democratica del Consigli, che di per sé rappresenta una garanzia istituzionale non certo assicurata dalla legge precedentemente in vigore (D.L. Lt. 23 ottobre 1944, n. 302), in base alla quale la tenuta degli albi e la disciplina degli iscritti sono state affidate per circa venti anni ad un organo di nomina governativa; e la possibilità del ricorso al Consiglio nazionale ed il successivo esperimento dell'azione giudiziaria nei vari gradi di giurisdizione. L'uno e l'altro concorrono sicuramente ad impedire che l'iscritto sia colpito da provvedimenti arbitrari. Essi, tuttavia, non sarebbero sufficienti a raggiungere tale scopo, se la legge stessa prevedesse, sia pure implicitamente, una responsabilità del giornalista a causa del contenuto dei suoi scritti e ammettesse una corrispondente possibilità di sanzione, perché in tal caso la libertà riconosciuta dall'art. 21 sarebbe messa in pericolo e l'art. 45 - norma di chiusura dell'intero ordinamento giornalistico - risulterebbe illegittimo. Ma la legge non consente affatto una qualsiasi forma di sindacato di tale natura. Se la definizione degli illeciti disciplinari, come è inevitabile, non si articola in una previsione di fattispecie tipiche, bisogna pur considerare che la materia trova un preciso limite nel principio fondamentale enunciato dalla stessa legge nell'art. 2. Se la libertà di informazione e di critica è insopprimibile, bisogna convenire che quel precetto, più che il contenuto di un semplice diritto, descrive la funzione stessa del libero giornalista: è il venir meno ad essa, giammai l'esercitarla che può compromettere quel decoro e quella dignità sui quali l'Ordine è chiamato a vigilare”.
La sentenza è limpida. I Consigli dell’Ordine dei Giornalisti ne tengano conto. Andar contro questa sentenza significa arrivare in fretta alla chiusura dell’Ordine stesso. Un Ordine che viola l’art. 21 della Costituzione e l’articolo 10 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo va sciolto in fretta. La Consulta ha parlato chiaro.
I Consigli dell’Ordine dei Giornalisti farebbero bene a meditare su queste due sentenze, che pubblichiamo qui di seguito:
1) La sentenza 25138/2007 della V sezione penale della Cassazione (che ha assolto Vittorio Feltri) segna una svolta radicale nella storia giudiziaria del nostro Paese. Il vento di Strasburgo ha scosso i Palazzi della Capitale italiana: così per i giornalisti è aria nuova. La Cassazione ha chiarito che “la libertà di manifestazione del pensiero garantito dall'art. 21 della Costituzione e dall'art. 10 della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee o critiche su temi d"interesse pubblico, senza ingerenza da parte delle autorità pubbliche”. “I giornali sono cani da guardia della democrazia e delle istituzioni (anche giudiziarie)”. Si afferma finalmente in Italia la visione americana del ruolo della stampa. La sentenza recupera, ed era ora, la giurisprudenza della Corte dei diritti dell’Uomo.
2) Il diritto della stampa di informare su indagini in corso e quello del pubblico di ricevere notizie su inchieste scottanti prevalgono sulle esigenze di segretezza. Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti dell'uomo che, nella sentenza del 7 giugno 2007, ha condannato la Francia per violazione della libertà di espressione (ricorso n. 1914/02). Questo perché i tribunali interni avevano condannato due giornalisti che avevano pubblicato un libro sul sistema di intercettazioni illegali attuato durante la Presidenza Mitterand. Nell'opera, oltre che stralci di dichiarazioni al giudice istruttore e brogliacci delle intercettazioni, era contenuto l'elenco delle persone sottoposte ai controlli telefonici. Se i giudici francesi hanno fatto pendere l'ago della bilancia verso la tutela del segreto istruttorio, punendo i giornalisti, la Corte europea ha invece rafforzato il ruolo della stampa nella diffusione di fatti scottanti, soprattutto quando coinvolgono politici. In questi casi, i limiti di critica ammissibili sono più ampi, perché sono interessate persone che si espongono volontariamente a un controllo sia da parte dei giornalisti, che della collettività.
I Consigli hanno un cancro al loro interno: il rischio della "dittatura della maggioranza" (che reprime e schiaccia le minoranze). E’ illuminante la lettura del saggio di Alessandro Catalani sull’argomento (“Gli Ordini e i collegi professionali nel diritto pubblico”, Giuffrè, 1976). Il principio maggioritario impedisce che nei Consigli siano presenti voci dissonanti in rapporto ai voti effettivi di ciascun gruppo “ufficioso”. E’ quello che è accaduto a Milano nel maggio/giugno 2007.
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La legge regionale 19/2007
sulla formazione è in vigore
finché non verrà abrogata
(ma verrà abrogata?)
dalla Corte costituzionale.
Milano, 6 aprile 2008. Nel corso della riunione (4 aprile 2008) del Consiglio di presidenza dell’Afg “W. Tobagi”, qualcuno ha sostenuto che la legge regionale 19/2007 è praticamente disapplicata perché la stessa è stata impugnata dal Consiglio dei ministri (nella seduta del 28 settembre 2007) davanti alla Corte costituzionale. L’articolo 136 della Costituzione dice: “Quando la Corte dichiara l'illegittimità costituzionale di una norma di legge o di un atto avente forza di legge, la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione”. Il ricorso del presidente del Consiglio (n. 43/2007 pubblicato su G.U. del 21/11/2007 n. 45), non ancora discusso, punta a far dichiarare la illegittimità di parte della legge 19/2007 (artt. 1, comma 2, 10, 11, 14, comma 2, 18, 24, 28 e 30). L’articolo 136 significa che sul rovescio quella legge oggi è pienamente in vigore finché non verrà fulminata (in parte) dalla Consulta. Ma verrà fulminata?
Frattanto la stessa legge regionale 19/2007 viene regolarmente attuata dalla Regione Lombardia. Ne è una prova il D.D.G. n. 301 del 21 gennaio 2008 (Oggetto: chiusura temporanea dello sportello informatico per l'inoltro delle domande di accreditamento per i servizi di istruzione e formazione professionale). Da questo decreto abbiamo appreso che:
- è stata emanata la d.g.r. n. 6273 del 21 dicembre 2007 “Erogazione dei servizi di istruzione e formazione professionale nonché dei servizi per il lavoro e del funzionamento dei relativi albi regionali. Procedure e requisiti per l’accreditamento degli operatori pubblici e privati”.
che il sistema di accreditamento per i servizi di istruzione e formazione professionale è stato modificato con la d.g.r. n. 6273/2007;
che in particolare il punto 3 della suddetta d.g.r. n. 6273/2007 stabilisce la revoca della precedente d.g.r. n. 19867 del 16 dicembre 2004, facendo contestualmente cessare l’efficacia della stessa e dei decreti dirigenziali ad essa collegati.
Va precisato che il nuovo Consiglio dei ministri potrebbe, dopo le elezioni del 13/14 aprile, deliberare di ritirare il ricorso presentato dal Gabinetto di Romano Prodi. (f.ab)