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Stampa

Numero 38 (aprile 2008) del
“Giornale di Socrate al Caffè”

GIORNALISTI AL BIVIO.
Lo scontro con gli Editori
per il contratto di lavoro
le “caste”, il mega-establishment
e le incognite della flessibilità.
Oggi chi è il giornalista?
Un’appendice del computer.

Questa è la realtà dei grandi giornali nazionali, a sentire ciò che si racconta. Non dei piccoli quotidiani di provincia, però, che hanno mantenuto un certo spirito del giornalismo originario, anche se stanno cambiando pelle. Il lettore, dicono i sociologi, è di due tipi fondamentali: quello che “non legge” e quello che “legge”. Il lettore del secondo tipo, che in Italia, secondo statistiche conta su 2-3 milioni di persone, vorrà sempre di più giornali specializzati negli esteri, nella politica nazionale e internazionale, nella società, nel costume, nel clima, nello spettacolo.

di Sisto Capra


La situazione dei giornalisti della carta stampata quotidiana non è buona, direbbe Adriano Celentano. La situazione delle aziende editoriali, invece, è buona, secondo i bilanci pubblicati. Fatturato e utili, sia pure con un rallentamento, sono cresciuti nel 2007 e cresceranno nel 2008, a meno di sconvolgimenti globali. La redditività dei siti online, invece, non corrisponde alle attese degli editori, ma le prospettive del settore sono incoraggianti. Una controprova della salute degli editori di giornali è che gli investimenti in testate e dorsi settimanali non rallenta, sull’onda della crescita esponenziale della pubblicità. La Fieg, ovvero la Federazione degli editori di giornali, piange un po’, come vuole la prassi, e nega alla controparte, la Fnsi, cioè il sindacato dei giornalisti, il rinnovo del contratto, scaduto da tre anni. Le due parti si sono date l’ennesimo appuntamento dopo le elezioni per riannodare i fili. Pomo della discordia continua a essere la parte normativa, su cui gli editori non transigono, mentre sulle richieste economiche dei giornalisti non ci sarebbero problemi. Per parte normativa si intende lo status professionale dei giornalisti che gli editori vorrebbero venisse codificato dal nuovo contratto: essenzialmente, più flessibilità su tutti i fronti. Ma i giornalisti resistono.  Intanto, il numero di quotidiani pubblicati in Italia è in aumento incessante e la battaglia tra i grandi gruppi editoriali nazionali per la conquista di nuove fette del mercato è ormai senza quartiere. Sembra essere questo lo stato dell’editoria e del giornalismo oggi in Italia, stando alle analisi della stampa specializzata. Un’ottima fonte per orientarsi è il mensile “Prima Comunicazione”. Un piccolissimo contributo alla riflessione su alcune questioni è stato offerto dall’incontro di “Socrate al Caffè” di domenica 16 marzo alla libreria Feltrinelli. Titolo “Il mestiere del giornalista”. Sono intervenuti il presidente dell’Unione Italiana Cronisti Guido Columba, Cristiano Draghi del  mensile “Prima Comunicazione”, l’ex-presidente dell’Ordine dei Giornalisti dalla Lombardia Franco Abruzzo e il capocronista de “La Provincia pavese” Carlo Gariboldi. Come “Giornale di Socrate al caffè” vogliamo qui approfondire una serie di tematiche non affrontate in quella sede. Il Gruppo Espresso è stato l’iniziatore, all’inizio degli anni Ottanta, di una nuova fase della storia dei quotidiani locali. Gli ideatori sono stati  Carlo Caracciolo, Eugenio Scalfari e Mario Lenzi, il grande architetto della formula che vede uno degli esempi di maggior successo proprio ne “La Provincia pavese”, entrata a far parte del Gruppo nel 1980. Da qualche anno anche la Rizzoli-Corriere della Sera si è buttata nella partita con l’arma dei “Corrieri” locali. Pure il Gruppo Riffeser  con il Quotidiano nazionale e numerosi altri protagonisti sono scesi in campo: il solo elenco delle nuove iniziative riempirebbe un numero di “Socrate”. Province e città italiane sono diventate terra di competizione tra gli editori, ciascuno con la propria armata di concessionarie pubblicitarie. E nel frattempo sono comparsi i quotidiani gratuiti, come hanno documentato Arianna Moscardini e Matteo Mognaschi nell’ultimo numero del nostro giornale. E i giornalisti dipendenti delle aziende editrici di quotidiani? Intanto bisogna distinguere tra giornalisti con contratto a tempo indeterminato e quelli a tempo determinato. Il pubblico dei non addetti ai lavori tende a fare una certa confusione, al riguardo, e a considerarli tutti alla stessa stregua. I giornalisti quarant’anni fa si ritrovarono all’apice della considerazione sociale sull’onda dello scandalo Watergate, quando due cronisti del “Washington Post” si misero a scavare nei segreti inconfessabili della Casa Bianca, pilotati da una fonte riservata, “Gola profonda”, e provocarono le dimissione del presidente degli Stati Uniti Richard Nixon. Si sostiene che la decapitazione politica di Nixon avvenne per iniziativa dei giornalisti Bod Woodward e Carl Bernstein. In realtà, a mettere in moto quello che sarebbe passato alla storia come lo scandalo Watergate fu la presidentessa della società editrice del “Post”, Kate Graham, che decise di pubblicare l’inchiesta dei due cronisti, sostenuta da alcune lobbies Usa, e così “scoperchiò” la Casa Bianca. La vicenda del Watergate rivela chi conta davvero nel mondo dei media.  Sui siti della professione ci si concentra sull’ “attacco al diritto di cronaca”, ma è un bersaglio di second’ordine. La saldatura tra gli editori, il capitale finanziario, il mondo bancario e i grandi schieramenti politici dà vita a un sostanziale “continuum”, un monopolio virtuale di enormi proporzioni, un mega-establishment. Se si guardano le cose da questo punta di vista, il famoso libro “La casta” di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo offre un’interpretazione parziale della realtà, a beneficio di un pubblico poco attento. Lo dimostra indirettamente la considerazione che mostrano nei confronti degli autori proprio coloro che sono presi di mira. Solo a un numero selezionato di osservatori viene in mente di approfondire i  rapporti tra la “casta dei politici” e la “casta dei giornalisti”. La perdita di autorevolezza dei giornalisti, del resto, ha la sua controprova in una strisciante perdita di reddito della categoria. E qui vorrei concedermi un “amarcord”. Da praticante alla “Gazzetta del Popolo” di Torino nel novembre del 1979 guadagnavo 487.000 lire, il doppio di mio padre che aveva un’avviata officina di elettrauto. Oggi, in proporzione e in termini reali, se paragono la mia busta paga al costo reale della vita, il mio reddito è diminuito. Così è in generale, mi pare, per la media della categoria. La mia situazione, direbbe Celentano, non è buona.  Forse il problema sarà anche che l’esistenza di un sindacato unico dei giornalisti non è più adeguato ai tempi e, nelle condizioni odierne, pure l’intera disciplina professionale e l’Ordine dei giornalisti dovrebbero essere rivisti.  I giornalisti delle generazioni successive alla mia, sotto questi chiari di luna, sembrano avere un futuro segnato: il posto fisso scomparirà dal panorama. Mi domando allora: può un giornalista con contratto flessibile esercitare in piena libertà la sua professione? La risposta, secondo me, è: no. Non intendo affatto dire che tutti i giornalisti di tutte le aziende editoriali dovrebbero avere il posto fisso garantito. Ciascuno si rende conto che la rigidità totale del mercato del lavoro non è più compatibile. Ma l’occupazione fissa dovrebbe continuare ad avere un ruolo centrale portante nel sistema dei giornali.  Se l’occupazione nei giornali, infatti, si ridurrà a un sistema in cui la totalità dei giornalisti sarà “flessibile”, la funzione dell’informazione come cane da guardia della democrazia subirà un colpo mortale. Non solo. L’estensione abnorme della flessibilità nei giornali ridurrà le prerogative e l’autonomia dei direttori responsabili a un mero simulacro: da figure di equilibrio nel rapporto tra editori e redattori essi si trasformeranno in puri portavoce delle aziende ed esecutori delle loro volontà.  Torno al mio “amarcord”, che qualcuno considererà patetico. Alla “Gazzetta del Popolo”, in corso Valdocco a Torino nel 1980, ci si sentiva un po’ missionari. Ricordo quella volta che il caporedattore della terza pagina per ricompensarmi mi fissò un appuntamento per la tesi di laurea a Vinchio d’Asti con lo scrittore Davide Lajolo, l’autore di “Veder l’erba dalla parte delle radici”. Si galoppava per il Piemonte anche senza rimborso spese. Il giornalista in redazione era una specie di sacerdote. La sua cultura eclettica e il suo know how ne facevano “il” mediatore per eccellenza tra la politica, la società, l’economia, la cultura e l’opinione pubblica. Oggi non è più così, “il” mediatore è diventato il software: ecco la grande distorsione. All’autonomia e all’orgoglio professionale di una categoria è subentrata la “legge del blog”, che del giornalismo non ha nemmeno l’ambizione. In corso Valdocco, durante la settimana chiudevo le pagine di Novara, di Vercelli, di Biella, di Pavia, quando mancava il redattore titolare Gino Banterla e il corrispondente da Pavia era Nando Azzolini. Caporedattore centrale era il vulcano rosso in camicia bianca che rispondeva al nome di Cesare Pecchioli, fratello del più noto Ugo “ministro degli esteri” del Pci di Berlinguer. D’inverno spalancava le finestre e tuonava al telefono con i corrispondenti che alle otto e mezza di sera non avevano ancora dettato nemmeno un pezzo ai dimafonisti. Alla domenica chiudevo la pagina del calcio di Promozione all’una di notte, spesso lavorando in coppia con il tipografo ucraino in esilio Ivan, nostalgico dello Zar, oppure venivo impiegato come inviato occasionale, una volta alla Festa del San Carlone di Stresa e l’altra alla Marcialonga del Col delle Finestre al Sestriere. Al lunedì mattina leggevo il pezzo del primo inviato di cronaca del giornale, Ezio Mauro, che una volta “osò” pure farsi vendere la droga al Parco Rignon di Torino. Oggi chi  è il giornalista? Un’appendice del computer. Questa è la realtà dei grandi giornali nazionali, a sentire ciò che si racconta. Non dei piccoli quotidiani di provincia, però, che hanno mantenuto un certo spirito del giornalismo originario, anche se stanno cambiando pelle. Il lettore, dicono i sociologi, è di due tipi fondamentali: quello che “non legge” e quello che “legge”. Il lettore del secondo tipo, che in Italia, secondo statistiche conta su 2-3 milioni di persone, vorrà sempre di più giornali specializzati negli esteri, nella politica nazionale e internazionale, nella società, nel costume, nel clima, nello spettacolo. La “rivoluzione” di “Repubblica”, che ha potenziato la parte “da leggere” rispetto alla cronaca e al notiziario, va ad incontrare questa domanda. Prima o poi, c’è da scommettere, osservano alcuni analisti, le cronache locali di alcune realtà geografiche potrebbero essere assorbite nei quotidiani nazionali e certe testate locali diventare edizioni locali delle testate nazionali. E’ questo il futuro prossimo venturo? In Italia si vendono suppergiù sei milioni di copie di quotidiani. E la situazione non è molto cambiata rispetto a dieci anni fa. La pubblicità negli ultimi anni è aumentata in modo esponenziale, al punto che per ospitarla tutta i giornali si sono gonfiati di inserti, magazine, edizioni settimanali. Di tutto e di più: dall’economia all’immigrazione, dalla formazione alla sanità, dal sociale allo sport, dall’auto alla moda, dalla cultura agli approfondimenti di cronaca. Il crinale tra informazione e pubblicità è però diventato incerto. I contenuti informativi si sono arricchiti? Per un verso sì, perché i giornali sono diventati grandi e grossi, ma intanto è cresciuta la contraddizione tra cronaca e pubblicità redazionale. Per quanto tempo nei giornali il direttore responsabile continuerà a contare più del capo della concessionaria di pubblicità? Vi sono settori come quello dell’economia, della moda, del tecnologico, dello sport automobilistico, tanto per citare i primi casi che vengono in mente, in cui è diventato più difficile distinguere tra informazione e pubblicità. C’è poi, a complicare il tutto, la questione delle proprietà. Gli intrecci tra capitale finanziario e mondo dei giornali si sviluppano. Il modello secondo cui la politica governa la società, l’economia la interpreta e la sviluppa e i “media” garantiscono la democrazia non è detto duri all’infinito.





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