di Nicola Marvulli
primo presidente della Cassazione
Per risolvere le problematiche emerse in seno all'Ufficio in seguito all'entrata in vigore del Codice in materia di protezione dei dati personali (art. 52, comma l, del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196) appare opportuno fornire i chiarimenti di seguito indicati con preghiera di voler impartire le direttive di rispettiva competenza.
1. - Il Codice in materia di protezione dei dati personali (art. 52, comma 1, del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196) fa espressamente salvo quanto previsto dalle disposizioni dei codici di procedura concernenti la redazione, il contenuto e la pubblicazione di sentenze e di altri provvedimenti giurisdizionali dell'autorità giudiziaria di ogni ordine e grado; esso interviene soltanto a disciplinare il momento della diffusione della sentenza o del provvedinento giurisdizionale per finalità di informatica giuridica.
2. - La possibilità di rendere in forma anonima i dati personali contenuti in una sentenza si ha quindi soltanto al momento della sua riproduzione in qualsiasi forma per finalità di informazione giuridica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica.
3. - L'art. 52 definisce i casi nei quali è garantito il diritto all'anonimato delle parti in giudizio o dei soggetti interessati.
Il sistema si articola su due livelli.
3. 1. - Il primo livello affida all'intervento del giudice l'anonimizzazione delle generalità e di altri dati identificativi. Sussistendo motivi legittimi che andranno esplicitati, l'interessato (non solo, quindi, la parte del giudizio) può chiedere, mediante istanza scritta depositata nella cancelleria o segreteria dell'autorità procedente prima che sia definito il relativo grado di giudizio, che sull'originale della sentenza o del provvedimento sia apposta, a cura della cancelleria o segreteria, un'annotazione volta a precludere, appunto in caso di riproduzione della sentenza o provvedimento in qualsiasi forma, per finalità di informazione giuridica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, l'indicazione delle generalità e di altri dati identificativi del medesimo interessato riportati sulla sentenza o provvedimento.
Su tale istanza provvede in calce con decreto, senza ulteriori formalità, l'autorità che pronuncia la sentenza o adotta il provvedimento. La medesima autorità può disporre d'ufficio l'anonimazione a tutela dei diritti o della dignità degli interessati.
Il diritto dell'interessato a chiedere che eventuali riproduzioni del provvedimento avvengano con l'esclusione delle sue generalità deve essere funzionalmente agganciato alla presenza di motivi legittimi
3.2 In altri casi - e siamo al secondo livello di tutela - l'anonimizzazione dei dati identificativi avviene in forza di un preventivo apprezzamento del legislatore. Infatti il comma 5 dell'art. 52:
- da un lato fa ricognitivamente salvo quanto previsto dall'art. 734-bis del codice penale relativamente al divieto di divulgazione delle generalità delle persone offese da atti di violenza sessuale senza il consenso di costoro;
- dall'altro prevede che, in caso di diffusione di decisioni giudiziarie occorre omettere in ogni caso, anche in mancanza della predetta annotazione, "le generalità, altri dati identificativi o altri dati anche relativi a terzi dai quali può desumersi anche indirettamente l'identità di minori, oppure delle parti nei procedimenti in materia di rapporti di famiglia e di stato delle persone".
4. - L'art. 52 del Codice si occupa anche delle modalità operative attraverso le quali avviene l'anonimizzazione dei dati identificativi degli interessati.
4.1. - Ove la tutela della privacy sia affidata ad un intervento, su richiesta o d'ufficio, del giudice (sono i casi dei commi 1 e 2), questi dispone che sia apposta a cura della cancelleria o segreteria, sull'originale della sentenza o del provvedimento, un'annotazione volta a precludere l'indicazione delle generalità e di altri dati identificativi in caso di riproduzione della decisione in qualsiasi forma per finalità di informazione giuridica.
Il testo del decreto legislativo prevede anche l'espressione esatta da adottare per tale annotazione, comprensiva del riferimento esplicito agli estremi dell'art. 52 del Codice; precisa inoltre (al comma 4) che "in caso di diffusione anche da parte di terzi di sentenze o di altri provvedimenti recanti l'annotazione…, o delle relative massime giuridiche, è omessa l'indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi dell'interessato".
4.2. - Là dove (ed è l'ipotesi del comma 5) la tutela dei dati identificativi è ex lege, il dovere di anonimizzare i dati sensibili identificativi del soggetto, allorché si proceda alla diffusione del provvedimento giurisdizionale (o della relativa massima), sorge "in ogni caso, anche in mancanza dell'annotazione di cui al comma 2". Tuttavia ciò non toglie che, ancorché non necessaria, l’annotazione disposta dal giudice sia comunque opportuna, soprattutto quando - ed è il caso della nostra Corte di cassazione - le decisioni sono rese accessibili attraverso il sistema informativo e il sito istituzionale dell'autorità giudiziaria. In mancanza di annotazione da parte del giudice, infatti, si costringerebbe il personale che immette la decisione nella rete Internet di verificare ogni volta (risolvendo i nodi interpretativi di cui supra) se la sentenza o il provvedimento giurisdizionale riguardi un procedimento concernente minori o, ancora, un procedimemo in materia di rapporti di famiglia.
5. - L'anonimizzazione, che si attua attraverso l'apposizione dell'annotazione "In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificavi di” non incide sulla pubblicazione dell'originale della sentenza (o di altro provvedimento del giudice), che deve essere completo di tutti i dati identificativi delle parti. Non sembra pertanto possibile redigere il testo del provvedimento con le iniziali anziché con le complete generalità.
6. - Il rimedio dell'anonimato opera soltanto in caso di successiva divulgazione della sentenza per finalità di informazione giuridica: non riguarda, pertanto, l'invio della sentenza all'Ufficio del registro per la registrazione.
7. - Il rilascio di copia della sentenza o di altro provvedimento giurisdizionale in favore di un soggetto diverso dalla parte del relativo procedimento e non titolare di uno specifico interesse processuale non è, già, un'attività di diffusione della decisione, e non soggiace, perciò, alla disciplina di cautela prevista dall'art. 52 del Codice in materia di protezione dei dati personali. Tuttavia, nel rilasciare copia della sentenza, il cancelliere può far firmare a chi la riceve una ricevuta con l'avvertenza relativa alla presenza, nel testo della sentenza, dell'annotazione sulle cautele da osservarsi in caso di successiva. divulgazione.
Nicola Marvulli/primo presidente della Cassazione
Nota di Franco Abruzzo
La lettera circolare del presidente Marvulli conferma che la Corte di Cassazione può rilasciare copie integrali delle sentenze ai giornalisti senza oscurare il nome degli imputati. Lo aveva chiarito la relazione 5 luglio 2005 dell'Ufficio del Massimario della stessa Corte intervenendo a seguito di precise richieste da parte dell'Ordine dei Giornalisti della Lombardia. La questione era nata a seguito dell’istanza di un imputato per reati sessuali che, appellandosi all’articolo 52 del Dlgs n. 196 del 2003, aveva sollecitato che il proprio nome pubblicato sulla sentenza fosse sbianchettato. Per tale motivo, la copia della sentenza n. 22724/05 della Terza Sezione Penale era stata stampata cancellando il nome e le generalità dell'imputato e con un timbro posto in alto a sinistra che richiamava la norma di legge che consente l'anonimizzazione. La Suprema Corte ha infatti spiegato che chiunque può richiedere una copia delle sentenze perché in quanto atti pubblici pronunciati "in nome del Popolo Italiano'' e che deve, però, oscurare i dati personali se vuole pubblicarle su una rivista specializzata di informatica giuridica; tuttavia, tale obbligo non vale per la cronaca giudiziaria in senso stretto, che deve assicurare il diritto all'informazione pur nel pieno rispetto dei diritti degli imputati. Nella relazione si affermava infatti che "le sentenze e gli altri provvedimenti giurisdizionali possono essere diffusi, anche attraverso il sito istituzionale nella rete Internet, nel loro testo integrale, completo - oltre che dei dati riferiti a particolari condizioni o status, anche di natura sensibile - delle generalità delle parti e dei soggetti coinvolti nella vicenda giudiziaria" e che "chi esercita l'attività giornalistica o altra attività comunque riconducibile alla libera manifestazione del pensiero [...] possa trattare dati personali anche prescindendo dal consenso dell'interessato e, con riferimento ai dati sensibili e giudiziari, senza una preventiva autorizzazione di legge o del Garante". Il presidente Marvulli precisa circostanze note ai cronisti: il Codice della privacy nell’attività giornalistica (del 3 agosto 1998) proibisce la pubblicazione dei dati identificativi di un minore o di una persona, che abbia subito violenza sessuale.
Il “Testo unico della privacy” 196/2003 (come la legge 675/1996) dà piena libertà ai giornalisti di trattare i dati giudiziari (secondo le regole deontologiche). I giudici delle violazioni sono soltanto i Consigli dell’Ordine dei Giornalisti. Secondo l’articolo 137 del Dlgs n. 196/2003, ai trattamenti (effettuati nell'esercizio della professione di giornalista e per l'esclusivo perseguimento delle relative finalità) non si applicano le disposizioni del Testo unico 196/2003 sulla privacy relative: a) all'autorizzazione del Garante prevista dall'articolo 26; b) alle garanzie previste dall'articolo 27 per i dati giudiziari; c) al trasferimento dei dati all'estero, contenute nel Titolo VII della Parte I. In sostanza l’articolo 137, non prevedendo il disco verde del Garante o di soggetti privati, rispetta l’articolo 21 (II comma) della Costituzione che vuole la stampa non soggetta ad autorizzazioni. I giornalisti dovranno, comunque, trattare i dati (=notizie) con correttezza, secondo i vincoli posti dal Codice della privacy del 1998, dagli articoli 2 e 48 della legge n. 69/1963 (sull’ordinamento della professione giornalistica) e dalla Carta dei doveri del 1993.
La legge sulla privacy non annulla un’altra legge centrale dell’ordinamento giuridico, la n. 633 del 1941 sul diritto d’autore. L’articolo 96 (in linea con l’articolo 10 Cc) protegge l’immagine della persona, che deve dare il consenso alla pubblicazione della sua foto. Senza il consenso, la pubblicazione della foto diventa un illecito civile. L’articolo 97 fissa le eccezioni: “Non occorre il consenso della persona ritratta quando la riproduzione dell’immagine è giustificata dalla notorietà o dall’ufficio pubblico coperto, da necessità di giustizia o di polizia, da scopi scientifici, didattici o culturali, o quando la riproduzione è collegata a fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico”. Sul risvolto di tale norma si suole articolare l’ampiezza del diritto di cronaca: si può pubblicare tutto ciò che è collegato a fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico.
Si legge ancora nella relazione dell’Ufficio del Massimario:
“Il Codice prevede uno statuto particolare per l’attività giornalistica, che rifugge dalla previsione di regole rigide e minuziose e che affida in prima battuta il bilanciamento tra i diritti e le libertà allo stesso giornalista il quale, in base ad una propria valutazione (che può essere sindacata), acquisisce, seleziona e pubblica i dati utili ad informare la collettività su fatti di rilevanza generale e d’interesse pubblico, esprimendosi nella cornice della normativa vigente e nel rispetto del proprio codice di deontologia. Esso stabilisce che chi esercita l’attività giornalistica o altra attività comunque riconducibile alla libera manifestazione del pensiero (inclusa l’espressione artistica e letteraria, come ora precisato dall’art. 136 del Codice) possa trattare dati personali anche prescindendo dal consenso dell’interessato e, con riferimento ai dati sensibili e giudiziari, senza una preventiva autorizzazione di legge o del Garante.
In caso di diffusione o di comunicazione di dati, il giornalista è peraltro tenuto comunque a rispettare alcune condizioni (art. 137, comma 3): i limiti del diritto di cronaca e, in particolare, quello dell’essenzialità dell’informazione riguardo a fatti di interesse pubblico, e i principi previsti dal codice deontologico relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica.
In ordine ai dati giudiziari, il codice deontologico (art. 12), a sua volta, rinvia al principio di essenzialità dell’informazione (art. 5), in modo da evitare riferimenti a congiunti o ad altri soggetti non interessati ai fatti.
La non diretta operatività all’attività giornalistica degli effetti dell’anonimizzazione disposta ai sensi dell’art. 52, commi e 2, del Codice – ma, più limitatamente, l’affidamento all’autonomia e alla responsabilità del giornalista, nel rispetto della legge e del Codice deontologico, dei risultati di quella ponderazione e di quel bilanciamento – sembra ricavarsi dal parere del Garante 6 maggio 2004 su Privacy e giornalismo. Alcuni chiarimenti in risposta a quesiti dell’Ordine dei giornalisti. Il Garante ha evidenziato la necessità che l’esigenza di assicurare la trasparenza dell’attività giudiziaria e il controllo della collettività sul modo in cui viene amministrata la giustizia debba comunque bilanciarsi con alcune garanzie fondamentali riconosciute all’indagato e all’imputato: la presunzione di non colpevolezza fino a condanna definitiva, il diritto di difesa e il diritto ad un giusto processo. In particolare, la diffusione dei nomi di persone condannate e, in generale, dei destinatari di provvedimenti giurisdizionali, ad avviso del Garante, deve inquadrarsi nell’ambito delle disposizioni processuali vigenti, di regola improntate ad un regime di tendenziale pubblicità. Di guisa che sono ritenuti pubblicabili, ad esempio, l’identità, l’età, la professione, il capo di imputazione e la condanna irrogata ad una persona maggiorenne ove risulti la verità dei fatti, la forma civile dell’esposizione e la rilevanza pubblica (anche solo in un contesto locale) della notizia. Secondo il Garante, nella diffusione dei dati dei condannati devono essere presi in considerazione il tipo di soggetti coinvolti (ad esempio, persone con handicap o disturbi psichici, o ancora, ragazzi molto giovani), il tipo di reato accertato e la particolare tenuità dello stesso, l’eventualità che si tratti di condanne scontate da diversi anni o assistite da particolari benefici (es. quello della non menzione nel casellario), in ragione dell’esigenza di promuovere il reinserimento sociale del condannato. Le medesime ragioni di tutela dei dati personali, ad avviso del Garante, dovrebbero altresì prevalere nei casi in cui la vittima ha manifestato la volontà che i propri dati non siano resi pubblici (fermo restando il fatto che il giornalista può procedere alla pubblicazione dei diversi dati anche in assenza del consenso da parte degli interessati). Tale principio troverebbe, tra l’altro, fondamento nella possibilità, per ogni soggetto interessato, di opporsi anche in anticipo per motivi legittimi alla pubblicazione (art. 7, comma 4, lettera a, del Codice). Secondo il Garante, il giornalista, nell’effettuare le valutazioni a lui rimesse, “non potrà non tenere conto del bilanciamento di interessi effettuato in un altro fronte e cioè che le sentenze pubblicate per finalità di informatica giuridica (non giornaliste, quindi) dallo stesso ufficio giudiziario, oppure da riviste giuridiche anche on-line, potranno in alcuni casi più delicati non recare il nome di taluna delle parti o di terzi (minore, delicati rapporti di famiglia, ecc.: art. 52 del Codice)”.