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Giornalisti e Giustizia. Nove sentenze sulle quali riflettere
(dal sito http://www.legge-e-giustizia.it/)


INDICE


LA RIPARAZIONE PECUNIARIA PER IL REATO DI DIFFAMAZIONE E’ DOVUTA ANCHE DALL’EDITORE in base all’art. 11 della legge 8.2.1948 n. 47 (Cassazione Sezione Terza Civile n. 21366 del 10 novembre 2004, Pres. Fiduccia, Rel. Travaglino).


 


 IL LAVORATORE CHE SI ASTIENE DALLA PRESTAZIONE LAVORATIVA PER REAZIONE AD UNA DEQUALIFICAZIONE HA DIRITTO ALLA RETRIBUZIONE E AL RISARCIMENTO DEL DANNO se si è comportato secondo buona fede (Tribunale Civile di Palermo, Sezione Lavoro, sentenza  del 13 ottobre 2004, Giudice dott. Martino).


 


LA PUBBLICAZIONE SU UN PERIODICO DI UN’INTERROGAZIONE PRESENTATA DA UN CONSIGLIERE PROVINCIALE NON E’ PUNIBILE ANCHE SE IL SUO CONTENUTO E’ OGGETTIVAMENTE DIFFAMATORIO perché rientra nell’esercizio del diritto di cronaca (Cassazione Sezione Terza Civile n. 20783 del 27 ottobre 2004, Pres. Duva, Rel. Limongelli).


 


IL CONFERIMENTO, A UN GIORNALISTA, DELL’INCARICO DI “SEGUIRE LO SVILUPPO DI TUTTE LE INIZIATIVE EDITORIALI LEGATE ALLE NUOVE TECNOLOGIE”, NON E’ IDONEO A SODDISFARE L’OBBLIGO DI FARLO LAVORARE in mancanza di qualsiasi specificazione (Tribunale di Roma, Sezione Lavoro, Giudice dott.ssa Tiziana Orrù, Oliviero B. c. RAI-Radiotelevisione Italiana S.p.A. ordinanza del 5 ottobre 2004).


 


IN CASO DI CONTROVERSIA SULLA LEGITTIMITA’ DI UN’ASSUNZIONE A TERMINE PER “SOSTITUZIONE A CATENA”, L’AZIENDA DEVE SPECIFICARE E PROVARE IL MECCANISMO DI SCORRIMENTO. Non sono sufficienti generiche disposizioni organizzative (Cassazione Sezione Lavoro n. 16661 del 24 agosto 2004, Pres. Mattone, Rel. Filadoro).


 


IL CONSIGLIO REGIONALE DELL’ORDINE DEI GIORNALISTI NON E’ LEGITTIMATO AD IMPUGNARE, DAVANTI AL GIUDICE ORDINARIO, UNA DELIBERAZIONE DEL CONSIGLIO NAZIONALE. L’impugnazione può essere proposta o dalla persona interessata o dal Pubblico Ministero (Cassazione Sezione Prima Civile n. 21395 del 10  novembre 2004, Pres. Criscuolo, Rel. Di Palma).


 


PER UN DIPENDENTE COMUNALE ADDETTO ALL’UFFICIO STAMPA I CONTRIBUTI PREVIDENZIALI DEVONO ESSERE VERSATI ALL’INPGI, IN CASO DI ISCRIZIONE ALL’ALBO PROFESSIONALE E DI APPLICAZIONE DEL CNLGL’Istituto non ha l’onere di provare l’effettivo svolgimento di attività giornalistica (Cassazione Sezione Lavoro n. 11944 del 26 giugno 2004, Pres. Ciciretti, Rel. De Luca).


 


IL GIORNALISTA CORRISPONDENTE PUO’ ESSERE RITENUTO LAVORATORE SUBORDINATO ANCHE SE NON RICEVE ORDINI SPECIFICI ED E’ LIBERO DI COLLABORARE CON ALTRI GIORNALI purché sussista la continua dedizione funzionale al risultato perseguito dall’editore (Cassazione Sezione Lavoro n. 6983 del 9 aprile 2004, Pres.  Mattone, Rel. D’Agostino).


 


I PROGRAMMI RADIOFONICI DEL TIPO “POMERIGGIO MUSICALE” NON POSSONO ESSERE RITENUTI “SPECIFICI” AI FINI DELLA LEGITTIMA ASSUNZIONE A TERMINE DI UNA PROGRAMMISTA REGISTA – Il rapporto di lavoro deve essere considerato a tempo indeterminato in base alla legge n. 230 del 1962 (Cassazione Sezione Lavoro n. 6918 dell’ 8 aprile 2004, Pres.  Mattone, Rel. Cellerino).


 


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LA RIPARAZIONE PECUNIARIA PER IL REATO DI DIFFAMAZIONE E’ DOVUTA ANCHE DALL’EDITORE in base all’art. 11 della legge 8.2.1948 n. 47 (Cassazione Sezione Terza Civile n. 21366 del 10 novembre 2004, Pres. Fiduccia, Rel. Travaglino).


 In base all’art. 12 della legge 8.2.1948 n. 47 nel caso di diffamazione a mezzo stampa la persona offesa può ottenere, oltre al risarcimento dei danni, una somma a titolo di riparazione. L’entità della riparazione pecuniaria è determinata in relazione alla gravità dell’offesa e alla diffusione dello stampato. Tale riparazione è dovuta non solo dal responsabile del reato, ma anche dall’editore, in quanto, a termini dell’art. 11 della legge 8.2.1948 n. 47, per i reati a mezzo stampa l’editore è civilmente responsabile in solido con gli autori del reato (Cassazione Sezione Terza Civile n. 21366 del 10 novembre 2004, Pres. Fiduccia, Rel. Travaglino).


 


IL LAVORATORE CHE SI ASTIENE DALLA PRESTAZIONE LAVORATIVA PER REAZIONE AD UNA DEQUALIFICAZIONE HA DIRITTO ALLA RETRIBUZIONE E AL RISARCIMENTO DEL DANNO se si è comportato secondo buona fede (Tribunale Civile di Palermo, Sezione Lavoro, sentenza  del 13 ottobre 2004, Giudice dott. Martino).


 Il giornalista Enzo B., dipendente dalla S.p.A. Giornale di Sicilia Editoriale Poligrafica con qualifica di capo servizio, dopo essere stato preposto, per cinque anni, alla redazione di Messina, provvedendo alla realizzazione di sei pagine quotidiane di informazione locale e coordinando il lavoro di tre redattori e circa 50 collaboratori e svolgendo  anche attività di articolista, è stato trasferito a Palermo, nella redazione centrale, dove è stato destinato alla preparazione delle pagine della c.d. “cronaca in classe” ove venivano pubblicati temi di studenti su argomenti di attualità. Dopo avere promosso, inutilmente, un procedimento di urgenza davanti al Pretore di Palermo, egli ha comunicato all’azienda che, in considerazione della portata dequalificante delle mansioni assegnategli presso la redazione centrale, egli si sarebbe astenuto dal lavoro, pur dichiarandosi pronto a svolgere mansioni di capo servizio e articolista equivalenti a quelle prestate in Messina. Poiché l’editore non ha modificato le mansioni assegnategli, il giornalista si è astenuto dal presentarsi in redazione.


L’azienda ha reagito sospendendo, con effetto dal marzo 1999, il pagamento della retribuzione. Il giornalista ha promosso, davanti al Tribunale di Palermo, un giudizio ordinario diretto ad ottenere, tra l’altro, la condanna dell’azienda ad adibirlo alle mansioni di capo servizio e articolista, nonché a pagargli, anche a titolo di risarcimento del danno, la retribuzione non corrisposta con effetto dal 1 marzo 1999 e a risarcirgli anche il danno da dequalificazione. L’azienda si è difesa sostenendo che le mansioni di addetto alle pagine della “cronaca in classe” erano adeguate alla qualifica ed alla esperienza professionale del ricorrente e che il giornalista, non avendo svolto attività lavorativa, non aveva diritto a percepire la retribuzione. Dopo avere espletato l’istruttoria con l’escussione di alcuni testi, il giudice dott. Dante Martino ha pronunciato, il 19 maggio 2004, il seguente dispositivo: “In parziale accoglimento del ricorso, condanna la società convenuta ad adibire il ricorrente a mansioni di capo servizio o equivalenti alla suddetta qualifica. Condanna, altresì, la società a corrispondere allo stesso, a titolo di risarcimento del danno, una somma pari al 50% della retribuzione globale di fatto maturata dal 1.3.1996 al 1.3.1999, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali dalla maturazione di ogni rata di credito al pagamento. Condanna, infine, la convenuta a corrispondere, sempre a titolo di risarcimento del danno, una somma pari al 150% della retribuzione globale di fatto, maturata dal 1.3.1999 fino alla data della presente decisione, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali dalla maturazione di ogni rata di credito al pagamento”.


Nella motivazione della sentenza, depositata il 13 ottobre 2004, il Giudice ha rilevato tra l’altro che la complessa e meticolosa attività di coordinamento espletata dal ricorrente a Messina non era per nulla avvicinabile all’attività, svolta a Palermo, di collaborazione e correzione degli elaborati predisposti dagli alunni delle scuole locali; queste ultime mansioni – ha osservato il giudice – devono ritenersi dequalificanti anche perché non comportano lo svolgimento dell’attività di articolista in precedenza prestate da Enzo B. In ordine al risarcimento del danno il Giudice ha motivato la sua decisione come segue: “La condanna alla reintegrazione nelle mansioni precedenti, peraltro, non esclude, anche alla luce della giurisprudenza di legittimità sopra richiamata il diritto del lavoratore al risarcimento dei danni patiti a causa del demansionamento. Al riguardo, pur non volendo approfondire la complessa problematica teorica relativa alla tipologia dei danni derivanti dalla dequalificazione, è, a parere di questo decidente, possibile distinguere una duplice tipologia di danni. Da un lato è evidenziabile un danno di natura patrimoniale, consistente nella lesione della sfera professionale del lavoratore, ovvero nel depauperamento del bagaglio di acquisizioni teoriche e capacità pratiche acquisite dallo stesso nel corso del tempo ed aventi un valore economico nel mercato del lavoro. Dall’altro, v’è invece, quella più vasta (ed indefinita) categoria di danni, incidente sulla sfera personale del lavoratore, comprendente tutti quei beni quali la dignità, libertà, personalità, salute del lavoratore, riconducibili ai diritti fondamentali del cittadino-lavoratore riconosciuti dalla carta costituzionale e non aventi, in senso proprio, un “valore economico”.


“Tale duplice tipologia di lesioni è riconosciuta dalla recente giurisprudenza di legittimità secondo la quale: “Il demansionamento professionale di un lavoratore dà luogo ad una pluralità di pregiudizi solo in parte incidenti sulla potenzialità economica del lavoratore; esso, infatti, non solo viola lo specifico divieto di cui all’art. 2103 cod. civ., ma costituisce lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore nel luogo di lavoro, con la conseguenza che al pregiudizio correlato a tale lesione – che incide sulla vita professionale e di relazione dell’interessato – va riconosciuta una indubbia dimensione patrimoniale che lo rende suscettibile di risarcimento e di valutazione anche equitativa, pure nell’ipotesi in cui sia mancata la dimostrazione di un effettivo pregiudizio patrimoniale” (Cfr. Cassazione civile, sez.  lav. 6 novembre 2000, n. 14443).


            A fronte di un'unica condotta illecita, quindi, sorgono due tipologie di danno, suscettibili entrambe di risarcimento per equivalente. In ordine alla prova dei suddetti danni può essere  condiviso quel consistente filone giurisprudenziale (cfr. tra le altre Cass. sez. lav. sent. n. 15868 del 12/11/2002 e Cass. sez. lav. sent. n. 7967 del 1/6/2002) secondo cui: “Dalla illegittima attribuzione ad un lavoratore di mansioni inferiori rispetto a quelle assegnategli al momento dell’assunzione può derivare non solo la violazione dell’art. 2103 cod. civ., ma anche la violazione del diritto fondamentale del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro, tutelato dagli artt. 2 e 3 della Costituzione, da cui deriva il diritto dell’interessato al risarcimento del danno patrimoniale conseguente al pregiudizio risentito nella vita professionale e di relazione, e la cui quantificazione può avvenire in via equitativa, ai sensi dell’art. 1226 cod. civ. anche in mancanza di uno specifico elemento di prova da parte del danneggiato, in quanto la liquidazione può essere operata in base all’apprezzamento degli elementi presuntivi acquisiti al giudizio e relativi alla natura, all’entità e alla durata del demansionamento, nonché alle altre circostanze del caso concreto” (così da ultimo Cass. sez. lav. sent. n. 12553 del 27/08/2003). Nel caso di specie, la durata (oltre due anni) del demansionamento patito, la peculiarità delle mansioni giornalistiche, caratterizzate, come già evidenziato, da una costante esigenza di esercizio ed affinamento, l’età lavorativamente avanzata del ricorrente, portano a ritenere, seppure presuntivamente, provata l’esistenza di entrambi i profili di danno, patrimoniale e personale, sopra evidenziati. Il mancato espletamento delle mansioni di capo servizio e di articolista determina, infatti, sia una riduzione della notorietà del giornalista sia, per i motivi già evidenziati, un depauperamento delle sue capacità tecnico espressive, sì da incidere sul valore “di mercato” della sua professionalità”.


            Allo stesso modo, l’adibizione a mansioni inadeguate al ruolo posseduto intacca quel complesso di diritti della persona strumentali alla esplicazione della personalità del lavoratore nel luogo di lavoro, riconosciuti dalla Carta Costituzionale (artt. 2 e 41) e ritenuti meritevoli di tutela dall’ordinamento.In ordine alla quantificazione concreta del risarcimento è opportuno ricordare come in assenza di parametri normativi, di origine legale o contrattuale, la prevalente giurisprudenza di merito abbia condivisibilmente posto a criterio base per la quantificazione del risarcimento l’intera retribuzione percepita dal lavoratore (Tribunale Roma 19.10.1993, Pretura Milano 7.6.1993, Pretura Milano 8.4.1992) o una parte di essa (Pretura Milano 28.10.1994, Pretura Milano 18.7.1995, Pretura Napoli 10.10.1992).


            Orbene, a parere di questo decidente, appare conforme ad equità, in considerazione della parziale (e non totale) riduzione delle mansioni assegnate al ricorrente, equiparare la somma dovuta a titolo di risarcimento alla metà della retribuzione globale di fatto percepita dal ricorrente per il periodo dal 1.3.1996 (data in cui è stato assegnato alla redazione di “cronaca in classe”) al 1.3.1999 (data in cui è cessata l’erogazione della retribuzione). La società va, quindi, condannata a corrispondere in favore del ricorrente, a titolo di risarcimento del danno per il demansionamento subito, una somma pari al 50% della retribuzione globale di fatto corrisposta allo stesso dal 1.3.1996 al 1.3.1999, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali.


            Per quanto riguarda il periodo successivo al 19.2.1999, data in cui il lavoratore ha comunicato alla società la propria volontà di volersi astenere “con effetto immediato dalla prestazione lavorativa da Voi richiestami,” considerandosi però “a Vostra disposizione per svolgere le mansioni di capo servizio della cronaca di Messina o altre equivalenti, può essere riconosciuto il diritto dello stesso alla corresponsione di una somma pari al 150% della retribuzione di cui il 50% quale risarcimento del persistente danno da dequalificazione.


            Al riguardo, va riportato il recente orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui: “L’illegittimo comportamento del datore di lavoro consistente nell’assegnazione del dipendente a mansioni inferiori a quelle corrispondenti alla sua qualifica può giustificare il rifiuto della prestazione lavorativa, in forza dell’eccezione di inadempimento di cui all’art. 1460 cod. civ., purché la reazione risulti proporzionata e conforme a buona fede”. (cfr. Cassazione civile, sez. lav., 26 giugno 1999 n. 6663).


            Appare, dunque, legittima, in forza del generale strumento di autotutela disciplinato dall’art. 1460 cod. civ., la condotta del lavoratore, parte del contratto di lavoro a prestazioni corrispettive, che opponga all’inadempimento datoriale, consistente nell’illecito esercizio del c.d. “ius variandi”, il rifiuto della propria prestazione, sempre che tale rifiuto appaia proporzionato e conforme a buona fede. A quest’ultimo riguardo la Suprema Corte ha chiarito che il rifiuto “può considerarsi in buona fede solo se si traduca in un comportamento che, oltre a non contrastare con i principi generali della correttezza e della lealtà, risulti oggettivamente ragionevole e logico, nel senso di trovare concreta giustificazione nel raffronto tra prestazioni ineseguite e prestazioni rifiutate” (cfr. Cassazione civile, sez. lav., 2 novembre 1995 n. 12121).


            Nel caso di specie, il rifiuto del B., dopo ben tre anni dalla data di assegnazione alle dequalificanti mansioni sopra descritte e dopo l’infruttuoso ricorso alla tutela giurisdizionale in via d’urgenza, appare, specie di fronte alla persistente volontà datoriale (manifestata anche nel corso del procedimento cautelare) di non modificare la suddetta assegnazione, pienamente conforme a correttezza e buona fede. La società va, quindi, condannata a corrispondere in favore del ricorrente, anche a titolo di risarcimento del danno, una somma pari al 150% della retribuzione globale di fatto, maturata a partire dal 1.3.1999, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali dalla maturazione di ogni rata di credito al pagamento”.


 


LA PUBBLICAZIONE SU UN PERIODICO DI UN’INTERROGAZIONE PRESENTATA DA UN CONSIGLIERE PROVINCIALE NON E’ PUNIBILE ANCHE SE IL SUO CONTENUTO E’ OGGETTIVAMENTE DIFFAMATORIO perché rientra nell’esercizio del diritto di cronaca (Cassazione Sezione Terza Civile n. 20783 del 27 ottobre 2004, Pres. Duva, Rel. Limongelli).


Il consigliere provinciale di Trento Lelio B., in un’interrogazione diretta al presidente della giunta provinciale, ha accusato la giunta, tra l’altro, di avere affidato al giornalista Giovanni Battista  F. numerosi incarichi di editorialista e di direttore responsabile di pubblicazioni “direttamente o indirettamente riconducibili alla proprietà pubblica” ricavandone in cambio un’attività giornalistica di supporto al potere politico. Il testo dell’interrogazione è stato pubblicato sul periodico “Consiglio Provinciale” edito dal consiglio provinciale di Trento e diretto da Romano C.


Sia l’editore che il direttore del periodico sono stati convenuti in giudizio, davanti al Tribunale di Trento, da Giovanni Battista F. che ha chiesto la loro condanna al risarcimento del danno per avere pubblicato un’interrogazione che lo diffamava. Il Tribunale ha accolto la domanda, determinando l’importo del risarcimento in 25 milioni di lire. Questa decisione è stata integralmente riformata dalla Corte di Appello di Trento che ha escluso il diritto di Giovanni Battista F. al risarcimento; la Corte ha osservato che, quantunque l’interrogazione fosse oggettivamente diffamatoria, la sua pubblicazione sul periodico costituiva legittimo esercizio del diritto di cronaca. Giovanni Battista F. ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte di Trento per violazione di legge.


 La Suprema Corte (Sezione Terza Civile n. 20783 del 27 ottobre 2004, Pres. Duva, Rel. Limongelli) ha rigettato il ricorso. La tesi del ricorrente principale – ha osservato la Cassazione – è indubbiamente riconducibile ad una pronunzia della Corte di legittimità (Cass. 5/5/1995 n. 4871), con la quale, nella materia del tutto analoga delle interrogazioni e delle interpellanze parlamentari, è stato affermato il principio secondo cui l’immunità parlamentare dell’interrogazione (o dell’interpellante) non esonera da responsabilità i terzi estranei che abbiano concorso con il parlamentare nel diffondere a mezzo stampa il contenuto di una interrogazione (o di una interpellanza) oggettivamente diffamatoria. Sennonché – ha rilevato la Cassazione – con più recente pronunzia (Cass. 19/12/2001 n. 15999) la Suprema Corte ha affermato l’opposto principio, secondo cui costituisce legittima espressione del diritto di cronaca, quale esimente della responsabilità civile per danni, la pubblicazione di una interrogazione parlamentare dal contenuto oggettivamente diffamatorio, sempre che corrisponda al vero la riproduzione (integrale o per riassunto) del testo dell’interrogazione medesima, essendo priva di rilievo, per converso, l’eventuale falsità del suo contenuto, che il giornalista non ha il dovere di verificare, pur avendo l’obbligo di riprodurlo in forma impersonale ed oggettiva, quale semplice testimone, senza dimostrare, cioè, con commenti o altro, di aderire comunque al suo contenuto diffamatorio ed abbandonare, così, la necessaria posizione di narratore asettico e imparziale del fatto-interrogazione. La Cassazione ha affermato di condividere quest’ultimo orientamento, rilevando che la interrogazione del consigliere Lelio B. fu pubblicata sul periodico “Consiglio Provinciale” integralmente e senza alcun commento.


 


IL CONFERIMENTO, A UN GIORNALISTA, DELL’INCARICO DI “SEGUIRE LO SVILUPPO DI TUTTE LE INIZIATIVE EDITORIALI LEGATE ALLE NUOVE TECNOLOGIE”, NON E’ IDONEO A SODDISFARE L’OBBLIGO DI FARLO LAVORARE in mancanza di qualsiasi specificazione (Tribunale di Roma, Sezione Lavoro, Giudice dott.ssa Tiziana Orrù, Oliviero B. c. RAI-Radiotelevisione Italiana S.p.A. ordinanza del 5 ottobre 2004).


Il giornalista Oliviero B., assunto dalla RAI-Radiotelevisione Italiana S.p.A. nell’agosto del 2002 con la qualifica di caporedattore e le funzioni di vice direttore della testata RAI Sport è stato collocato, nell’aprile del 2004, a disposizione del direttore con la qualifica, ad personam, di redattore capo e senza alcun incarico. Egli ha chiesto al Tribunale di Roma di ordinare alla RAI, in via d’urgenza, di farlo lavorare con le mansioni in precedenza svolte o con altre equivalenti. La RAI si è difesa facendo presente di aver attribuito al giornalista, con ordine di servizio emesso successivamente all’inizio del procedimento, l’incarico di “seguire lo sviluppo di tutte le iniziative editoriali legate alle nuove tecnologie”. Il giornalista ha fatto presente che l’emissione dell’ordine di servizio non era stata accompagnata da una specificazione, in concreto, delle attività previste per il nuovo incarico, che peraltro non appariva di natura giornalistica.


Il Tribunale di Roma, Giudice dott.ssa Tiziana Orrù, con provvedimento del 5 ottobre 2004, ha ordinato alla RAI di assegnare il ricorrente a compiti e mansioni di natura giornalistica corrispondenti alla qualifica professionale di assunzione. Nella motivazione dell’ordinanza il Giudice ha rilevato che l’estrema genericità con la quale era stata formulata l’attribuzione al ricorrente di un nuovo incarico professionale senza indicazione precisa delle modalità di svolgimento della prestazione, non consentiva di escludere l’attualità e la concretezza di un danno alla professionalità. La privazione delle mansioni per un lungo lasso di tempo – ha osservato il Giudice – comporta necessariamente una diminuzione del patrimonio professionale e configura una lesione della dignità e dell’identità personale del lavoratore, in quanto vanifica il diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore nel luogo di lavoro, costituzionalmente protetto.


 


 IN CASO DI CONTROVERSIA SULLA LEGITTIMITA’ DI UN’ASSUNZIONE A TERMINE PER “SOSTITUZIONE A CATENA”, L’AZIENDA DEVE SPECIFICARE E PROVARE IL MECCANISMO DI SCORRIMENTO. Non sono sufficienti generiche disposizioni organizzative (Cassazione Sezione Lavoro n. 16661 del 24 agosto 2004, Pres. Mattone, Rel. Filadoro).


 Guido B., giornalista professionista, è stato assunto alle dipendenze della RAI Radiotelevisione Italiana s.p.a. nel marzo del 1993 con contratto a termine, per l’asserita necessità di sostituire il giornalista Giampaolo F., addetto al Giornale Radio. A questa prima assunzione ne sono seguite altre otto nell’arco di circa due anni. Alla scadenza dell’ultimo contratto Guido B. ha promosso un giudizio davanti al Pretore di Roma al fine di ottenere la dichiarazione di nullità dei termini di scadenza apposti alle singole assunzioni e l’esistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato in base alla legge n. 230 del 1962. Il lavoratore ha tra l’altro sostenuto che, in occasione della prima assunzione, egli non era stato impiegato per sostituire il giornalista Giampaolo F., in quanto costui era redattore capo addetto alle “rubriche religiose”, mentre egli aveva svolto mansioni di semplice redattore nel settore “interni”. L’azienda si è difesa sostenendo che nell’ambito del Giornale Radio i giornalisti erano facilmente spostati da una redazione all’altra e che nel caso in esame doveva ritenersi verificato un meccanismo di sostituzione a catena o per scorrimento: Guido B. era stato cioè impiegato per sostituire altri giornalisti che a loro volta avevano sostituito Giampaolo F. Il Pretore ha rigettato la domanda, ma la sua decisione è stata integralmente riformata in grado di appello dal Tribunale di Roma che ha ritenuto non provato l’effettivo impiego di Guido B. per la sostituzione di Giampaolo F. sia pure attraverso un meccanismo di scorrimento.


 I giudici di appello hanno rilevato che se, in astratto, sarebbe stato legittimo uno scorrimento di mansioni tra lavoratore sostituito e sostituto – nel senso che il B. poteva certamente essere impiegato in sostituzione di altro dipendente più esperto, a sua volta utilizzato in sostituzione del lavoratore assente, tuttavia mancava ogni indicazione in fatto circa le disposizioni di carattere organizzativo che sarebbero state impartite al riguardo, essendosi la società limitata a dedurre che i giornalisti erano facilmente spostati da una redazione all’altra, a seguito di richieste del tutto informali da parte dei direttori alle segreterie di redazione; sarebbe stata invece necessaria la puntuale allegazione delle singole disposizioni organizzative, in virtù delle quali si era fatto fronte alle esigenze venutesi a creare a seguito dell’assenza per malattia del F., indicando quali mansioni del lavoratore assente erano state affidate agli altri dipendenti e quali mansioni – in conseguenza dello scorrimento interno di mansioni – erano state in concreto affidate al B. Il Tribunale ha dichiarato la nullità anche dei termini apposti alle successive assunzioni in quanto li ha ritenuti incompatibili con la esistenza per legge del rapporto di lavoro a tempo indeterminato instaurato con il primo contratto. L’azienda ha proposto ricorso per cassazione censurando la sentenza impugnata per violazione della legge n. 230/62.


         La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 16661 del 24 agosto 2004, Pres. Mattone, Rel. Filadoro) ha rigettato il ricorso, in quanto ha ritenuto che il Tribunale abbia correttamente motivato la sua decisione constatando la mancanza di prova del dedotto meccanismo di scorrimento nella sostituzione prevista dal primo contratto. La Cassazione ha ricordato che la sua giurisprudenza è ferma nel ritenere pienamente ammissibile lo scorrimento a catena di mansioni nel caso di ricorso al lavoro a termine (nell’ipotesi di cui al punto b art. 1 comma 2 della legge del 1962), sul rilievo che anche nell’ambito del lavoro a tempo determinato il datore di lavoro conserva il potere di assegnare al lavoratore qualifica e mansioni in relazione alle esigenze organizzative e produttive dell’impresa; egli può pertanto adibire il sostituto alle mansioni che meglio si adattano alla sua capacità ed esperienza, ricorrendo ad altri lavoratori per lo svolgimento delle mansioni svolte dal lavoratore sostituito; occorre, tuttavia, che la mancanza di un posto all’interno dell’organizzazione aziendale funga da causa determinante dell’assunzione del sostituto, chiamato a sopperire ad effettive esigenze aziendali sorte a seguito della vacanza, e che le sostituzioni trovino causa diretta ed immediata nell’assenza dichiarata. Nel caso di specie – ha osservato la Corte – i giudici di appello hanno accertato che il B. ed il F. erano adibiti a settori diversi ed avevano qualifiche diverse.


La Cassazione ha anche confermato la sua giurisprudenza secondo cui un contratto di lavoro a tempo determinato, che sia stato stipulato fra le stesse parti successivamente ad altro contratto a tempo determinato, invalido come tale, e perciò trasformato ope legis in contratto di lavoro a tempo indeterminato, deve considerarsi, tamquam non esset, in quanto la contestuale sussistenza, fra le stesse parti, di un contratto di lavoro a termine non è configurabile, costituendo il secondo, per definizione, eccezione al primo. 


 


IL CONSIGLIO REGIONALE DELL’ORDINE DEI GIORNALISTI NON E’ LEGITTIMATO AD IMPUGNARE, DAVANTI AL GIUDICE ORDINARIO, UNA DELIBERAZIONE DEL CONSIGLIO NAZIONALE. L’impugnazione può essere proposta o dalla persona interessata o dal Pubblico Ministero (Cassazione Sezione Prima Civile n. 21395 del 10  novembre 2004, Pres. Criscuolo, Rel. Di Palma).


 In base alla legge n. 69 del 1963 sull’ordinamento professionale dei giornalisti la delibera del Consiglio regionale che neghi l’iscrizione all’Albo può essere impugnata dall’interessato davanti al Consiglio nazionale. Ove questo confermi il diniego, l’interessato può impugnare tale decisione davanti al Tribunale Civile. Nel caso in cui il Tribunale riformi la decisione del Consiglio regionale,  questa sentenza potrà essere impugnata sia dal Consiglio nazionale che da quello regionale, che costituiscono parti necessarie del giudizio. Deve invece escludersi che il Consiglio  regionale, ove la sua decisione sia stata modificata dal Consiglio nazionale, possa impugnare la deliberazione di quest’ultimo davanti al Tribunale Civile.


 Infatti, nell’ambito della stessa organizzazione, l’organo di amministrazione attiva non può ribellarsi alle statuizioni degli organi preposti al controllo o alla revisione del suo operato. I soli soggetti legittimati ad impugnare, davanti al giudice ordinario, la deliberazione del Consiglio nazionale sono o il professionista interessato, in quanto destinatario di una deliberazione o sé sfavorevole, ovvero il Pubblico Ministero.


 


PER UN DIPENDENTE COMUNALE ADDETTO ALL’UFFICIO STAMPA I CONTRIBUTI PREVIDENZIALI DEVONO ESSERE VERSATI ALL’INPGI, IN CASO DI ISCRIZIONE ALL’ALBO PROFESSIONALE E DI APPLICAZIONE DEL CNLGL’Istituto non ha l’onere di provare l’effettivo svolgimento di attività giornalistica (Cassazione Sezione Lavoro n. 11944 del 26 giugno 2004, Pres. Ciciretti, Rel. De Luca).


 Il Comune siciliano di Vittoria ha assegnato al dipendente Giovanni M., iscritto nel registro dei praticanti giornalisti, le mansioni di addetto stampa, con l’incarico di provvedere alla diffusione di comunicati, di tenere rapporti con gli organi di informazione, di coordinare il servizio “Informa Comune” (consistente nella redazione di un resoconto giornaliero circa le iniziative del Comune) e di svolgere altre analoghe attività.


         Pur applicando al dipendente il contratto nazionale di lavoro giornalistico, il Comune non ha versato i contributi previdenziali in suo favore all’Istituto Nazionale di Previdenza dei Giornalisti. L’INPGI ha ottenuto dal Tribunale di Roma un decreto ingiuntivo a carico del Comune, per il pagamento dei contributi. Nel giudizio di opposizione che ne è seguito, sia il Tribunale che la Corte di Appello di Roma hanno dichiarato infondata la pretesa dell’INPGI, in quanto hanno escluso che sia stata data dimostrazione di un’attività obiettivamente giornalistica ed hanno ritenuto irrilevanti l’iscrizione dell’impiegato nel registro dei praticanti e l’applicazione nei suoi confronti del contratto nazionale di lavoro giornalistico.


         L’INPGI ha proposto ricorso per cassazione, censurando la sentenza della Corte di Appello di Roma per difetto di motivazione e violazione di legge.


         La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 11944 del 26 giugno 2004, Pres. Ciciretti, Rel. De Luca) ha accolto il ricorso. Il decreto legislativo n. 503 del 1992 – ha osservato la Corte – prevede, all’art. 17 che “i dipendenti giornalisti professionisti iscritti nell’apposito albo di categoria e i dipendenti praticanti giornalisti iscritti nell’apposito registro di categoria, i cui rapporti di lavoro siano regolati dal contratto nazionale giornalistico, sono obbligatoriamente iscritti presso l’Istituto Nazionale di Previdenza dei Giornalisti Italiani Giovanni Amendola”; ne risulta che l’imposizione dell’obbligo di versamento dei contributi all’INPGI è subordinata, in via esclusiva all’iscrizione del lavoratore all’Albo o registro professionale e alla soggezione del rapporto di lavoro al CNLG.


         L’INPGI risulta quindi esonerato – ha affermato la Corte – dalla prova, all’evidenza difficile (se non proprio impossibile) circa la natura giornalistica della prestazione lavorativa, che, tuttavia, può ragionevolmente presumersi in presenza dei due requisiti previsti dalla legge. Chi intenda contestare la legittimità del possesso di tali requisiti, ha l’onere di provare la natura non giornalistica della prestazione lavorativa. In altri termini, una volta dimostrato il possesso dei requisiti (iscrizione del lavoratore all’Albo o al registro e applicazione del CNLG) l’obbligo di versamento dei contributi all’INPGI può essere negato soltanto ove il datore di lavoro fornisca la prova piena che quel possesso risulti comunque illegittimo. Nel caso in esame – ha aggiunto la Corte – solo in funzione di contestazione del legittimo possesso dei predetti requisiti andava apprezzata la prova, comunque acquisita al processo, circa la natura giornalistica, o meno, della prestazione lavorativa. La Corte ha rinviato la causa alla Corte d’Appello di L’Aquila per una nuova valutazione dell’intero materiale probatorio, precisando che il giudice di rinvio dovrà tener conto del modello di ufficio stampa delle amministrazioni pubbliche che una disposizione di legge sopravvenuta (art. 9 L. 7.6.2000 n. 150) esplicitamente prevede e disciplina sulla falsariga di esperienze precedenti come quelle di cui all’art. 58 legge Regione siciliana 18.5.1996 n. 33, modificato dall’art. 28 legge regionale 5.1.99 n. 4, nonché le esperienze di fatto praticate anche in precedenza, nella stessa regione ed altrove.


 


IL GIORNALISTA CORRISPONDENTE PUO’ ESSERE RITENUTO LAVORATORE SUBORDINATO ANCHE SE NON RICEVE ORDINI SPECIFICI ED E’ LIBERO DI COLLABORARE CON ALTRI GIORNALI purché sussista la continua dedizione funzionale al risultato perseguito dall’editore (Cassazione Sezione Lavoro n. 6983 del 9 aprile 2004, Pres.  Mattone, Rel. D’Agostino).


            Il giornalista Sergio C. ha lavorato in Roma dal 1991 al 1996 come corrispondente di un giornale greco edito dalla società Kathimerini, che gli ha corrisposto un compenso fisso mensile, ma non lo ha inquadrato come dipendente. Cessato il rapporto, il giornalista ha chiesto al Pretore di Roma di accertare che egli aveva lavorato in condizioni di subordinazione ed aveva perciò diritto al trattamento previsto dal contratto nazionale di lavoro giornalistico per il redattore; ha chiesto inoltre la condanna della società editrice al pagamento di differenze di retribuzione e del trattamento di fine rapporto. L’azienda si è difesa sostenendo che il ricorrente aveva prestato la sua opera nell’ambito di un rapporto di lavoro autonomo. Il Pretore, dopo avere svolto l’istruttoria, ha accertato che tra le parti si era svolto un rapporto di lavoro subordinato ed ha condannato, nel febbraio del 1999, la società editrice al pagamento di lire 197 milioni per differenze di retribuzione e lire 66 milioni per trattamento di fine rapporto.


            A seguito di impugnazione da parte della società, la Corte di Appello di Roma, con sentenza pronunciata nell’ottobre 2000 ha confermato l’accertamento della subordinazione, ma ha ridotto l’importo complessivo della condanna a lire 112 milioni, in considerazione del fatto che il giornalista non era impegnato quotidianamente ed era libero di svolgere altre attività.


            La Corte ha motivato la sua decisione rilevando: che l’editore aveva conferito a Sergio C. lo stabile incarico di corrispondente da Roma del quotidiano con una retribuzione fissa mensile e accollo delle spese; che a dette previsioni contrattuali, chiaramente indicative della volontà di instaurare un rapporto di natura subordinata, è poi corrisposta una situazione di fatto conforme alla pattuizione, caratterizzata dalla continuità delle prestazioni, dai quasi quotidiani contatti telefonici con la direzione del giornale e dall’inserimento stabile del giornalista nell’organizzazione aziendale, consistente nell’affidamento del datore di lavoro sulla permanenza della disponibilità del corrispondente, che assicurava la tempestività dell’informazione in relazione ad avvenimenti rilevanti, ancorché la società non avesse in Italia alcuna stabile organizzazione; che, per contro, non rilevavano in senso contrario le circostanze che il lavoro venisse svolto saltuariamente, con ampia autonomia e anche in assenza di ordini specifici, e che il giornalista prestasse la propria collaborazione anche per altri quotidiani e riviste, in quanto la disponibilità andava valutata nel senso di continua dedizione funzionale al risultato produttivo perseguito dall’imprenditore.


            La Kathimerini ha proposto ricorso per cassazione sostenendo che la Corte di Appello avrebbe dovuto escludere la subordinazione perché dall’istruttoria era emerso che nessuno impartiva al giornalista direttive o ordini in merito alle modalità di svolgimento della prestazione e che essa non aveva alcuna organizzazione aziendale in Italia. Il giornalista ha proposto ricorso incidentale censurando la decisione impugnata per avere ridotto l’importo dovutogli.


            La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 6983 del 9 aprile 2004, Pres.  Mattone, Rel. D’Agostino) ha rigettato il ricorso dell’azienda ed accolto quello del giornalista. Essa ha affermato che, nell’accertamento della subordinazione, la Corte di Roma ha correttamente applicato i principi costantemente affermati dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui nel settore giornalistico, in ragione delle particolari caratteristiche del rapporto e delle connesse difficoltà di cogliere in maniera diretta ed immediata i caratteri distintivi della subordinazione, che restano pur sempre quelli dell’inserimento del lavoratore nell’organizzazione aziendale e del suo assoggettamento ai poteri direttivi e disciplinari del datore di lavoro benché in misura attenuata, sono aspetti qualificanti la continuità e la responsabilità del servizio; questi requisiti ricorrono quando il giornalista abbia l’incarico di trattare in via continuativa un argomento o un settore di informazione e sia stabilmente a disposizione dell’editore, anche nell’intervallo tra una prestazione e l’altra, non rilevando in contrario né il notevole grado di autonomia con il quale la prestazione viene svolta, né la commisurazione del giornalista ad altri giornali, né la circostanza che l’attività informativa sia soltanto marginale rispetto ad altre, diverse, svolte dal datore di lavoro ed impegni il giornalista anche non quotidianamente e per un limitato numero di ore e senza l’osservanza di orario, mentre la subordinazione va esclusa nel caso in cui le prestazioni siano singolarmente convenute in base ad una successione di incarichi con retribuzione commisurata alla singola prestazione (Cass. n. 6727 del 2001, n. 4338 del 2002 e n. 16997 del 2002).


            La Cassazione, accogliendo il ricorso del giornalista, ha rilevato che il giudice di appello ha operato la riduzione del compenso in considerazione “del carattere ridotto della prestazione, non solo per l’espletamento di altre attività, ma altresì per l’accertata non quotidianità della stessa e per il notevole grado di autonomia di cui godeva Sergio C.”. Queste argomentazioni – ha osservato la Corte – si rivelano incoerenti laddove omettono di considerare che la non quotidianità della prestazione e la notevole autonomia del suo svolgimento costituiscono un carattere peculiare del rapporto di lavoro giornalistico, che la stessa Corte non ha mancato di evidenziare quando ha qualificato come subordinato il rapporto di lavoro in esame; ciò fa ragionevolmente presumere che la contrattazione collettiva, nel determinare il livello delle retribuzioni, abbia tenuto conto anche di dette peculiarità del rapporto; in presenza di una siffatta ragionevole presunzione il giudice di appello avrebbe dovuto esplicitare, in modo più diffuso di quanto abbia fatto le ragioni per le quali riteneva che il livello di retribuzione previsto dalla contrattazione collettiva si riferisse ad un rapporto di lavoro a tempo pieno e determinato, lasciando così margini di riduzione per diversi rapporti a tempo libero.


 Il giudice di appello – ha rilevato inoltre la Corte – non chiarisce affatto in quale modo la notevole autonomia con cui il giornalista è chiamato ad espletare le proprie mansioni possa influire sull’ammontare della retribuzione; allo stesso modo il giudice di appello mostra di non tenere in alcun conto la circostanza che le particolari modalità della prestazione non potevano non essere conosciute dalle parti al momento della conclusione del contratto di lavoro, per cui andava accertato e valutato quale fosse la comune intenzione delle stesse in ordine alla retribuzione fissa mensile convenuta, se cioè questa fosse o meno rapportata alla discontinuità del lavoro prestato.


 La causa è stata rinviata alla Corte di Appello di Perugia per la decisione sulle somme spettanti al giornalista.


 


I PROGRAMMI RADIOFONICI DEL TIPO “POMERIGGIO MUSICALE” NON POSSONO ESSERE RITENUTI “SPECIFICI” AI FINI DELLA LEGITTIMA ASSUNZIONE A TERMINE DI UNA PROGRAMMISTA REGISTA – Il rapporto di lavoro deve essere considerato a tempo indeterminato in base alla legge n. 230 del 1962 (Cassazione Sezione Lavoro n. 6918 dell’ 8 aprile 2004, Pres.  Mattone, Rel. Cellerino).


 Anna C. ha lavorato alle dipendenze della RAI come programmista regista in base a una serie di contratti a termine succedutisi nell’arco di undici anni, dal 1983  al 1994. Nelle lettere di assunzione la RAI ha fatto riferimento all’art. 1 lettera e) della legge n. 230/62 che consente le “assunzioni a termine di personale riferite a specifici spettacoli ovvero a specifici programmi radiofonici o televisivi”. La lavoratrice è stata impiegata presso Radio Tre per i programmi denominati Pomeriggio musicale, Foyer, Il club dell’opera, Melomania/Barcaccia.


 Dopo la cessazione dell’ultimo contratto, la programmista ha chiesto al Pretore di Roma di dichiarare la nullità dei termini apposti ai vari contratti e l’esistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, nonché di disporre la sua riammissione in servizio e di condannare la RAI al pagamento delle retribuzioni maturate dalla scadenza dell’ultimo contratto. Essa ha sostenuto che i programmi per i quali era stata assunta non potevano ritenersi “specifici” e che inoltre, stante la genericità delle mansioni da lei svolte, non era configurabile l’esigenza temporanea del suo specifico apporto. Il Pretore, dopo aver sentito alcuni testimoni, ha accolto le domande.


 La RAI ha proposto appello davanti al Tribunale di Roma sostenendo che i programmi per i quali la lavoratrice era stata assunta avevano il requisito di specificità previsto dalla legge. Il Tribunale ha rigettato l’impugnazione rilevando che le produzioni per le quali Anna C. aveva lavorato erano programmi stabili di Radio Tre di carattere musicale, con aspetti e taglio quasi interamente sovrapponibili essendo proposti dagli stessi autori e nella stessa fascia oraria per dodici mesi l’anno e che la RAI non aveva fornito la prova del cosiddetto vincolo di necessità diretta dell’assunzione della lavoratrice per la caratterizzazione specifica del suo apporto lavorativo. La Rai ha proposto ricorso per cassazione sostenendo che la motivazione della sentenza impugnata, per quanto attiene alla ritenuta mancanza del requisito di specificità dei programmi, era priva di fondamento in quanto “ricalcava stereotipi di argomentazioni ben note e mummificate” non rispondenti all’evoluzione normativa; l’azienda ha inoltre negato la configurabilità di un diritto della lavoratrice alla retribuzione per il periodo successivo alla scadenza dell’ultimo contratto.


 La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 6918 dell’8 aprile 2004 Pres. Mattone, Rel. Cellerino) ha rigettato il ricorso nella parte concernente la dichiarazione di illegittimità dei termini apposti ai vari contratti. Il proposito essa ha affermato quanto segue: “Le diffuse argomentazioni che addebitano al Tribunale (e indirettamente all’insegnamento di questa Corte per averne recepito i principi) di non essere al passo della legislazione (anche in corso d’opera: v. quanto riferito in memoria RAI sul recepimento della direttiva 1999/70/CE del Consiglio del 29 giugno 1999), appaiono più pertinenti a una valutazione “politica” o “sociologica” del ruolo della Cassazione, che a una convincente contestazione, sul piano dei valori giuridici, più che di quelli semantico – grammaticali, dell’interpretazione della norma offerta da anni di giurisprudenza di legittimità, in coerente adesione al ruolo istituzionale proprio, tuttora vigente.


         “Non v’è alcun motivo che giustifichi, rispetto alla legislazione applicabile fra il 1983 e il 1994, un mutamento di rotta da parte di questa Corte. Premesso che, contrariamente a quanto ipotizza la difesa RAI, la “specificità” del programma (o dello spettacolo), può emergere solo attraverso una valutazione cumulativa e complessiva dei vari contratti succedutisi nel tempo, esperibile ex post, e non ex ante, ovvero in relazione alle vicende proprie di ciascun contratto, posto che il loro singolo esame, segmentato di volta in volta a fronte della produzione complessiva cui si rapporta, è inidoneo a individuarne la collocazione nell’ambito del più generale palinsesto di lungo periodo, la specificità del programma in tanto giustifica un’assunzione a termine, in quanto l’inserimento del lavoratore valga ad assicurare alla produzione televisiva o radiofonica un contributo e un apporto individuale non di carattere generico e indifferente, ma esprima un’impronta distintiva e di personale significato al prodotto radiotelevisivo; il che, in altre parole, sta a significare che è tuttora rilevante l’accertamento del vincolo di necessità diretta che giustifica l’assunzione.


         “La stessa difesa RAI, ammette, d’altra parte, che qualora si trattasse d’una mansione generica, non sarebbe consentita un’assunzione a termine(v. pag. 42, 30, ricorso) se non attraverso la convergente dimostrazione del “vincolo di necessità diretta” e, per contro, censura la decisione per aver sottovalutato “l’apporto creativo e professionale del programmista regista (ivi, pag. 43, 31), dando assiomaticamente per acquisito il giudizio che tale collaborazione “contribuisce certamente alla caratterizzazione ed alla “specificità” del programma”, perché “il fatto di avvalersi di quel programmista regista … dipende da una valutazione … rimessa esclusivamente all’imprenditore” . Ragionamento quest’ultimo che non può essere condiviso nella sua assolutezza in questa vicenda, sia perché si dà qui per scontata una scelta caratterizzante, di cui, peraltro, non si rinviene l’emergere nelle fasi di merito, sicché rimane evanescente il perché di quella scelta, sia perché, sottintendendo la preminenza degli artt. 41 e 42, cost., si dimentica il contesto più generale, avvalorato da altrettanto forti principi costituzionali e, in quest’ottica, s’accantona ingiustificatamente la pur compresente limitazione, assicurata dalla legge 230, per valorizzare indebitamente l’esclusiva discrezionalità dell’assunzione a termine.


         “Si deve, quindi, escludere che sia sufficiente un riferimento, nel contratto d’assunzione a termine, a uno specifico spettacolo o programma per giustificare l’uso di questo tipo di assunzioni che pongono il lavoratore, nella prospettiva della rinnovazione dell’incarico, in uno stato di compiacenza alla dominante volontà della controparte, come dimostra il ricordo, riferito nel corso della discussione orale, della reazione della C. che, dopo l’ultimo invito RAI, non andato a buon fine, sciolta dalla speranza d’un rinnovo contrattuale, ricorse alla giustizia.


         “D’altra parte, censure similari alla presente sono già state svalutate da questa Corte con le sentenze n. 774 del 24 gennaio 2001 e n. 17070 del 2 dicembre 2002, alle cui motivazioni e richiami di giurisprudenza si rimanda per le ulteriori confutazioni di questo primo motivo, che deve essere, conseguentemente, rigettato.


         “Quanto al secondo mezzo, se ne deve parimenti invalidare la fondatezza perché il giudizio formulato dal Giudice di merito sulla sostanziale continuità e identità dei programmi affidati alla C., praticamente invariati nel corso della loro messa in onda pluridecennale, secondo quanto emerso dall’istruttoria, pur a fronte d’una diversa titolazione dei programmi musicali in argomento (Pomeriggio musicale; Foyer, Il club dell’opra, Melomania/Barcaccia) – i cui contenuti, invece, la RAI definisce “abbastanza” divergenti –, è in linea con il principio del libero convincimento del giudice nella valutazione del materiale istruttorio, essendo immune da vizio di motivazione, oltretutto non apparendo particolarmente significativa la riguardo la deduzione, in linea con l’eccezione, secondo cui “un appassionato di musica classica o operistica” avrebbe colto le differenze dei programmi”.


         Accogliendo il ricorso della RAI nella parte relativa alla retribuzione per il periodo successivo alla scadenza dell’ultimo contratto, la Corte ha ricordato i principi della sua giurisprudenza secondo cui, al dipendente che cessi l’esecuzione della prestazione lavorativa in conseguenza, di fatto, del compimento di un termine nullo per violazione della legge 230/62, non spetta la retribuzione finché non provveda ad offrire la prestazione stessa, determinando una situazione di “mora accipiendi”del datore di lavoro. Pertanto – ha affermato la Corte – nessun diritto alla retribuzione è automaticamente rinvenibile in capo alla sig.ra C. per il periodo precedente alla notifica del ricorso di primo grado, dovendosi accertare il tempo dell’offerta che ha provocato la mora accipiendi del datore di lavoro.


 


 





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