Milano, 18 luglio 2005. La Corte di Cassazione può rilasciare copie integrali delle sentenze ai giornalisti senza oscurare il nome degli imputati. Il diritto alla privacy in sostanza non sempre prevale sul diritto di cronaca e i nomi, dall'originale delle sentenze, non possono essere cancellati. Lo ha chiarito la Relazione (5 luglio 2005) dell'Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione con un intervento reso necessario dalla puntualizzazione dell'Ordine dei Giornalisti della Lombardia, che aveva accusato la Cassazione di avere commesso un errore macroscopico, quando aveva deciso di cancellare i nomi degli imputati dalla sentenze penali. L’Ufficio del Massimario accoglie le proteste dell’Ordine di Milano e ammette l’errore.
Dopo la 'scoperta' (il 3 giugno 2005) di ben due sentenze penali su cui era stata passata una pennellata di bianchetto per cancellare nome e cognome dell'imputato che ne aveva fatto richiesta, con un provvedimento immediatamente riportato sulla stampa, il primo presidente della Cassazione, Nicola Marvulli, ha chiesto un “approfondimento” della questione e l'Ufficio del Massimario è giunto ad una conclusione che non lascia adito a dubbi: dall'originale del provvedimento non si possono cancellare i nomi e toccherà al cronista con una libera decisione, - e certo potrà essere sindacata (solo dall’Ordine professionale di appartenenza) -, trattare i dati personali anche a prescindere dal consenso dell'interessato. Con l'ovvia e doverosa precauzione di rispettare comunque alcune condizioni: i limiti del diritto di cronaca e soprattutto l'essenzialità dell'informazione, l'interesse pubblico. Senza omettere nemmeno il rispetto del Codice deontologico del 1998. Il bilanciamento degli interessi, si legge nella relazione del Massimario della Cassazione, era già stato preso in considerazione dal Garante nel maggio del 2004. Lì si evidenzia “la necessità che l'esigenza di assicurare la trasparenza dell'attività giudiziaria e il controllo della collettività sul modo in cui viene amministrata la giustizia debba comunque bilanciarsi con alcune garanzie fondamentali riconosciute all'indagato o all'imputato: la presunzione di non colpevolezza fino a condanna definitiva, il diritto di difesa e il diritto ad un giusto processo“.
La Suprema Corte ha infatti spiegato che chiunque può richiedere una copia delle sentenze perché in quanto atti pubblici pronunciati "in nome del Popolo Italiano'' e che deve però oscurare i dati personali se vuole pubblicarle su una rivista specializzata; tuttavia, tale obbligo non vale per la cronaca giudiziaria in senso stretto, che deve assicurare il diritto all'informazione pur nel pieno rispetto dei diritti degli imputati.
Nella Relazione pubblicata si afferma infatti
che "le sentenze e gli altri provvedimenti giurisdizionali possono essere diffusi, anche attraverso il sito istituzionale nella rete Internet, nel loro testo integrale, completo - oltre che dei dati riferiti a particolari condizioni o status, anche di natura sensibile - delle generalità delle parti e dei soggetti coinvolti nella vicenda giudiziaria",
e che "chi esercita l'attività giornalistica o altra attività comunque riconducibile alla libera manifestazione del pensiero [...] possa trattare dati personali anche prescindendo dal consenso dell'interessato e, con riferimento ai dati sensibili e giudiziari, senza una preventiva autorizzazione di legge o del Garante".
PUBBLICHIAMO IL PASSO DELLE RELAZIONE RIFERITA ALLA PROFESSIONE GIORNALISTICA E ALLA LEGGE SULLA PRIVACY (DLGS 196/2003):
“Il rimedio dell'anonimato opera soltanto in caso di successiva divulgazione della sentenza per finalità di informazione giuridica.
Si pongono, al riguardo, due problemi.
In primo luogo, si tratta di stabilire se il rilascio di copia della sentenza o di altro provvedimento giurisdizionale in favore di un soggetto diverso dalla parte del relativo procedimento e non titolare di uno specifico interesseprocessuale sia, già, un'attività di diffusione della decisione, e soggiaccia perciò alla disciplina di cautela prevista dall'art. 52 del Codice (dlgs 196/2003, ndr) in materia di protezione dei dati personali.
Al quesito sembra doversi dare risposta negativa. In questa direzione induce l'art. 4, comma 1, lettera m), del Codice, che per diffusione intende "il dare conoscenza dei dati personali a soggetti indeterminati, in qualunque forma, anche mediante la loro messa a disposizione o consultazione". Laddove il rilascio di copia si appunta sempre in favore di un soggetto determinato che ne abbia fatto apposita richiesta, il proprium della diffusione consiste nel rendere conoscibile la decisione del giudice ad una pluralità di soggetti indeterminati, così divulgandola e propagandola in uno spazio via via più ampio.
Del resto, una conclusione siffatta ben si coordina con la previsione contenuta nel comma 4 dell'art. 52, secondo cui "In caso di diffusione anche da parte di terzi di sentenze o di altri provvedimenti recanti l'annotazione ..., o delle relative massime giuridiche, è omessa l'indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi dell'interessato". Se anche i terzi sono destinatari della prescrizione di omettere le generalità in caso di diffusione, ciò significa che il rilascio al terzo, da parte del cancelliere, di copia del provvedimento per uso studio non è, esso stesso, atto del diffondere.
Il secondo problema è se l'anonimizzazione delle generalità e di altri dati identificativi per intervento del giudice, ai sensi dei commi 1 e 2 dell'art. 52 del Codice, operi direttamente anche rispetto alla pubblicazione per finalità di giornalismo o di cronaca giudiziaria.
Anche a questo interrogativo sembra doversi dare una risposta negativa.
Il Codice prevede uno statuto particolare per l'attività giornalistica, che rifugge dalla previsione di regole rigide e minuziose e che affida in prima battuta il bilanciamento tra i diritti e le libertà allo stesso giornalista il quale, in base ad una propria valutazione (che può essere sindacata), acquisisce, seleziona e pubblica i dati utili ad informare la collettività su fatti di rilevanza generale e d interesse pubblico, esprimendosi nella cornice della normativa vigente e nel rispetto del proprio codice di deontologia. Esso stabilisce che chi esercita l'attività giornalistica o altra attività comunque riconducibile alla libera manifestazione del pensiero (inclusa l'espressione artistica e letteraria, come ora precisato dall'art. 136 del Codice) possa trattare dati personali anche prescindendo dal consenso dell'interessato e, con riferimento ai dati sensibili e giudiziari, senza una preventiva autorizzazione di legge o del Garante.
In caso di diffusione o di comunicazione di dati, il giornalista è peraltro tenuto comunque a rispettare alcune condizioni (art. 137, comma 3): i limiti del diritto di cronaca e, in particolare, quello dell'essenzialità dell'informazione riguardo a fatti di interesse pubblico, e i principi previsti dal Codice deontologico relativo al trattamento dei dati personali nell'esercizio dell'attività giornalistica (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 3 agosto 1998, ndr).
In ordine ai dati giudiziari, il Codice deontologico (art. 12), a sua volta, rinvia al principio di essenzialità dell'informazione (art. 5), in modo da evitare riferimenti a congiunti o ad altri soggetti non interessati ai fatti.
La non diretta operatività all'attività giornalistica degli effetti dell'anonimizzazione disposta ai sensi dell'art. 52, commi e 2, del Codice - ma, più limitatamente, l'affidamento all'autonomia e alla responsabilità del giornalista, nel rispetto della legge e del Codice doentologico, dei risultati di quella ponderazione e di quel bilanciamento - sembra ricavarsi dal parere del Garante 6 maggio 2004 su Privacy e giornalismo. Alcuni chiarimenti in risposta a quesiti dell'Ordine dei giornalisti. Il Garante ha evidenziato la necessità che l'esigenza di assicurare la trasparenza dell'attività giudiziaria e il controllo della collettività sul modo in cui viene amministrata la giustizia debba comunque bilanciarsi con alcune garanzie fondamentali riconosciute all'indagato e all'imputato: la presunzione di non colpevolezza fino a condanna definitiva, il diritto di difesa e il diritto ad un giusto processo. In particolare, la diffusione dei nomi di persone condannate e, in generale, dei destinatari di provvedimenti giurisdizionali, ad avviso del Garante, deve inquadrarsi nell'ambito delle disposizioni processuali vigenti, di regola improntate ad un regime di tendenziale pubblicità. Di guisa che sono ritenuti pubblicabili, ad esempio, l'identità, l'età, la professione, il capo di imputazione e la condanna irrogata ad una persona maggiorenne ove risulti la verità dei fatti, la forma civile dell'esposizione e la rilevanza pubblica (anche solo in un contesto locale) della notizia. Secondo il Garante, nella diffusione dei dati dei condannati devono essere presi in considerazione il tipo di soggetti coinvolti (ad esempio, persone con handicap o disturbi psichici, o ancora, ragazzi molto giovani), il tipo di reato accertato e la particolare tenuità dello stesso, l'eventualità che si tratti di condanne scontate da diversi anni o assistite da particolari benefici (es. quello della non menzione nel casellario), in ragione dell'esigenza di promuovere il reinserimento sociale del condannato. Le medesime ragioni di tutela dei dati personali, ad avviso del Garante, dovrebbero altresì prevalere nei casi in cui la vittima ha manifestato la volontà che i propri dati non siano resi pubblici (fermo restando il fatto che il giornalista può procedere alla pubblicazione dei diversi dati anche in assenza del consenso da parte degli interessati). Tale principio troverebbe, tra l'altro, fondamento nella possibilità, per ogni soggetto interessato, di opporsi anche in anticipo per motivi legittimi alla pubblicazione (art. 7, comma 4, lettera a, del Codice). Secondo il Garante, il giornalista, nell'effettuare le valutazioni a lui rimesse, "non potrà non tenere conto del bilanciamento di interessi effettuato in un altro fronte e cioè che le sentenze pubblicate per finalità di informatica giuridica (non giornaliste, quindi) dallo stesso ufficio giudiziario, oppure da riviste giuridiche anche on-line, potranno in alcuni casi più delicati non recare il nome di taluna delle parti o di terzi (minore, delicati rapporti di famiglia, ecc.: art. 52 del Codice)"”.
Così la Cassazione ha corretto il Tribunale di Cremona.
A Cremona, invece, il Tribunale penale, anche su richiesta del Pm, ha condannato (l'1 giugno 2005) il direttore e un cronista della “Provincia di Cremona” rispettivamente a 6 e 4 mesi di reclusione per violazione dell’articolo 35 della vecchia legge sulla privacy n. 675/1996, che non è più in vigore dal 1° gennaio 2004 (sostituita dall’articolo 167 del Dlgs n. 196/2003). L’articolo 167, come il 35, punisce “il trattamento illecito di dati personali”. Il cronista aveva raccontato una rapina e citato i nomi di due donne rapinate “senza il consenso delle interessate”.
La vecchia e la nuova legge sulla privacy non puniscono il diritto di cronaca e non pongono divieti al lavoro dei cronisti, ma soprattutto non consentono a un tribunale penale di processare i giornalisti. I giornalisti violano la legge sulla privacy soltanto quando violano il “Codice deontologico relativo al trattamento dei dati personali nell'esercizio dell'attività giornalistica” (pubblicato il 3 agosto 1998 nella Gazzetta ufficiale). Quella di Cremona è una sentenza mostruosa, sbagliata clamorosamente, almeno sotto tre aspetti: a) i giornalisti, sia nel passato sia oggi, non devono chiedere, come ha sottolineato il 5 luglio la Cassazione, il consenso alla pubblicazione dei dati personali di cittadini protagonisti di fatti e avvenimenti di interesse pubblico o svoltisi in pubblico. L’articolo 21 (II comma) della Costituzione afferma solennemente che la stampa non è soggetta ad autorizzazioni; b) la legge 675/1996 era stata corretta dall’articolo 12 del Dlgs n. 171/1998 proprio sul punto del consenso nel senso che “le disposizioni relative al consenso dell'interessato e all'autorizzazione del Garante...non si applicano quando il trattamento dei dati.... è effettuato nell'esercizio della professione di giornalista e per l'esclusivo perseguimento delle relative finalità”; c) in tema di privacy, giudice esclusivo dei giornalisti è il Consiglio dell’Ordine (articolo 13 del “Codice deontologico relativo al trattamento dei dati personali nell'esercizio dell'attività giornalistica”)“.
Aspettiamo di leggere la motivazione della sentenza di Cremona. Come farà il Tribunale a disconoscere l’insegnamento della Suprema Corte?
Franco Abruzzo - presidente Ordine Giornalisti Lombardia
(Nota: “Codice” sta per “Dlgs. 30 giugno 2003 n. 196. Codice in materia di protezione dei dati personali”. “Codice deontologico” sta per “Codice deontologico relativo al trattamento dei dati personali nell'esercizio dell'attività giornalistica”).
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L'inter relazione dell'Ufficio del Massimario è in
http://www.cortedicassazione.it/Documenti/Relaz_tutela_privacy.doc
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Cassazione: no ai nomi oscurati
nelle sentenze. Passo indietro
a tutela del diritto di cronaca
Roma, 4 luglio 2005. Passo indietro della Cassazione a tutela del diritto di cronaca garantito dalla Costituzione: è stata diffusa ai giornalisti , come hanno riferito le agenzie Ansa e Adnkronos del 16 giugno, una copia integrale di una sentenza per la quale l'imputato, in questo caso un violentatore, aveva domandato la sbianchettatura del proprio nome ai sensi. La Suprema Corte ha, però, deciso, contrariamente a quanto recentemente avvenuto in due altri casi, di rilasciare la copia integrale del verdetto ai cronisti in quanto l'articolo 52 del Dlgs 196/2003 impone l'oscuramento dei dati identificativi soltanto nelle riviste giuridiche cartacee e telematiche.
In pratica, sulle sentenze che riguardano imputati, che già nei precedenti gradi di giudizìo hanno chiesto la tutela della normativa sulla privacy, la Suprema Corte stampiglia un timbro con la dicitura "in caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi''. In questo modo chi chiede copia di tali sentenze, e chiunque può richiederle perché sono atti pubblici pronunciati "in nome del popolo italiano'', è avvertito che deve oscurare le generalità se vuole pubblicarle su una rivista specializzata. Ma il richiamo della stampigliatura non vale per la cronaca giudiziaria in senso stretto altrimenti, oltre al diritto all'informazione, non sarebbe salvaguardato nemmeno il principio della pubblicità dell'esito dei processi
La sentenza diffusa il 16 giugno, nella sua ìntegralità, riguarda la vicenda di un imputato per violenza sessuale, Carmine L., condannato definitivamente a tre anni di reclusione, al quale la Corte di Appello di Bologna, lo scorso dicembre, aveva concesso il beneficio della sospensione della pena. Ad avviso del pm, invece, Carmine L., non poteva usufruire del beneficio. Ma la Cassazione con la sentenza 22742/05 della Terza sezione penale ha confermato la decisione della corte felsinea.
I due precedenti verdetti oscurati con le sentenze 18993 e 19451/2005 su un avvocato truffaldino e un usuraio sono stati gli unici casi di sbianchettatura del 2005. Un peccato di eccesso di zelo nell'applicare la legge 196/2003.
Sull'argomento era sceso in campo più volte il presidente dell'Ordine dei Giornalisti della Lombardia, che aveva sottolineato l'errore nel quale era incorsa la Cassazione. Pubblichiamo qui di seguito l'intervento più recente di Franco Abruzzo, che ha vinto su tutta la linea.
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PRIVACY: CASSAZIONE, NOMI NON VANNO CANCELLATI DA SENTENZE
Roma, 6 luglio 2005. Il diritto alla privacy non sempre prevale sul diritto di cronaca e i nomi, dall'originale delle sentenze, non possono essere cancellati. La Suprema Corte di Cassazione, su indicazione del primo presidente Nicola Marvulli, lo mette in chiaro, fissando i paletti all'interpretazione della legge sul trattamento dei dati personali, ma senza trascurare di indicare i doveri del 'buon cronista'. Dopo la 'scoperta' di ben due sentenze penali su cui era stata passata una pennellata di bianchetto per cancellare nome e cognome dell'imputato che ne aveva fatto richiesta, con un provvedimento immediatamente riportato sulla stampa, il primo presidente ha chiesto un 'approfondimento' della questione e l'ufficio del Massimario della Cassazione e' giunto ad una conclusione che non lascia adito a dubbi: dall'originale del provvedimento non si possono cancellare i nomi e tocchera' al cronista con una libera decisione, che certo potra' essere sindacata, trattare i dati personali anche a prescindere dal consenso dell'interessato. Con l'ovvia e doverosa precauzione di rispettare comunque alcune condizioni: i limiti del diritto di cronaca e soprattutto l'essenzialita' dell'informazione, l'interesse pubblico. Senza omettere nemmeno il rispetto del codice deontologico. Il bilanciamento degli interessi, si legge nella relazione del massimario della cassazione era gia' stato preso in considerazione dal garante nel maggio del 2004. Li' si evidenzia "la necessita' che l'esigenza di assicurare la trasparenza dell'attivita' giudiziaria e il controllo della collettivita' sul modo in cui viene amministrata la giustizia debba comunque bilanciarsi con alcune garanzie fondamentali riconosciute all'indagato o all'imputato: la presunzione di non colpevolezza fino a condanna definitiva, il diritto di difesa e il diritto ad un giusto processo". (AGE)
Cassazione: nelle sentenze rimangono i nomi.
Il diritto alla privacy non sempre prevale sul diritto di cronaca e i nomi non possono essere cancellati dall'originale delle sentenze. Lo ha stabilito la Cassazione, su indicazione del primo presidente Nicola Marvulli, dopo la scoperta di due sentenze penali in cui erano stati cancellati con il bianchetto nome e cognome dell'imputato che ne aveva fatto richiesta. Per la Cassazione non si possono cancellare dall'originale di una sentenza i nomi, e toccherà al cronista trattare i dati personali, rispettando “la verità dei fatti, la forma civile dell'esposizione, la rilevanza pubblica della notizia” e la deontologia. (Il Sole 24 Ore del 7 luglio 2005, pagina 27).
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I giornalisti hanno diritto di leggere le sentenze
nella forma integrale ma dovranno, comunque,
trattare i dati (=notizie) secondo le regole etiche.
Anche le informazioni del casellario sono divulgabili
di Franco Abruzzo/presidente dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia. Docente a contratto di Diritto dell’informazione nell’Università degli studi di Milano Bicocca e nell’Università Iulm
Un grande equivoco. Solo un grande equivoco quello collegato alla lettura di due sentenze (n. 18993 e 19451/2005) della II sezione penale della Cassazione. I nomi degli imputati sono stati cancellati. Sulla prima pagina delle sentenze il cancelliere ha apposto un timbro: “In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi» (a norma dell'articolo 52 del Dlgs 30 giugno 2003 numero 196)”. Il Dlgs 196/2003 è il Testo unico sulla privacy, che ha inglobato la vecchia legge 675/1996. Diversi giornali e notiziari radiotelevisivi hanno parlato di “privacy sbarcata in Cassazione” nel senso che da quel giorno in avanti le generalità degli imputati sarebbero scomparse dalle cronache. Niente di più falso. Un equivoco, appunto, nato dalla cattiva lettura delle sentenze e dall’ignoranza del Testo unico sulla privacy. I nomi continueranno a comparire nelle cronache. I nomi, invece, non compariranno nelle riviste giuridiche, nelle massime pubblicate sul web o sui cd. Vediamo come stanno le cose.
Sull’articolo 52 del dlgs 196/2003 è il caso di osservare che:
a) l'articolo su richiesta dell'interessato “per motivi legittimi”, consente alla cancelleria di “apporre un’annotazione volta a precludere” l’indicazione delle generalità e di altri dati identificativi «in caso di riproduzione della sentenza, o provvedimento in qualsiasi forma, per finalità di informazione giuridica, su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica”.
b) nei casi previsti dai commi 1 e 2 dello stesso articolo la cancelleria o segreteria appone e sottoscrive anche con timbro la seguente annotazione: «In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi di.....».
c) secondo il settimo comma dello stesso articolo, “Fuori dei casi indicati nel presente articolo è ammessa la diffusione in ogni forma del contenuto anche integrale di sentenze e di altri provvedimenti giurisdizionali”.
L’articolo 52, quindi, consente la pubblicazione “anche integrale” delle sentenze fuori dai casi relativi alle riviste giuridiche, ai supporti elettronici o al web. Il Testo unico sulla privacy rispetta totalmente i primi due commi dell’articolo 21 della Costituzione: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”. Nella libertà di manifestazione del pensiero coesistono il diritto di cronaca, di informazione, di critica, la libertà di stampare le proprie idee. “Le libertà fondamentali affermate, garantite e tutelate nella Parte prima, Titolo primo, della Costituzione della Repubblica, sono riconosciute come diritti del singolo, che il singolo deve poter far valere erga omnes. Essendo compresa tra tali diritti anche la libertà di manifestazione del pensiero proclamata dall'art. 21, primo comma, della Costituzione, deve senza dubbio imporsi al rispetto di tutti, delle autorità come dei consociati. Nessuno può quindi recarvi attentato, senza violare un bene assistito da rigorosa tutela costituzionale...... I fondamentali diritti di libertà proclamati nella parte prima, titolo primo, della Costituzione, sono in gran parte compresi nella categoria dei diritti inviolabili dell'uomo genericamente contemplati nell'articolo 2” (Corte costituionale, sentenza 122/1970).
A questo punto è necessaria una rapida rassegna dei punti più significativi del Dlgs 196/2003. Secondo l’articolo 137 del Dlgs n. 196/2003, ai trattamenti (effettuati nell'esercizio della professione di giornalista e per l'esclusivo perseguimento delle relative finalità) non si applicano le disposizioni del Testo unico del 2003 relative: a) all'autorizzazione del Garante prevista dall'articolo 26; b) alle garanzie previste dall'articolo 27 per i dati giudiziari; c) al trasferimento dei dati all'estero, contenute nel Titolo VII della Parte I. In sostanza l’articolo 137, non prevedendo il disco verde del Garante o di soggetti privati, rispetta l’articolo 21 (II comma) della Costituzione che vuole la stampa non soggetta ad autorizzazioni. I giornalisti dovranno, comunque, trattare i dati (=notizie) con correttezza, secondo i vincoli posti dal Codice di deontologia della privacy del 1998, dagli articoli 2 e 48 della legge n. 69/1963 (sull’ordinamento della professione giornalistica) e dalla Carta dei doveri del 1993.
Il trattamento dei dati – dice ancora l’articolo 137 - è effettuato anche senza il consenso dell'interessato previsto dagli articoli 23 (Consenso) e 26 (Garanzie per i dati sensibili). In caso di diffusione o di comunicazione dei dati per le finalità di cui all'articolo 136 (trattamenti effettuati nell'esercizio della professione di giornalista e per l'esclusivo perseguimento delle relative finalità) “restano fermi i limiti del diritto di cronaca a tutela dei diritti di cui all'articolo 2 e, in particolare, quello dell'essenzialità dell'informazione riguardo a fatti di interesse pubblico. Possono essere trattati i dati personali relativi a circostanze o fatti resi noti direttamente dagli interessati o attraverso loro comportamenti in pubblico”.
L’articolo 12 del Codice deontologico relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica (meglio noto come Codice deontologico sulla privacy) tratta la “Tutela del diritto di cronaca nei procedimenti penali” (Al trattamento dei dati relativi a procedimenti penali non si applica il limite previsto dall'articolo 24 della legge n. 675/1996. Il trattamento di dati personali idonei a rivelare provvedimenti di cui all'articolo 686, commi 1, lettere a) e d), 2 e 3, del Codice di procedura penale è ammesso nell'esercizio del diritto di cronaca, secondo i principi di cui all'articolo 5). Ciò significa che i giornalisti possono raccontare quello che risulta scritto nel Casellario giudiziale a carico di ogni persona: sentenze di condanna, ordini di carcerazione, misure di sicurezza, provvedimenti definitivi che riguardano l’applicazione delle misure di prevenzione della sorveglianza speciale, dichiarazione di abitualità o professionalità nel reato o di tendenza a delinquere. Il diritto di cronaca vince in maniera ampia.
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Cassazione penale:
via i nomi dalle sentenze
nel caso in cui vengano riprodotte
nelle riviste giuridiche
Roma, 5 giugno 2005. Una spennellata di bianchetto sul nome dell'imputato che, diventato signor X, ha chiesto di eliminare qualsiasi riferimento ai dati che lo identificano dalla sentenza che lo riguarda. Con una richiesta ritenuta legittima dal giudice. La privacy 'sbarca' in Cassazione e cancella nomi e cognomi dalle proncunce di assoluzione, ma anche da quelle di condanna. Così, a distanza di quasi dieci anni dall'approvazione della legge sulla protezione dei dati personali, per la prima volta la Suprema Corte si pronuncia sul ricorso proposto da...(omissis).
Lo fa in base al codice in materia di protezione dei dati personali approvato nel 2003, che, fra l'altro, prevede la possibilità degli interessati di ottenere «per motivi legittimi», prima che sia definito il giudizio, l'eliminazione delle indicazioni delle generalità e di altri dati identificativi, nel caso in cui la sentenza o il provvedimento che li riguarda venga riprodotto in qualsiasi forma «per finalità di informazione giuridica» su riviste di settore, supporti elettronici o reti di comunicazione elettronica. Al di là quindi delle esigenze strettamente di giustizia.
Due le sentenze depositate senza nome. Tutt'e due di competenza della seconda sezione penale di Palazzaccio che, nelle pronunce 18993 e 19451, sulla prima pagina appone un timbro:«In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi» come disposto con decreto, a norma dell'articolo 52 decreto legislativo 30 giugno 2003 numero 196.
Nel primo caso la richiesta è stata avanzata da un avvocato condannato in appello a un anno di reclusione, 500 euro di multa con l'interdizione di due anni dalla professione per appropriazione indebita continuata ed aggravata. Secondo i giudici di secondo grado di Bari era colpevole di aver incassato del denaro non suo, usando il ruolo di procuratore speciale, nominato da un lavoratore, A.V., che, a causa di un incidente, aveva ottenuto il diritto ad un indennizzo.
I giudici del Palazzaccio, su richiesta dell'imputato e del suo difensore, hanno esaminato il ricorso presentato contro la decisione di secondo grado. Lo hanno rigettato e nella loro pronuncia hanno cancellato il nome del ricorrente tutte le volte che in sentenza era stato citato. Ecco come appare il testo: «(...) veniva tratto a giudizio davanti al tribunale di Trani...». E ancora: « Il (...) anche con motivi nuovi, e il suo difensore hanno proposto ricorso per Cassazione. Con il primo motivo il deduce che la somma complessiva...». E di nuovo: «Osserva il collegio che la doglianza è infondata in quanto il giudice di appello con corretta motivazione ha rilevato che il reato contestato al (...) si era consumato nel momento in cui questi, ottenuta la procura speciale, aveva cominciato ad incassare i ratei di canone da parte degli inquilini della citata società, versando i relativi assegni circolari su un conto corrente bancario a se stesso intestato...».
Nessun nome, dunque, e, a maggior ragione, nessun cognome. L'altro caso in cui il diritto alla privacy è stato invocato ed ottenuto è un caso di usura in cui l'imputato è stato condannato in primo e secondo grado, con sentenza confermata dalla Cassazione che ha giudicato inammissibile il ricorso. (http://www.odgsicilia.it/050605giu_pry_cassaz.html)