1. "I giornali sono cani da guardia della democrazia e delle istituzioni (anche giudiziarie)".
I giornali sono un mezzo di espressione della libertà di opinione che negli ordinamenti democratici assurgono a veri e propri "cani da guardia" della democrazia. Lo ha stabilito la Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione con la sentenza 25138/2007 La Cassazione ha in proposito chiarito che la libertà di manifestazione del proprio pensiero garantito dall'art. 21 della Costituzione e dall'art. 10 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee o critiche su temi d"interesse pubblico, senza ingerenza da parte delle autori tà pubbliche. Secondo la Suprema Corte, "all'interno delle società democratiche deve riconoscersi alla stampa e ai mass media il ruolo di fori privilegiati per la divulgazione extra moenia dei terni agitati all'interno delle Assemblee rappresentative e per il dibattito in genere su materie di pubblico interesse, ivi compresi la giustizia e l'imparzialità della magistratura, ed il ruolo fondamentale nel dibattito democratico svolto dalla libertà di stampa non consente in altri termini di escludere che essa si esplichi in attacchi al potere giudiziario, dovendo convenirsi con la Giurisprudenza della Corte dei diritti drell'uomo (o di Strasburgo) allorché afferma che i giornali sono i «cani da guardia» (watch-dog) della democrazia e delle istituzioni, anche giudiziarie".
2. Il diritto di cronaca può essere esercitato, anche quando ne possa derivare lesione all'altrui reputazione, ma rispettando tre condizioni.
“L’uomo pubblico” non può sottrarsi ad una verifica (anche lesiva della reputazione) cronachistica e/o critica del suo operato. Su questa linea è una sentenza dei supremi giudici: “In tema di diffamazione a mezzo stampa, il diritto di cronaca può essere esercitato, quando ne possa derivare lesione all'altrui reputazione, prestigio o decoro, soltanto qualora vengano dal cronista rispettate le seguenti condizioni: a) che la notizia pubblicata sia vera; b) che esista un interesse pubblico alla conoscenza dei fatti riferiti in relazione alla loro attualità ed utilità sociale; c) che l'informazione venga mantenuta nei giusti limiti della più serena obbiettività. Il diritto di cronaca non esime di per sè dal rispetto dell'altrui reputazione e riservatezza, ma giustifica intromissioni nella sfera privata dei cittadini solo quando possano contribuire alla formazione della pubblica opinione su fatti oggettivamente rilevanti per la collettività. (Ha precisato la Corte che, se anche le vicende private di persone impegnate nella vita politica o sociale possono risultare di interesse pubblico quando possano da esse desumersi elementi di valutazione sulla personalità o sulla moralità di chi debba godere della fiducia dei cittadini, non è certo la semplice curiosità del pubblico a poter giustificare la diffusione di notizie sulla vita privata altrui, perché è necessario che tali notizie rivestano oggettivamente interesse per la collettività)” (Cass. pen., sez. V, 10 dicembre 1997, n. 1473; Riviste: Cass. Pen., 1999, 3135, n. Angelini; Rif. ai codici: CP art. 51, CP art. 595).
3. L'ampiezza del diritto di cronaca abbraccia anche le denunce penali.
"La pubblicazione della notizia relativa alla presentazione di una denuncia penale e alla sua iscrizione nel registro delle notizie di reato, oltre a non essere idonea di per sé a configurare una violazione del segreto istruttorio o del divieto di pubblicazione di atti processuali, costituisce lecito esercizio del diritto di cronaca ed estrinsecazione della libertà di pensiero previste dall'art 21 Costituzione e dall'art 10 Convenzione europea dei diritti dell'uomo, anche se in conflitto con diritti e interessi della persona, qualora si accompagni ai parametri dell'utilità sociale alla diffusione della notizia, della verità oggettiva o putativa, della continenza del fatto narrato o rappresentato. (Rigetta, App. L'Aquila, 10 Marzo 2006)". (Cass. civ. Sez. III Sent., 22-02-2008, n. 4603; FONTI Mass. Giur. It., 2008)
Il diritto di cronaca e la Corte costituzionale
La libertà di manifestazione del pensiero è tra le libertà fondamentali proclamate e protette dalla nostra Costituzione una di quelle anzi che meglio caratterizzano il regime vigente nello Stato, condizione com'è del modo di essere e dello sviluppo della vita del Paese in ogni suo aspetto culturale, politico, sociale. Ne consegue che limitazioni sostanziali di questa libertà non possono essere poste se non per legge (riserva assoluta di legge) e devono trovare fondamento in precetti e principi costituzionali, si rinvengano essi esplicitamente enunciati nella Carta costituzionale o si possano, invece, trarre da questa mediante la rigorosa applicazione delle regole dell'interpretazione giuridica. (sentenza 9/1965)
I fondamentali diritti di libertà proclamati nella parte prima, titolo primo, della Costituzione, sono in gran parte compresi nella categoria dei diritti inviolabili dell'uomo genericamente contemplati nell'articolo 2. (sentenza 122/1970).
Le libertà fondamentali affermate, garantite e tutelate nella Parte prima, Titolo primo, della Costituzione della Repubblica, sono riconosciute come diritti del singolo, che il singolo deve poter far valere erga omnes. Essendo compresa tra tali diritti anche la libertà di manifestazione del pensiero proclamata dall'art. 21, primo comma, della Costituzione, deve senza dubbio imporsi al rispetto di tutti, delle autorità come dei consociati. Nessuno può quindi recarvi attentato, senza violare un bene assistito da rigorosa tutela costituzionale. (sentenza 122/1970).
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 1/1981, ha riconosciuto “il rilievo costituzionale della libertà di cronaca (comprensiva della acquisizione delle notizie) e della libertà di informazione quale risvolto passivo della manifestazione del pensiero, nonché il ruolo svolto dalla stampa come strumento essenziale di quelle libertà, che è, a sua volta, cardine del regime di democrazia garantito dalla Costituzione”.
Il diritto di cronaca e la Corte europea dei diritti dell’uomo
Il caso Barthold. La Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo all’articolo 10 sancisce, come già osservato, il fondamentale principio della libertà di manifestazione del pensiero stabilendo che “ogni persona ha diritto alla libertà di espressione”. Tale diritto abbraccia “la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza ingerenza alcuna da parte delle autorità pubbliche senza riguardo alla nazionalità”. Al secondo comma l’articolo 10 stabilisce inoltre che “poiché l’esercizio di queste libertà comporta dei doveri e delle responsabilità, esso può essere sottoposto a certe formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni previste dalla legge che costituiscono delle misure necessarie, in una società democratica, alla sicurezza nazionale, all’integrità territoriale o alla sicurezza pubblica, alla difesa dell’ordine pubblico e alla prevenzione del crimine, alla protezione della salute o della morale, alla protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni confidenziali o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario”. La libertà di manifestazione del pensiero, garantita dall’articolo in esame, integra la sfera costituzionale della libertà di manifestazione del pensiero garantita dall’articolo 21 della nostra Costituzione. Tale libertà “non riguarda solo le informazioni o le opinioni accolte con favore o considerate inoffensive o indifferenti, ma riguarda anche le informazioni e le opinioni che urtano, o inquietano; ciò è richiesto dal pluralismo, dalla tolleranza e dallo spirito di apertura senza i quali non si ha una società democratica” (Corte europea dei diritti dell’uomo, 8 luglio 1986, Lingens c. Austria; Corte europea diritti dell'uomo, 25 marzo 1985, Barthold c. Repubblica Federale di Germania, v. Tabloid n. 1/2000 n. Peron).
Il caso Lingens. Più in dettaglio è stato riconosciuto che “la libertà di stampa costituisce uno dei migliori mezzi per conoscere e valutare le idee e gli orientamenti dei dirigenti politici: pertanto i limiti della critica esercitabile nei confronti di essi sono più ampi di quelli relativi ai semplici privati; anche gli uomini politici fruiscono della tutela della loro reputazione, non soltanto nella sfera privata, ma in questo caso i doveri connessi a tale protezione vanno bilanciati con gli interessi collegati alla libera discussione sui problemi politici” (Corte europea diritti dell'uomo, 8 luglio 1986, Lingens c. Austria, v. Tabloid n. 1/2000 n. Peron). In questo caso il giornalista ricorrente era stato condannato per aver criticato molto pesantemente il segretario generale del partito socialdemocratico austriaco, in seguito agli attacchi che questi a sua volta aveva mosso pubblicamente a Simon Wiesenthal, presidente della Repubblica, per i suoi trascorsi nazisti. La Corte ha affermato: “La condanna per diffamazione di un giornalista per gli apprezzamenti espressi sul conto di un uomo politico costituisce violazione della sua libertà di opinione, la quale rappresenta un elemento fondamentale del diritto garantito dall'articolo 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo”. In forza di questa sentenza il governo austriaco è stato condannato a rifondere al giornalista ricorrente le somme da questi versate per il pagamento dell'ammenda e delle spese processuali cui era stato condannato. Il governo austriaco, inoltre, è stato condannato al versamento di un'indennità forfetaria per le spese occorse per la pubblicazione della sentenza, cui pure il giornalista era stato condannato, oltre che alla rifusione delle spese dei giudizi penali subiti dinanzi ai giudici austriaci e delle spese di comparizione e di difesa dinanzi alla Corte.
Il diritto dei cittadini di conoscere i fatti prevale sempre sulla segretezza delle carte processuali.
Il diritto della stampa di informare su indagini in corso e quello del pubblico di ricevere notizie su inchieste scottanti prevalgono sulle esigenze di segretezza. Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti dell'uomo che, nella sentenza del 7 giugno scorso, ha condannato la Francia per violazione della libertà di espressione (ricorso n. 1914/02). Questo perché i tribunali interni avevano condannato due giornalisti che avevano pubblicato un libro sul sistema di intercettazioni illegali attuato durante la Presidenza Mitterand.
Nell'opera, oltre che stralci di dichiarazioni al giudice istruttore e brogliacci delle intercettazioni, era contenuto l'elenco delle persone sottoposte ai controlli telefonici. Se i giudici francesi hanno fatto pendere l'ago della bilancia verso la tutela del segreto istruttorio, punendo i giornalisti, la Corte europea ha invece rafforzato il ruolo della stampa nella diffusione di fatti scottanti, soprattutto quando coinvolgono politici. In questi casi, i limiti di critica ammissibili sono più ampi, perché sono interessate persone che si espongono volontariamente a un controllo sia da parte dei giornalisti, che della collettività.
La Corte europea ha ammesso che i due autori avevano violato le norme sul segreto istruttorio, ma ha riconosciuto prevalente l'esigenza del pubblico di essere informato sul procedimento giudiziario in corso e sui fatti oggetto del libro, al quale erano allegati alcuni verbali di intercettazioni.
È legittimo - secondo i giudici europei - accordare una protezione particolare al segreto istruttorio, sia per assicurare la buona amministrazione della giustizia, sia per garantire il diritto alla tutela della presunzione d'innocenza delle persone oggetto d'indagine. Ma su queste esigenze prevale il diritto di informare, soprattutto quando si tratta di fatti che hanno raggiunto una certa notorietà tra la collettività. Non solo. La Corte europea ha ribaltato l'onere della prova: non tocca ai giornalisti dimostrare che non hanno violato il segreto istruttorio, ma spetta alle autorità nazionali dimostrare in quale modo «la divulgazione di informazioni confidenziali può avere un'influenza negativa sulla presunzione di innocenza» di un indagato. In caso contrario, la protezione delle informazioni coperte da segreto non «è un imperativo preponderante». Ciò che conta è che i giornalisti agiscano in buona fede, fornendo dati esatti e informazioni precise e autentiche nel rispetto delle regole deontologiche della professione.
Una bocciatura anche per le pene disposte dai tribunali nazionali. Secondo la Corte europea, infatti, la previsione di un'ammenda e l'affermazione della responsabilità civile dei giornalisti possono avere un effetto dissuasivo nell'esercizio di questa libertà, effetto che non viene meno anche nel caso di ammende relativamente moderate. (Marina Castellaneta, Il Sole 24 Ore del 21 guiuno 2007)
La libertà di stampa vince sulla privacy perché è in gioco il diritto della collettività di ricevere informazioni.
La libertà di stampa prima di tutto, perché non è solo in gioco la libertà di espressione del giornalista, ma anche quella della collettività di ricevere informazioni. Con la sentenza del 10 febbraio 2009, la Corte europea dei diritti dell'uomo aggiunge un altro tassello a tutela dei giornalisti, attribuendo ai reporter ampi poteri di valutazione sulle modalità di pubblicazione di una notizia accompagnata da una fotografia. Anche se si tratta della divulgazione del nome dell'imputato prima dell'udienza e dei capi d'imputazione su un processo penale ancora pendente.
La vicenda, costata una condanna alla Finlandia, è arrivata a Strasburgo su ricorso di due giornalisti e un editore, condannati dai tribunali nazionali a risarcire un'imprenditrice. Quest'ultima, indagata per frode fiscale, aveva chiesto un indennizzo ritenendo che la pubblicazione di un articolo su indagini a suo carico, prima della conclusione del processo, e la pubblicazione di una sua fotografia, avessero violato il suo diritto alla privacy. La Corte suprema finlandese aveva confermato l'obbligo per i giornalisti di risarcire con 20mila euro la donna, soprattutto per la pubblicazione della foto. Di qui il ricorso alla Corte europea che ha invece dato ragione ai giornalisti e ha condannato la Finlandia.
Prima di tutto – osserva Strasburgo – le ingerenze nel diritto alla libertà di espressione da parte delle autorità statali devono essere motivate da un bisogno sociale imperativo e proporzionate a un fine legittimo. Nel valutare se tali esigenze sussistano, le autorità nazionali hanno un margine di discrezionalità, che però non solo non è illimitato, ma deve tener conto delle posizioni della stessa Corte europea il cui compito è quello di stabilire in via definitiva «se una restrizione è conciliabile con il diritto alla libertà di espressione protetto dall'articolo 10 della Convenzione».
Nella valutazione degli interessi in gioco – diritto alla privacy e diritto a informare – la Corte fa pendere l'ago della bilancia a vantaggio di quest'ultimo. A patto che il giornalista fornisca informazioni, agendo in buona fede e con la dovuta attenzione, su notizie di interesse pubblico e che le fotografie non forniscano dettagli sulla vita privata.
Spetta poi al giornalista e non alla Corte europea né ai tribunali nazionali verificare se la riproduzione di un vecchio articolo riguardante la persona indagata e una sua fotografia siano necessarie, perché è il giornalista che deve decidere sulle modalità di diffusione di una notizia. La pubblicazione dell'informazione sul l'indagine a carico dell'imputata contribuisce – precisa la Corte – alla pubblica discussione su problemi di carattere generale. Così come è giustificata la divulgazione del nome. Questo perché, anche se non si tratta di una figura pubblica o di un politico, la notizia serve ad attirare l'attenzione su un problema generale come quello degli abusi sull'utilizzo di fondi pubblici. Ingiustificata poi la condanna al risarcimento dei danni a carico dei giornalisti che si sono limitati a fornire notizie di interesse pubblico, specificando che le indagini erano ancora in corso. Un aspetto che i giudici interni non hanno considerato e che invece avrebbero dovuto valutare per non infrangere l'articolo 10 della Convenzione. Di qui non solo la condanna per violazione del diritto alla libertà di espressione, ma anche l'obbligo dello Stato di risarcire i danni morali ai giornalisti e all'editore. (Marina Castellaneta, Il Sole 24 Ore del 23 febbraio 2009)
Che peso hanno le sentenze di Strasburgo nel sistema giudiziario italiano?
La risposta è stata data dalla Corte costituzionale con la sentenza 39/2008: “Questa Corte, con le recenti sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, ha affermato, tra l'altro, che, con riguardo all'art. 117, primo comma, Cost., le norme della CEDU devono essere considerate come interposte e che la loro peculiarità, nell'ambito di siffatta categoria, consiste nella soggezione all'interpretazione della Corte di Strasburgo, alla quale gli Stati contraenti, salvo l'eventuale scrutinio di costituzionalità, sono vincolati ad uniformarsi…Gli Stati contraenti sono vincolati ad uniformarsi alle interpretazioni che la Corte di Strasburgo dà delle norme della Cedu (Convenzione europea dei diritti dell’Uomo)”.
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Decisioni disciplinari degli Ordini professionali: divulgabili.
1.Tribunale di Milano: è lecito pubblicare le decisioni disciplinari dell’Ordine.
Il Consiglio dell'Ordine è organo preposto alla sorveglianza ed alla disciplina dei suoi iscritti ed i suoi provvedimenti sono, e devono essere, per la loro natura accessibili a tutti. Pertanto la pubblicazione integrale sulla stampa del provvedimento disciplinare non costituisce comportamento illecito lesivo dei diritti dell'incolpato (Trib. Milano, 27 luglio 1998; Parti in causa A.M. c. F.A. e altro; Riviste Rass. Forense, 1999, 200).
2. Garante della privacy: “Non viola la privacy dare notizia anche on line dell'esistenza di un provvedimento disciplinare”.
Non viola la privacy dare notizia dell'esistenza di un provvedimento disciplinare adottato nei confronti di professionisti, notai, avvocati, ingegneri. Ordini e collegi professionali possono affiggere nell'albo e pubblicare sulle loro riviste sia cartacee, sia on line le sanzioni disposte nei confronti dei loro iscritti e darne comunicazione ad amministrazioni pubbliche o a privati che lo richiedano. I principi, già stabiliti dal Garante in precedenti provvedimenti, sono stati ribaditi nei pareri resi al Consiglio nazionale degli ingegneri e a un consiglio notarile provinciale. I due ordini si erano rivolti al Garante per ottenere chiarimenti sulla divulgazione delle sanzioni disciplinari, dopo che loro iscritti ne avevano contestavano la legittimità, in un caso la sanzione era stata diffusa in Internet, lamentando anche possibili danni professionali. Già nei provvedimenti riferiti alla professione forense e a quella di geometra, ma contenenti principi validi anche per altre professioni, il Garante aveva ritenuto legittima la divulgazione del provvedimento del consiglio dell'ordine che disponga la sospensione dalla professione e ciò a fini di tutela dei terzi. Questa impostazione è ora confermata dall'articolo 61 del Codice in materia di protezione dei dati personali il quale sancisce espressamente che nelle comunicazioni a soggetti pubblici o privati, o in sede di diffusione, anche on line, di dati inseriti nell'albo professionale, può anche essere "menzionata l'esistenza di provvedimenti che dispongono la sospensione o che incidono sull'esercizio della professione". La disciplina sulla privacy, non ha quindi modificato la ratio della normativa relativa agli albi professionali che, per loro stessa natura, sono destinati ad un regime di pubblicità, anche in funzione della tutela dei diritti di coloro che a vario titolo hanno rapporti con gli iscritti all'albo. Con l'entrata in vigore del nuovo Codice, inoltre, ordini e collegi professionali, su richiesta dell'iscritto, possono integrare i dati riportati sugli albi con ulteriori informazioni, purché pertinenti all'attività svolta. (Newsletter del Garante n. 225 del 6-12 settembre 2004).