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Stampa

SENTENZE DELLA CASSAZIONE
E NOMI DEGLI IMPUTATI.
Giuliano Amato sbaglia: la Corte suprema
(giugno-luglio 2005) ha fatto dietrofront
dopo l’intervento del presidente
dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia
nel senso che i nomi sono tornati nelle
sentenze. L’Ufficio del Massimario ha spiegato
che Franco Abruzzo aveva ragione.


Milano, 14 luglio 2006.  “Repubblica” di  oggi riporta una intervista di Giuseppe D’Avanzo  a Giuliano Amato, ministro dell’Interno. Scrive D’Avanzo:   “La disciplina che protegge il nostri dati personali è rigorosissima, dice Amato. Prevede che la pubblicazione di una sentenza passata in giudicato non indichi il nome, ma soltanto le iniziali, del condannato. Non è una vistosa contraddizione, un illegalismo diventato prassi, che tutti gli atti giudiziari che precedono la sentenza possano essere pubblicati dai giornali con tanto di nome e cognome? A che cosa servono allora gli infiniti moduli che compiliamo per mettere al riparo da occhi indiscreti i nostri dati sensibili? Abbiamo perso, dice Amato, la consapevolezza che si sono limiti invalicabili. L´abuso nella pubblicazione delle intercettazioni telefoniche ne è la prova. Non penso che bisogna ridimensionare le intercettazioni, dice Amato. Nessuno, se non un giudice, può stabilirne la necessità”.  Amato sbaglia  in maniera clamorosa.


 Nota di  Franco Abruzzo/ presidente dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia


 La lettera circolare (n. 47/06/SG di Prot - Roma, 17 gennaio 2006) del primo presidente della Corte suprema  Cassazione, Nicola Marvulli, ai presidenti titolari  delle Sezioni civili e penali, al direttore dell’Ufficio del Massimario e al direttore del Ced  sulla “Tutela della privacy ed oscuramento dei dati identificativi delle sentenze” conferma che la Corte di Cassazione può rilasciare copie integrali delle sentenze ai giornalisti senza oscurare il nome degli imputati. Lo aveva  chiarito la relazione 5 luglio 2005 dell'Ufficio del Massimario della stessa Corte intervenendo a seguito di precise richieste da parte dell'Ordine dei Giornalisti della Lombardia. La questione era nata  (nel giugno 2005) a seguito dell’istanza di un imputato per reati sessuali che, appellandosi all’articolo 52 del  Dlgs n. 196 del 2003, aveva sollecitato che il proprio nome pubblicato sulla sentenza fosse sbianchettato. Per tale motivo, la copia della sentenza n. 22724/05 della Terza Sezione penale era stata stampata cancellando il nome e le generalità dell'imputato e con un timbro posto in alto a sinistra che richiamava la norma di legge che consente l'anonimizzazione.


La Suprema Corte ha infatti spiegato che chiunque può richiedere una copia delle sentenze perché in quanto atti pubblici pronunciati "in nome del Popolo Italiano'' e che deve, però, oscurare i dati personali se vuole pubblicarle su una rivista specializzata di informatica giuridica; tuttavia, tale obbligo non vale per la cronaca giudiziaria in senso stretto, che deve assicurare il diritto all'informazione pur nel pieno rispetto dei diritti degli imputati. Nella relazione si affermava infatti che "le sentenze e gli altri provvedimenti giurisdizionali possono essere diffusi, anche attraverso il sito istituzionale nella rete Internet, nel loro testo integrale, completo - oltre che dei dati riferiti a particolari condizioni o status, anche di natura sensibile - delle generalità delle parti e dei soggetti coinvolti nella vicenda giudiziaria" e che "chi esercita l'attività giornalistica o altra attività comunque riconducibile alla libera manifestazione del pensiero [...] possa trattare dati personali anche prescindendo dal consenso dell'interessato e, con riferimento ai dati sensibili e giudiziari, senza una preventiva autorizzazione di legge o del Garante".


Il  “Testo unico della privacy” 196/2003 (come la legge 675/1996) dà piena libertà ai giornalisti di trattare i dati giudiziari (secondo le regole deontologiche). I giudici delle violazioni  sono  soltanto i Consigli dell’Ordine dei Giornalisti. Secondo l’articolo 137 del Dlgs n. 196/2003, ai trattamenti (effettuati nell'esercizio della professione di giornalista e per l'esclusivo perseguimento delle relative finalità) non si applicano le disposizioni del  Testo unico del 2003  relative: a) all'autorizzazione del Garante prevista dall'articolo 26; b) alle garanzie previste dall'articolo 27 per i dati giudiziari; c) al trasferimento dei dati all'estero, contenute nel Titolo VII della Parte I. In sostanza l’articolo 137, non prevedendo il disco verde del Garante o di soggetti privati, rispetta l’articolo 21 (II comma) della Costituzione che vuole la stampa non soggetta ad autorizzazioni. I giornalisti dovranno, comunque, trattare i dati (=notizie) con correttezza, secondo i vincoli posti dal Codice di deontologia della privacy del 1998, dagli articoli 2 e 48 della legge  n. 69/1963 (sull’ordinamento della professione giornalistica), dalle Carte di Treviso sulla tutela dell’infanzia e dalla Carta dei doveri del 1993.


Il trattamento dei dati – dice ancora l’articolo 137 - è effettuato anche senza il consenso dell'interessato previsto dagli articoli 23 (Consenso) e 26 (Garanzie per i dati sensibili).  In caso di diffusione o di comunicazione dei dati per le finalità di cui all'articolo 136  (trattamenti effettuati nell'esercizio della professione di giornalista e per l'esclusivo perseguimento delle relative finalità)  “restano fermi i limiti del diritto di cronaca a tutela dei diritti di cui all'articolo 2 e, in particolare, quello dell'essenzialità dell'informazione riguardo a fatti di interesse pubblico. Possono essere trattati i dati personali relativi a circostanze o fatti resi noti direttamente dagli interessati o attraverso loro comportamenti in pubblico”. I giornalisti, che hanno diritto di leggere le sentenze nella forma integrale,  non  possono scrivere  i dati identificativi di una persona (o di un  minore) che  ha subito violenza sessuale o che ha subito ricatti sessuali e né  possono pubblicare dati che consentano, comunque, l’identificazione di queste persone o, comunque, di soggetti deboli.


L’articolo 12 del Codice deontologico relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica (meglio noto come Codice deontologico dei giornalisti sulla privacy)  tratta la “Tutela del diritto di cronaca nei procedimenti penali” (Al trattamento dei dati relativi a procedimenti penali non si applica il limite previsto dall'articolo 24 della legge n. 675/1996. Il trattamento di dati personali idonei a rivelare provvedimenti di cui all'articolo 686, commi 1, lettere a) e d), 2 e 3, del Codice di procedura penale è ammesso nell'esercizio del diritto di cronaca, secondo i principi di cui all'articolo 5). Ciò significa che  i giornalisti possono raccontare quello che risulta scritto nel Casellario giudiziale a carico di ogni persona protagonista di un fatto di cronaca:  sentenze di condanna, ordini di carcerazione, misure di sicurezza, provvedimenti definitivi che riguardano l’applicazione delle misure di prevenzione della sorveglianza speciale, dichiarazione di abitualità o professionalità nel reato o di tendenza a delinquere. Il diritto di cronaca, collegato a fatti di attualità, vince in maniera ampia.


La legge sulla privacy  non annulla un’altra legge centrale dell’ordinamento giuridico, la n. 633 del 1941 sul diritto d’autore. L’articolo 96 (in linea con l’articolo 10 Cc) protegge l’immagine della persona, che deve dare il consenso alla pubblicazione della sua foto. Senza il consenso, la pubblicazione della foto diventa un illecito civile. L’articolo 97  fissa le eccezioni: “Non occorre il consenso della persona ritratta quando la riproduzione dell’immagine è giustificata dalla notorietà o dall’ufficio pubblico coperto, da necessità di giustizia o di polizia, da scopi scientifici, didattici o culturali, o quando la riproduzione è collegata a fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico”. Sul risvolto di tale norma si suole articolare l’ampiezza del diritto di cronaca: si può pubblicare tutto ciò che è collegato a fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico.


Si legge ancora nella relazione dell’Ufficio del Massimario:


“Il Codice prevede uno statuto particolare per l’attività giornalistica, che rifugge dalla previsione di regole rigide e minuziose e che affida in prima battuta il bilanciamento tra i diritti e le libertà allo stesso giornalista il quale, in base ad una propria valutazione (che può essere sindacata), acquisisce, seleziona e pubblica i dati utili ad informare la collettività su fatti di rilevanza generale e d’interesse pubblico, esprimendosi nella cornice della normativa vigente e nel rispetto del proprio codice di deontologia. Esso stabilisce che chi esercita l’attività giornalistica o altra attività comunque riconducibile alla libera manifestazione del pensiero (inclusa l’espressione artistica e letteraria, come ora precisato dall’art. 136 del Codice) possa trattare dati personali anche prescindendo dal consenso dell’interessato e, con riferimento ai dati sensibili e giudiziari, senza una preventiva autorizzazione di legge o del Garante.


In caso di diffusione o di comunicazione di dati, il giornalista è peraltro tenuto comunque a rispettare alcune condizioni (art. 137, comma 3): i limiti del diritto di cronaca e, in particolare, quello dell’essenzialità dell’informazione riguardo a fatti di interesse pubblico, e i principi previsti dal codice deontologico relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica[41].


In ordine ai dati giudiziari, il codice deontologico (art. 12), a sua volta, rinvia al principio di essenzialità dell’informazione (art. 5), in modo da evitare riferimenti a congiunti o ad altri soggetti non interessati ai fatti.


La non diretta operatività all’attività giornalistica degli effetti dell’anonimizzazione disposta ai sensi dell’art. 52, commi e 2, del Codice – ma, più limitatamente, l’affidamento all’autonomia e alla responsabilità del giornalista, nel rispetto della legge e del codice doentologico, dei risultati di quella ponderazione e di quel bilanciamento – sembra ricavarsi dal parere del Garante 6 maggio 2004 su Privacy e giornalismo. Alcuni chiarimenti in risposta a quesiti dell’Ordine dei giornalisti[42]. Il Garante ha evidenziato la necessità che l’esigenza di assicurare la trasparenza dell’attività giudiziaria e il controllo della collettività sul modo in cui viene amministrata la giustizia debba comunque bilanciarsi con alcune garanzie fondamentali riconosciute all’indagato e all’imputato: la presunzione di non colpevolezza fino a condanna definitiva, il diritto di difesa e il diritto ad un giusto processo. In particolare, la diffusione dei nomi di persone condannate e, in generale, dei destinatari di provvedimenti giurisdizionali, ad avviso del Garante, deve inquadrarsi nell’ambito delle disposizioni processuali vigenti, di regola improntate ad un regime di tendenziale pubblicità. Di guisa che sono ritenuti pubblicabili, ad esempio, l’identità, l’età, la professione, il capo di imputazione e la condanna irrogata ad una persona maggiorenne ove risulti la verità dei fatti, la forma civile dell’esposizione e la rilevanza pubblica (anche solo in un contesto locale) della notizia. Secondo il Garante, nella diffusione dei dati dei condannati devono essere presi in considerazione il tipo di soggetti coinvolti (ad esempio, persone con handicap o disturbi psichici, o ancora, ragazzi molto giovani), il tipo di reato accertato e la particolare tenuità dello stesso, l’eventualità che si tratti di condanne scontate da diversi anni o assistite da particolari benefici (es. quello della non menzione nel casellario), in ragione dell’esigenza di promuovere il reinserimento sociale del condannato. Le medesime ragioni di tutela dei dati personali, ad avviso del Garante, dovrebbero altresì prevalere nei casi in cui la vittima ha manifestato la volontà che i propri dati non siano resi pubblici (fermo restando il fatto che il giornalista può procedere alla pubblicazione dei diversi dati anche in assenza del consenso da parte degli interessati). Tale principio troverebbe, tra l’altro, fondamento nella possibilità, per ogni soggetto interessato, di opporsi anche in anticipo per motivi legittimi alla pubblicazione (art. 7, comma 4, lettera a, del Codice). Secondo il Garante, il giornalista, nell’effettuare le valutazioni a lui rimesse, “non potrà non tenere conto del bilanciamento di interessi effettuato in un altro fronte e cioè che le sentenze pubblicate per finalità di informatica giuridica (non giornaliste, quindi) dallo stesso ufficio giudiziario, oppure da riviste giuridiche anche on-line, potranno in alcuni casi più delicati non recare il nome di taluna delle parti o di terzi (minore, delicati rapporti di famiglia, ecc.: art. 52 del Codice)”.


I nomi degli imputati  continueranno, quindi, a comparire nelle cronache. I nomi, invece, non compariranno, come riferito,  nelle riviste giuridiche cartacee e in quelle informatiche,  nelle raccolte delle massime pubblicate sul web  o  sui cd. Vediamo come stanno le cose. Sull’articolo 52 del dlgs 196/2003 è il caso di osservare che:


a) l'articolo, su  richiesta dell'interessato “per motivi legittimi”, consente alla cancelleria di “apporre un’annotazione volta a precludere” l’indicazione delle generalità e di altri dati identificativi «in caso di riproduzione della sentenza, o provvedimento in qualsiasi forma, per finalità di informazione giuridica, su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica”.


b)  nei casi previsti dai commi 1 e 2  dello stesso articolo la cancelleria o segreteria appone e sottoscrive anche con timbro la seguente annotazione: «In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi di.....».


c) secondo il settimo comma dello stesso articolo, “Fuori dei casi indicati nel presente articolo è ammessa la diffusione in ogni forma del contenuto anche integrale di sentenze e di altri provvedimenti giurisdizionali”.


Anche l’articolo 52, quindi, consente la pubblicazione “anche integrale” delle sentenze fuori dai casi relativi alle riviste giuridiche cartacee o informatiche, ai supporti  elettronici o al web. Il Testo unico sulla privacy rispetta totalmente i primi due commi dell’articolo 21 della Costituzione: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”. Nella libertà di manifestazione del pensiero coesistono il diritto di cronaca, di informazione, di critica, la libertà di stampare le proprie idee e il diritto dei cittadini all’informazione. “Le libertà fondamentali affermate, garantite e tutelate nella Parte prima, Titolo primo, della Costituzione della Repubblica, sono riconosciute come diritti del singolo, che il singolo deve poter far valere erga omnes. Essendo compresa tra tali diritti anche la libertà di manifestazione del pensiero proclamata dall'art. 21, primo comma, della Costituzione, deve senza dubbio imporsi al rispetto di tutti, delle autorità come dei consociati. Nessuno può quindi recarvi attentato, senza violare un bene assistito da rigorosa tutela costituzionale...... I fondamentali diritti di libertà proclamati nella parte prima, titolo primo, della Costituzione, sono in gran parte compresi nella categoria dei diritti inviolabili dell'uomo genericamente contemplati nell'articolo 2” (Corte costituzionale, sentenza 122/1970).


 


……………………………………………..


 

In: https://www.odg.mi.it/docview.asp?DID=1882

RELAZIONE (5 luglio 2005)


DELL’UFFICIO


DEL MASSIMARIO


DELLA CASSAZIONE.


Il Codice sulla privacy prevede


uno statuto particolare

per l'attività giornalistic




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