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Stampa

1999- Convegno Astaf
sul diritto di cronaca

Abruzzo: "Il giornalista
(come l’avvocato)
diventi parte nel
procedimento penale
per garantire ai cittadini
il diritto all’informazione”

“I giornalisti, che lavorano per garantire ai cittadini il diritto di essere informati, rappresentano una parte nel processo penale e come tali devono godere dei diritti assicurati dall’ordinamento processuale al difensore. Il giornalista, quindi, come l’avvocato. Vanno rotti i rapporti equivoci tra giornalisti e Pm e anche quelli tra giornalisti e avvocati. In sostanza chiediamo di essere responsabilizzati al massimo livello. Se i giornalisti dovessero vedersi riconosciuti i diritti dei difensori, allora non avrebbero più attenuanti qualora le cronache dovessero risultare incomplete, quindi false e diffamatorie. Non rivendichiamo il diritto di avere tutte le "carte", che fotocopiano gli avvocati, per diffamare i cittadini al riparo di possibili querele e azioni risarcitorie. Chiediamo le "carte" per poter raccontare i fatti e pubblicare le immagini dei protagonisti delle vicende quotidiane nel rispetto delle regole deontologiche e del Codice di deontologia sulla privacy. Vogliamo sfuggire alla morsa della “mezza notizia=notizia falsa=notizia diffamatoria”. Le "carte" saranno sempre utilizzate in maniera rigorosa e responsabile”.

Milano, 29 ottobre 1999. Oggi al Palazzo di Giustizia e domani al Centro Congressi di via Corridoni 16 si svolge la prima Consulta nazionale Avvocati e Giornalisti sul tema: "Quando il fine giustifica i media". Franco Abruzzo, presidente dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia,


ha letto una sua relazione sul tema: "Diritto e deontologia professionale dei giornalisti. Dalla tutela dell’immagine del cittadino alla tutela del cittadino protagonista delle cronache giudiziarie".


Abruzzo in particolare ha chiesto una riforma del Codice di procedura penale tale da collocare ufficialmente il giornalista giudiziario come parte (al pari dell’avvocato) del processo penale nella sua veste di mediatore intellettuale tra i fatti e i lettori. I giornalisti dovrebbero poter fotocopiare gli atti processuali quando gli stessi vengono depositati e assistere alle udienze del Gip e del Gup. Va attuato pienamente il diritto dei cittadini all’informazione, che deve essere, come ha scritto la Corte costituzionale, corretta e completa. 


Abruzzo ha detto: "I Pm non possono trincerarsi dietro i divieti quando i divieti a pubblicare non esistono più. È loro dovere, credo, dare a tutti i cronisti notizie complete o mettere i cronisti in condizione di rintracciare le parti processuali perché vicende di interesse pubblico siano ricostruite imparzialmente. La sfida è la correttezza delle cronache: un dovere, ripeto, da assolvere sia dai giudici, sia dai giornalisti. La sfida riguarda anche il Parlamento, che dovrebbe essere sollecitato ad apportare modifiche sostanziali ad alcuni articoli del Cpp (128, 366, 416, 419, 430, 433, 548). Le udienze davanti al Gip e al Gup dovranno essere pubbliche: le Camere non possono glissare su tale esigenza di trasparenza. I giornalisti, intermediari intellettuali tra i fatti e il pubblico, devono essere messi giuridicamente in condizione di poter estrarre copia delle richieste del Pm di rinvio a giudizio, dei provvedimenti del Gip, dei decreti che dispongono il giudizio, delle memorie e delle richieste delle parti, degli atti cui hanno diritto di assistere i difensori, del fascicolo del Pm, del fascicolo per il dibattimento, delle sentenze. I giornalisti, che lavorano per garantire ai cittadini il diritto di essere informati, rappresentano una parte nel processo penale e come tali devono godere dei diritti assicurati dall’ordinamento processuale al difensore. Il giornalista, quindi, come l’avvocato. Vanno rotti i rapporti equivoci tra giornalisti e Pm e anche quelli tra giornalisti e avvocati. In sostanza chiediamo di essere responsabilizzati al massimo livello. Se i giornalisti dovessero vedersi riconosciuti i diritti dei difensori, allora non avrebbero più attenuanti qualora le cronache dovessero risultare incomplete, quindi false e diffamatorie. Non rivendichiamo il diritto di avere tutte le "carte", che fotocopiano gli avvocati, per diffamare i cittadini al riparo di possibili querele e azioni risarcitorie. Chiediamo le "carte" per poter raccontare i fatti e pubblicare le immagini dei protagonisti delle vicende quotidiane nel rispetto delle regole deontologiche e del Codice di deontologia sulla privacy. Vogliamo sfuggire alla morsa della mezza notizia=notizia falsa= notizia diffamatoria. Le "carte" saranno sempre utilizzate in maniera rigorosa e responsabile.


 


Segue la relazione di Franco Abruzzo


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ASTAF - Associazione nazionale Stampa forense


Ordine degli Avvocati di Milano


Ordine dei Giornalisti della Lombardia


 


Milano, Iª Consulta nazionale Avvocati e Giornalisti


(29 - 30 ottobre 1999) sul tema: "Quando il fine giustifica i media".


Relazione di Franco Abruzzo, presidente dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia, su "Diritto e deontologia professionale dei giornalisti. Dalla tutela dell’immagine del cittadino alla tutela del cittadino protagonista delle cronache giudiziarie".


 


Indice


Premessa


Il diritto di cronaca e la Corte costituzionale


Diritto dei cittadini all’informazione


Il "decalogo" della Cassazione


Privacy: analisi del Codice deontologico dei giornalisti


Divieto di stampare le foto degli arrestati


Delitto Marta Russo e cronaca giudiziaria


I confini della cronaca giudiziaria nelle sentenze dei giudici


Il giornalista (come l’avvocato) parte nel procedimento penale


Quattro buone ragioni per difendere la legge professionale dei giornalisti


 


Premessa. Della normativa sull’informazione fa parte adesso anche la legge n. 675/1996 sulla privacy, che così affianca la legge istitutiva dell’Ordine, la legge sulla stampa, il Contratto nazionale di lavoro giornalistico, la legge sulla pubblicità ingannevole, la legge sul diritto d’autore. Al centro di questo “sistema” è la persona umana. La persona umana è il cuore della nostra Costituzione repubblicana. Con la legge sulla privacy, il nostro ordinamento compie un salto di qualità di grande profilo.  Cresce la tutela dei diritti della persona. E con ciò  si attuano anche quei principi solenni contenuti nella Dichiarazione universale  dei diritti dell’uomo e nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (che è la legge italiana n. 848/1955). Ma anche la legge sull’ordinamento della professione giornalistica (n. 69/1963)  assegna un ruolo centralissimo alla persona umana, quando afferma (all’articolo 2) che “è diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà d’informazione e di critica, limitata dall’osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui ed è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede”.  La libertà d’informazione e di critica, insopprimibile, quindi, ha due confini invalicabili: il rispetto della persona e quello della verità sostanziale dei fatti. Il diritto di cronaca, infatti, non è un diritto sciolto dagli altri diritti primari costituzionalmente protetti (onore, decoro e dignità della persona, riservatezza e identità personale). L’articolo 8 della Convenzione europea  afferma che “ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza”. L’articolo 16 della Convenzione Onu del 1989 sui diritti del fanciullo (legge italiana  n. 176/1991)  afferma che “nessun fanciullo può essere sottoposto ad interferenze arbitrarie  o illegali nella sua vita privata” (sono le parole dell’articolo 12 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo). L’ordinamento italiano, quindi, partendo dall’articolo 2 della Costituzione, che cala nel diritto positivo i diritti  naturali della persona e disegnando un arco che abbraccia la Dichiarazione universale e la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo nonché la Convenzione Onu sui diritti del fanciullo, forma un ampio reticolo di norme che rendono intangibile il diritto di ogni persona alla tutela della sua vita privata e intima, cioè della sua privacy, nonché della sua dignità e della sua identità personale. Dignità delle persone fisiche, riservatezza e identità personale sono i valori che la legge n. 675/1996 intende tutelare nel processo di trattamento dei dati.


Va sottolineata l’importanza dell’articolo 9 della legge n. 675/1996, che completa il quadro dei doveri richiesti al giornalista dall’articolo 2 della legge professionale n. 69/1963. Questo articolo 9  vuole che i dati (= notizie)  debbano essere: a) trattati in modo lecito e secondo correttezza; b) raccolti e registrati per scopi determinati, espliciti e legittimi, ed utilizzati in altre operazioni del trattamento in termini non incompatibili con tali scopi; c) esatti e, se necessario, aggiornati; d) pertinenti, completi e non eccedenti rispetto alle finalità per le quali sono raccolti o successivamente trattati; e) conservati in una forma che consenta l'identificazione dell'interessato per un periodo di tempo non superiore a quello necessario agli scopi per i quali essi sono stati raccolti o successivamente trattati.


Dietro le notizie, quindi, c’è un professionista impegnato nella raccolta e nella elaborazione delle stesse secondo regole tecniche e morali precise.  Etica e deontologia, quindi, sono il cuore dell’agire del professionista, che opera nei mass media. L’etica, si legge nello Zingarelli, è l’insieme delle norme di condotta pubblica e privata  che una persona o un gruppo di persone scelgono  e seguono nella vita o in un’attività. La deontologia, scrive sempre Nicola Zingarelli, è, invece, il complesso dei doveri  inerenti a particolari categorie professionali. Etica e deontologia esprimono concetti che condizionano la vita dei professionisti e, quindi, anche dei  giornalisti.


Le regole deontologiche dei giornalisti sono racchiuse negli articoli 2 e 48 della legge n. 69/1963. Queste regole sono il cuore dell'autonomia della professione. E’ inconcepibile, infatti, una professione senza deontologia.


La legge istitutiva dell'Ordine detta (con le relative sanzioni: avvertimento, censura, sospensione da 2 a 12 mesi e radiazione) vincoli fondamentali per l'attività giornalistica:


·      la libertà di informazione e di critica (valori che fanno definire il giornalismo informazione critica) come diritto insopprimibile dei giornalisti;


·      le norme che tutelano la persona umana e  il rispetto della verità sostanziale dei fatti principi da intendere come limite alle libertà di informazione e di critica;


·      l'esercizio delle libertà di informazione e di critica ancorato ai doveri imposti dalla buona fede e dalla lealtà;


·      il dovere di rettificare le notizie inesatte;


·      il dovere di riparare gli eventuali errori;


·      il rispetto del segreto professionale sulla fonte delle notizie, quando ciò sia richiesto dal carattere fiduciario di esse;


·      il dovere di promuovere la fiducia tra la stampa e i lettori;


·      il mantenimento del decoro e della dignità professionali;


·      il rispetto della propria reputazione;


·      il rispetto della dignità dell'Ordine professionale;


·      il dovere di promozione dello spirito di collaborazione tra i colleghi;


·      il dovere di promozione della cooperazione tra giornalisti ed editori.


Il potere disciplinare sugli iscritti spetta ai Consigli degli Ordini, che sono i “giudici” della deontologia.


Il giornalismo è tradizionalmente definito ; estensivamente indica anche "la professione del giornalista" e "la categoria dei giornalisti o il complesso dei giornali".


Non esiste il concetto giuridico di giornalismo. Il concetto, abitualmente estrapolato dall’articolo 2 della legge professionale n. 69/1963 (quello dedicato all’etica della categoria), si riassume nella frase . Il primo comma dell’articolo 2, infatti, dice: <È diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà d’informazione e di critica.....>. Questo vuoto è stato, però, riempito da alcune sentenze della Corte di  Cassazione:


a) La nozione dell'attività giornalistica, in mancanza di una esplicita definizione da parte della legge professionale 3 febbraio 1963, n. 69 o della disciplina collettiva, non può che trarsi da canoni di comune esperienza, presupposti tanto dalla legge quanto dalle fonti collettive, con la conseguenza che per attività giornalistica è da intendere l'attività, contraddistinta dall'elemento della creatività, di colui che, con opera tipicamente (anche se non esclusivamente) intellettuale, provvede alla raccolta, elaborazione o commento delle notizie destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale attraverso gli organi d'informazione, mediando tra il fatto di cui acquisisce la conoscenza e la diffusione di esso attraverso un messaggio (scritto, verbale, grafico o visivo) necessariamente influenzato dalla personale sensibilità e dalla particolare formazione culturale e ideologica (Cass. civ., 23 novembre 1983, n. 7007; Riviste: Mass. 1983).


b) E' di natura giornalistica la prestazione di lavoro intellettuale volta alla raccolta, al commento e all'elaborazione di notizie destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale (che può indifferentemente avvenire mediante l'apporto di espressioni letterali, o con l'esplicazione di espressioni grafiche, o ancora mediante la collocazione del messaggio) attraverso gli organi di informazione (Cass. 1/2/96 n. 889, pres. Mollica, est. De Rosa, in D&L 1996, 687, nota Chiusolo, Il giornalista grafico e l'iscrizione all'Albo dei giornalisti).


c) Per attività giornalistica deve intendersi la prestazione di lavoro intellettuale volta alla raccolta, al commento e alla elaborazione di notizie destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale attraverso gli organi di informazione; il giornalista si pone pertanto come mediatore intellettuale tra il fatto e la diffusione della conoscenza di esso...... differenziandosi la professione giornalistica da altre professioni intellettuali proprio in ragione di una tempestività di informazione diretta a sollecitare i cittadini a prendere conoscenza e coscienza di tematiche meritevoli, per la  loro novità, della dovuta attenzione e considerazione” (Cass. Civ., sez. lav., 20  febbraio 1995, n. 1827).


Un aiuto viene anche da sentenze di altri e diversi giudici come questa: “L'attività giornalistica è caratterizzata dall'elemento della creatività, per cui può essere definito giornalista con conseguente applicabilità del Ccnl relativo, colui che nel riportare una notizia compia un'opera di mediazione tra la notizia e la sua diffusione” (Pret. Torino, 1 agosto 1992; Parti in causa Brunati c. Soc. ed. La Stampa; Riviste: Dir. e pratica lav., 1993, 135).


Il giornalismo, quindi, secondo la Corte di Cassazione, è caratterizzato:


·      dalla raccolta, dal commento e dall'elaborazione di notizie (attuali) destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale;


·      dalla tempestività di informazione diretta a sollecitare i cittadini a prendere conoscenza e coscienza di tematiche meritevoli, per la  loro novità, della dovuta attenzione e considerazione;


·      dagli elementi della "creatività", dell' "intellettualità" e dell' "intermediazione critica" delle notizie.


La dottrina e la giurisprudenza legano il giornalismo all’attualità sulla base dell’articolo 32 della legge professionale e dell’articolo 44 del Regolamento di esecuzione della stessa legge i quali prescrivono, infatti, per la prova scritta dell’esame di idoneità professionale, la . L’attualità, quindi,  è una connotazione centrale e qualificante della professione giornalistica.


 


Il diritto di cronaca e la Corte costituzionale. La tutela più forte e incisiva dell’attività giornalistica viene dalla Corte costituzionale, che ha stabilito via via principi, che il legislatore avrebbe dovuto tradurre in leggi:


·      “I giornalisti preposti ai servizi di informazione sono tenuti alla maggiore obiettività e (devono essere) posti in grado di adempiere ai loro doveri nel rispetto dei canoni della deontologia professionale” (sentenza 10 luglio 1974 n. 225).


·      “Esiste un interesse generale alla informazione - indirettamente protetto dall’articolo 21 della Costituzione - e questo interesse implica, in un regime di libera democrazia, pluralità di fonti di informazione, libero accesso alle medesime, assenza di ingiustificati ostacoli legali, anche temporanei, alla circolazione delle notizie e delle idee” (sentenza 15 giugno 1972 n. 105).


·      “I grandi mezzi di diffusione del pensiero (nella più lata accezione, comprensiva delle notizie) sono a buon diritto suscettibili di essere considerati nel nostro ordinamento, come in genere nelle democrazie contemporanee, quali servizi oggettivamente pubblici o comunque di pubblico interesse” (sentenza 30 maggio 1977 n. 94).


·      “Ogni persona ha diritto alla libertà di espressione e  questo diritto comprenda la libertà di opinione e la libertà di ricevere  o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere interferenza di pubbliche autorità” (articolo 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, legge dello Stato italiano  4 agosto 1955 n. 848). L’articolo 10 della Convenzione, mutuato dall’articolo 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, è stato ampliato successivamente dall’articolo 19 del Patto internazionale di New York relativo ai diritti civili e politici (legge dello Stato italiano 25 ottobre 1977 n. 881) il quale stabilisce: “...Ogni individuo ha il diritto della libertà di espressione; tale diritto comprende la libertà di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee di ogni genere, senza riguardo a frontiere, oralmente, per iscritto, attraverso la stampa, in forma artistica o attraverso qualsiasi altro mezzo a sua scelta”.


Si tratta di un crescendo di affermazioni e riconoscimenti che, partendo dalla solenne dichiarazione dell’articolo 21 della nostra Costituzione, passando attraverso le interpretazioni e le applicazioni della legislazione ordinaria e delle sentenze emesse da Corti di giustizia di ogni ordine e grado, tornano all’articolo 21 citato disegnandone con estrema chiarezza i contenuti anche nei confronti della attività dell’Ordine dei giornalisti il quale “organizza coloro che per professione manifestano il pensiero” (sentenza n. 11/1968 della Corte Costituzionale). Non sfugga la rilevanza  dell’inserimento, attraverso leggi ordinarie, della Convenzione europea  per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e del Patto di New York relativo ai diritti civili e politici nell’ordinamento giuridico dello Stato: il diritto di “cercare, ricevere e diffondere  informazioni attraverso la stampa” figura esplicitamente nel nostro ordinamento e amplia la sfera del “diritto di manifestare il pensiero” tutelata dall’articolo 21 della Costituzione.


La Corte costituzionale ha allargato la funzione disciplinare dell'Ordine che “....con i suoi poteri di ente pubblico vigila, nei confronti di tutti e nell'interesse della collettività, sulla rigorosa osservanza di quella dignità professionale che si traduce, anzitutto e soprattutto, nel non abdicare mai alla libertà di informazione e di critica e nel non cedere a sollecitazioni che possano comprometterla”. La Corte di Cassazione ha stabilito a completamento che “la fissazione di norme interne, individuatrici di comportamenti contrari al decoro professionale, ancorché non integranti abusi o mancanze, configura legittimo esercizio dei poteri affidati agli Ordini professionali, con la consequenziale irrogabilità, in caso di inosservanza, di sanzione disciplinare” (Cass. civ., 9 luglio 1991, n. 7543, Mass. 1991).


La sentenza n. 11/1968, la cui portata va opportunamente sottolineata, si inserisce, come appena detto, in un filone giurisprudenziale consolidato da parte della Corte Costituzionale e che, sia pure con tappe successive, ha condotto la Corte stessa a riconoscere:


a) la natura "coessenziale" dell'articolo 21 rispetto al regime di libertà garantito dalla Costituzione, cioè il carattere di "cardine" che tale norma riveste rispetto alla forma di "Repubblica democratica" fissata dalla Carta costituzionale (sentenze n. 5/1965; n. 11 e  98/1968; n. 105/1972; n. 94/ 1977).


b) l'esistenza di un vero e proprio "diritto all'informazione", come risvolto passivo della libertà di ­espressione (sentenze n. 105/1972; n. 225/1974; n. 94/1977; n. 112/1993).


c) la rilevanza pubblica o di pubblico interesse della funzione svolta da chi professionalmente sia chiamato a esercitare un'attività d'informazione giornalistica (sentenze n. 11 e 98/1968; n. 2/ 1977).


Da questo concerto di norme e di pronunzie giurisprudenziali si trae la assoluta certezza che le regole etiche calate nella legge istitutiva dell’Ordine sono non soltanto il perno della autonomia della professione, ma un preciso baluardo agli attacchi che quotidianamente e da più parti vengono mossi al diritto di ciascun cittadino alla informazione corretta e alla oggettiva conoscenza dei fatti per quello che sono, e non per quello che vengono ad arte fatti apparire utilizzando mezzi di comunicazione dei quali la pubblicità è tra i più noti ed importanti e, a seconda delle forme che assume, dei più subdoli e difficilmente riconoscibili.


 


Diritto dei cittadini all’informazione.  La Corte Costituzionale con una serie di decisioni ha, infatti, riconosciuto e affermato non soltanto il principio che i cittadini-utenti hanno diritto di ricevere informazioni, ma che essi hanno diritto a ricevere un'informazione completa, obiettiva, imparziale ed equilibrata. Valori, questi, trasfusi dal legislatore nell’articolo 1 (II comma) della legge n. 223/1990; questa legge, infatti, pone a base del sistema radiotelevisivo pubblico e privato .


Sulla base di queste affermazioni della Corte, sin dalla fine degli anni 70, una dottrina  ha ritenuto di poter riconoscere esistente nel nostro ordinamento un vero e proprio diritto soggettivo ad essere informati. In realtà, fin dal 1972 la Corte Costituzionale ha riconosciuto esistente un “interesse generale all'informazione, anch'esso indirettamente protetto dall'art. 21 Cost.” . Con una successiva sentenza, la Corte nuovamente affermava esistente, e tutelato implicitamente dall'art. 21 Cost., “un interesse generale della collettività all'informazione ”. 


Le linee-cardine fissate dalle sentenze emesse dal 1960 in poi hanno trovato un’ampia conferma in nella fondamentale sentenza 24 marzo 1993 n. 112, che dice:


“.....la libertà di manifestare il proprio pensiero ...ricomprende tanto il diritto di informare quanto il diritto ad essere informati (v., ad esempio, sentt. nn. 202 del 1976, 148 del 1981, 826 del 1988). L’art. 21....colloca la predetta libertà tra i valori primari, assistiti dalla clausola dell’inviolabilità (art. 2 Cost.), i quali, in ragione del loro contenuto, in linea generale si traducono direttamente e immediatamente in diritti soggettivi dell’individuo di carattere assoluto. Tuttavia, l’attuazione di tali valori fondamentali nei rapporti della vita comporta una serie di relativizzazioni, alcune delle quali derivano da precisi vincoli di ordine costituzionale, altre da particolari fisionomie della realtà nella quale quei valori sono chiamati ad attuarsi. Sotto il primo profilo, questa Corte ha da tempo affermato che il “diritto all'informazione” va determinato e qualificato in riferimento ai principi fondanti della forma di Stato delineata dalla Costituzione, i quali esigono che la nostra democrazia sia basata su una libera opinione pubblica e sia in grado di svilupparsi attraverso la pari concorrenza di tutti alla formazione della volontà generale. Di qui deriva l'imperativo costituzionale che il “diritto all'informazione” garantito dall'art. 21 sia qualificato e caratterizzato:


 a) dal pluralismo delle fonti cui attingere conoscenze e notizie - che comporta, fra l'altro, il vincolo al legislatore di impedire la formazione di posizioni dominanti e di favorire l'accesso nel sistema radiotelevisivo del massimo numero possibile di voci diverse - in modo tale che il cittadino possa essere messo in condizione di compiere le sue valutazioni avendo presenti punti di vista differenti e orientamenti culturali contrastanti;


b) dall'obiettività e dall'imparzialità dei dati forniti;


c) dalla completezza, dalla correttezza e dalla continuità dell'attività di informazione erogata;


d) dal rispetto della dignità umana, dell'ordine pubblico, del buon costume e del libero sviluppo psichico e morale dei minori”.


                       


Il “decalogo” della Cassazione.  I limiti del diritto di cronaca  sono stati fissati con la famosa sentenza n. 5259 del 18 ottobre 1984 della prima sezione civile della Corte di Cassazione meglio nota come sentenza-decalogo sulla libertà di stampa e quindi sul diritto di cronaca e di critica. Vengono codificati in una sorta di decalogo i criteri che i giornalisti devono rispettare per non incorrere nei rigori della legge. Chi si ritiene diffamato da un articolo può rivolgersi direttamente al giudice civile senza prima presentare una querela alla Procura della Repubblica nei confronti del giornalista autore dell'articolo contestato e del direttore responsabile della pubblicazione. Questi i principi fissati nella sentenza (Il Foro italiano, anno 1984, Vol. CVII, pagg. 2712-2722):


1) Non è affatto vero che l'esercizio del diritto di stampa (e quindi di cronaca e di critica), garantito dall'articolo 21 della Costituzione, non possa essere censurato se non in sede penale e, quindi, solo se e in quanto costituisca reato.


2) In altre parole può ben esservi un illecito civile che non sia anche penale, mentre il contrario non può mai verificarsi.


3) Il diritto di stampa (cioè la libertà di diffondere attraverso la stampa notizie e commenti), sancito in linea di principio dall’articolo 21 Cost. e regolata fondamentalmente nella legge 8 febbraio 1948 n. 47,  è legittimo quando concorrano le tre seguenti condizioni: a) utilità sociale dell'informazione; b) verità (oggettiva o anche soltanto putativa purché, in quest'ultimo caso, frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca) dei fatti esposti; c) forma "civile" dell'esposizione dei fatti e della loro valutazione>, cioè non eccedente rispetto allo scopo informativo da conseguire, improntata a serena obiettività almeno nel senso di escludere il preconcetto intento denigratorio e, comunque, in ogni caso rispettosa di quel minimo di dignità cui ha sempre diritto anche la più riprovevole delle persone, sì da non essere consentita l’offesa triviale o irridente i più umani sentimenti.


4) La verità dei fatti, cui il giornalista ha il preciso dovere di attenersi, non è rispettata quando, pur essendo veri i singoli fatti riferiti, siano  dolosamente o anche colposamente taciuti altri fatti tanto strettamente ricollegabili ai primi da mutarne completamente il significato.


5) La verità non è più tale se è "mezza verità" (o, comunque, verità incompleta). La verità incompleta deve essere, pertanto, in tutto equiparata alla notizia falsa. 


6) La forma della critica non è civile, non solo quando eccede lo scopo informativo da conseguire o difetta di serenità e di obiettività o, comunque, calpesta quel minimo di dignità cui ogni persona ha sempre diritto, ma anche quando non è improntata a leale chiarezza.


7) Lo sleale difetto di chiarezza sussiste quando il giornalista ricorre a uno dei seguenti subdoli espedienti nei quali sono ravvisabili in sostanza altrettante forme di offese indirette:


a) al sottinteso sapiente, cioè all'uso di determinate espressioni nella consapevolezza che il pubblico dei lettori le intenderà o in maniera diversa o addirittura contraria al loro significato letterale, ma comunque sempre in senso più sfavorevole nei confronti della persona che si vuol mettere in cattiva luce. Il più sottile e insidioso di tali espedienti è il racchiudere determinate parole tra virgolette allo scopo di far intendere ai lettori che esse non solo altro che eufemismi e che sono da interpretarsi in ben altro (e ben noto) senso da quello che avrebbero senza virgolette;


b) agli accostamenti suggestionanti di fatti che si riferiscono alla persona che si vuol mettere in cattiva luce con altri fatti riguardanti altre persone o con giudizi sempre negativi apparentemente espressi in forma generale ed estratta e come tali ineccepibili (come, ad esempio, l'affermazione "il furto è sempre da condannare") ma che, invece, per il contesto in cui sono inseriti, il lettore riferisce inevitabilmente a persone ben determinate.


c) al tono sproporzionatamente scandalizzato e sdegnato (specie nei titoli) o comunque all'artificiosa e sistematica drammatizzazione con cui si riferiscono notizie , perché insignificanti o comunque di scarsissimo valore sintomatico al solo scopo di indurre i lettori, specie i più superficiali, a lasciarsi suggestionare dal tono usato fino al punto di recepire ciò che corrisponde non tanto al contenuto letterale della notizia, ma quasi esclusivamente al modo della sua presentazione (classici sono a tal fine l'uso del punto esclamativo o la scelta di aggettivi sempre in senso negativo, ma di significato non facilmente precisabile o comunque sempre legato a valutazioni molto soggettive come, ad esempio, "notevole", “impressionante”, “strano”, “non chiaro”).


d) alle vere e proprie insinuazioni, anche se più o meno velate (la più tipica è certamente quella secondo cui: “non si può escludere che..." riferita a fatti dei quali non si riferisce alcun serio indizio) che ricorrono quando pur senza esporre fatti o esprimere giudizi apertamente si articola il discorso in modo tale che il lettore li prenda egualmente in considerazione denigrando la reputazione di un determinato soggetto.


Questa la massima tratta dalla sentenza n. 5259/1984 della Sezione I civile della Corte di Cassazione (Il Foro italiano, anno 1984, Vol. CVII, pag. 2712): .


Una decisione dei supremi giudici del 1997 merita un’attenzione particolare. Il giornalista, secondo la Cassazione,  deve  accertare la verità come lo storico: “L’esercizio del diritto di informazione garantito nel nostro ordinamento deve, ove leda l’altrui reputazione, sopportare i limiti seguenti: a) l’interesse che i fatti narrati rivestano per l’opinione pubblica, secondo il principio della pertinenza; b) la correttezza dell’esposizione di tali fatti in modo che siano evitate gratuite aggressioni all’altrui reputazione, secondo il principio della continenza; c) la corrispondenza rigorosa tra  i fatti accaduti e i fatti narrati, secondo il principio della verità: quest’ultimo comporta l’obbligo del giornalista (come quello dello storico) dell’accertamento della verità della notizia e il controllo dell’attendibilità della fonte” (Cass. pen., 5 maggio 1997, n. 2113 (ud. 29 gennaio 1997), in Rivista penale n. 10/1997, pag. 973)


 


Privacy: analisi del Codice di deontologia dei giornalisti.  Il 15 luglio 1998 il presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine dei Giornalisti ha consegnato all’Ufficio del Garante della privacy il testo definitivo del  . Il Codice, pubblicato il successivo 3 agosto sulla ,  è   diventato  “efficace” quindici giorni dopo.  Questo Codice, frutto di nove mesi di trattative tiratissime e che hanno sfiorato la rottura quando l’Ufficio del Garante  ha respinto il primo testo (vedi Ore> del 3 febbraio), costituisce un evento molto importante nella storia del giornalismo italiano per molteplici aspetti. Previsto dall'articolo 25 della legge n. 675/1996 sulla privacy, il Codice (- dice l’articolo 25 - prescrive eventuali misure e accorgimenti a garanzia degli interessati, che il Consiglio è tenuto a recepire>). ha già scritto il professor Stefano Rodotà, presidente dell’Ufficio del Garante - è una norma dell'ordinamento giuridico generale, e ad essa devono adeguarsi tutti coloro che esercitino funzioni informative mediante mezzi di comunicazione di massa; pertanto, il suo rispetto verrà garantito dai diversi organi pubblici ed ovviamente anche dall’Ordine per quanto riguarda le sanzioni disciplinari applicabili ai soli iscritti>. In nessuna parte del mondo un per giornalisti ha il vincolo della legge; generalmente la stesura è lasciata all’autogoverno della parte interessata. Ancora una volta ha vinto la tradizione romanistica, così legata alla codificazione. 


Escluse per i giornalisti  le sanzioni penali - Il  Codice di deontologia  abbraccia  il trattamento dei dati effettuato nell'esercizio dell’attività giornalistica e prevede misure ed accorgimenti a garanzia degli interessati rapportati alla natura dei dati in particolare per quanto riguarda quelli idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale. Le disposizioni della  legge sono vincolanti anche per i trattamenti temporanei finalizzati esclusivamente alla pubblicazione o diffusione “occasionale” di articoli, saggi e altre manifestazioni del pensiero. L’articolo 13 del Codice precisa che le norme si applicano ai giornalisti professionisti, pubblicisti e praticanti . Tutti coloro che si avvalgono del diritto di manifestazione del pensiero (articolo 21 della Costituzione e articolo 10 della legge  n. 848/1955 sulla  ), quindi anche i non-giornalisti, sono tenuti a rispettare le “regole” del Codice. Non a caso, quindi, il Codice deontologico è   (e non della come ha chiesto in un primo tempo il  Consiglio nazionale dell’Ordine).  Le sanzioni disciplinari (avvertimento, censura, sospensione  e radiazione dall’Albo), previste dalla legge sulla professione giornalistica n. 69/1963, . Le violazioni in sostanza sono sanzionate, per quanto riguarda i giornalisti, soltanto in via disciplinare.


I giornalisti, quindi, non soggiacciono alle sanzioni penali o amministrative stabilite da sei articoli (34-39) della legge n. 675/1996 sulla privacy. Le violazioni delle norme sulla privacy fissate nel Codice potranno comportare, come detto, un’eventuale sanzione disciplinare e anche un risarcimento del danno, ma non potranno avere, come tali, riflessi penali, se non nel caso in cui sfocino in una lesione penalmente rilevante della dignità e dell’identità personale dei cittadini protagonisti di fatti di cronaca.


Il ruolo dei Consigli dell’Ordine dei Giornalisti e i riflessi del Codice - La legge sulla privacy e il relativo Codice accentuano così il ruolo di "giudice disciplinare" dei Consigli regionali e del  Consiglio nazionale dell’Ordine. Questi enti sono stati trasformati dalla Corte costituzionale (con la sentenza n. 505/1995) in veri e propri giudici amministrativi (con tutti i risvolti legati al rispetto delle procedure fissate dalla legge professionale n. 69/1963, dalla legge n. 241/1990 sulla trasparenza amministrativa e dal Codice di procedura civile). I Consigli sono già  “giudici disciplinari”  in base all’articolo 115 (comma 2) del  Cpp nei casi in cui i giornalisti violano il divieto posto dall’articolo 114 (comma 6) del Cpp, pubblicando le generalità e le immagini dei minorenni .


La legge istitutiva dell’Ordine dei Giornalisti con le sue regole etiche e la legge sulla privacy  con il connesso Codice di deontologia - con le garanzie accordate da entrambe al segreto professionale - formano un sistema inscindibile, che, nel garantire la libertà di critica e di informazione, concretizza, tutelandone l'attuazione, il principio sancito dall'articolo 21 della Costituzione. Si ritiene che qualora, come nel caso di specie, una legge ordinaria disponga misure concrete di tutela ed attuazione delle libertà di rilievo costituzionale (come la libertà di informazione), sia, per ciò stesso, da ritenersi ''costituzionalmente vincolata” (sentenza 16/1978 della Corte costituzionale) e, quindi, non  esposta al rischio di referendum. L’articolo 1 del Codice - un vero e proprio “manifesto” programmatico - contiene un esplicito  richiamo all’articolo 21: <1. Le presenti norme sono volte a contemperare i diritti fondamentali della persona con il diritto dei cittadini all’informazione e con la libertà di stampa.


2. In forza dell'art. 21 della Costituzione, la professione giornalistica si svolge senza autorizzazioni o censure. In quanto condizione essenziale per l'esercizio del diritto-dovere di cronaca, la raccolta, la registrazione, la conservazione e la diffusione di notizie su eventi e vicende relative a persone, organismi collettivi, istituzioni, costumi, ricerche scientifiche e movimenti di pensiero, attuate nell'ambito dell'attività giornalistica e per gli scopi propri di tale attività, si differenziano nettamente per la loro natura dalla memorizzazione e dal trattamento di dati personali ad opera di banche‑dati o altri soggetti. Su questi principi trovano fondamento le necessarie deroghe previste dai paragrafi 17 e 37 dell'art. 9 della Direttiva 95/46/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio dell'Unione Europea del 24 ottobre l995 e dalla legge n. 675/96>.


Non è casuale che l’articolo 1 del Codice richiami l’articolo 21 della Costituzione. Quel richiamo significa che c’è un interesse della collettività (già sottolineato dalle sentenze n. 11/1968 e n. 71/1991 della Corte costituzionale) al “corretto” svolgimento dell'importante attività della comunicazione multimediale attraverso la vigilanza di un (l’Ordine, concepito come giudice disciplinare)  chiamato a valutare il comportamento dei singoli giornalisti in rapporto a un Codice di condotta voluto dal Parlamento nazionale e dal Parlamento europeo. Oggi pertanto,  in contrasto con la sentenza n. 38/1997 della Corte costituzionale che ha riconosciuto legittimo il referendum, l’esistenza di un Codice deontologico (vincolante per legge nei confronti di tutti i cittadini, giornalisti e non giornalisti) appare  , perché il Codice stesso, infatti, favorisce “direttamente” l'esercizio del  (art. 21 della Costituzione). Il Codice non è un “frammento” della normativa sull’attività giornalistica, ma è si avvia a diventare il “cuore” del sistema  giuridico dettato a protezione del diritto del cittadino a tutelare la sua immagine  da una informazione multimediale che, - senza quel Codice il quale attua concretamente i principi etici fissati nella legge istitutiva dell’Ordine -, sarebbe  disancorata da regole di comportamento e quindi dai valori fissati dall’articolo 2 della Costituzione a  salvaguardia della dignità della persona.


Così, con la pubblicazione del Codice, l’Ordine dei Giornalisti guadagna punti rilevanti sul terreno della legittimità della sua esistenza. La riforma della professione è sulla dirittura d’arrivo dopo la trasformazione (vedi 4 luglio 1998)  del in disegno di legge. Questo progetto non dice quali Ordini sopravviveranno come tali e quali saranno trasformati in Associazioni professionali.. Si sostiene che hanno ragioni “costituzionali” di esistere gli Ordini dei medici, degli avvocati e dei notai, cioè gli Ordini che tutelano consolidati interessi  generali. Oggi si può dire che anche l’Ordine dei Giornalisti - che ha, comunque, bisogno di profonde riforme soprattutto in tema di accesso, formazione e composizione degli organi destinati ad adottare le decisioni disciplinari - ha dalla sua valide . La Corte costituzionale ha già sottolineato (sentenze n.11 e n. 98 del 1968; n. 2 del 1977). Appare consequenziale l’affermazione (contenuta nell’articolo 6.3 del  Codice) che .


Il confronto tra il Consiglio nazionale e l’Ufficio del Garante aveva un percorso obbligato segnato  dal rispetto delle norme che già pongono precisi limiti a tutela della riservatezza. Ad esempio, le disposizioni contro le interferenze illecite nella vita privata (art.  615 bis  Cp) o a tutela delle vittime degli atti di violenza sessuale (art 734 bis  Cp), dei minori coinvolti nei procedimenti penali (articoli 114, comma 6, del Cpp e 13  del Dpr 448/1988) e dei malati di Aids (art.  5  della legge 135/1990), oppure al divieto di interferenze arbitrarie e illegali nella vita dei fanciulli (articolo 16 della legge n. 176/1991 che ingloba la Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia). Il  Codice tenta un difficile compromesso tra diritto di cronaca e diritto della persona alla tutela della sua identità e della sua riservatezza nello spirito dell’articolo 1 della legge n. 675/1996 (). Questi i passaggi centrali del Codice.


Banche-dati di uso redazionale e tutela degli archivi personali dei giornalisti -  Il giornalista che raccoglie notizie ha l’obbligo di e dovrà evitare artifici e pressioni indebite.


Quando i dati personali sono raccolti presso banche‑dati di uso redazionale, le imprese editoriali sono tenute a rendere noti al pubblico, mediante annunci, almeno due volte l'anno, l'esistenza dell'archivio e il luogo dove è possibile esercitare i diritti previsti dalla legge n. 675/96 (i cittadini hanno diritto a conoscere e a “correggere” tutto ciò li riguarda e che viene conservato sulla propria persona). I quotidiani e i periodici dovranno indicare nella gerenza i responsabili del trattamento o, comunque, le persone alle quali i cittadini possono rivolgersi per esercitare i propri diritti. Gli archivi personali dei giornalisti, ,  sono tutelati, per quanto concerne le fonti delle notizie, dal segreto professionale (articoli 2, comma 3, della legge n. 69/1963 e 13, ultimo comma, della legge n. 675/1996). Il giornalista può conservare i dati raccolti per tutto il tempo necessario al perseguimento delle finalità proprie della sua professione.


Tutela del domicilio - La tutela del domicilio e degli altri luoghi di privata dimora si estende ai luoghi di cura, detenzione o riabilitazione, . Nessuno può essere, ad esempio, fotografato (ricorrendo anche ai teleobiettivi) mentre è in casa propria, in  ospedale o in carcere. L’editore di una rivista milanese è stato condannato a pagare 200 milioni a un personaggio televisivo colto  dall’obiettivo  mentre prendeva il sole sul terrazzo di casa. L’Ufficio del Garante ha già condannato .


Rettifica -  . Ciò significa  che  le rettifiche sono pubblicate in testa di pagina, collocate nella stessa pagina che ha riportato la notizia cui si riferiscono, contenute entro il limite di trenta righe, con le medesime caratteristiche tipografiche. Quotidiani e periodici, in caso di inottemperanza, sono esposti più di ieri anche a rischi di risarcimento dei danni. La rettifica era già, per il giornalista, un dovere (articolo 2, comma 2, della legge n. 69/19639 e un obbligo giuridico (articolo 8 della legge n. 47/1948)..


Diritto all’informazione e dati personali -  Nel raccogliere dati personali  (atti a rivelare origine razziale ed etnica, convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, opinioni politiche, adesioni a partiti, sindacati, associazioni o organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, nonché dati atti a rivelare le condizioni di salute e la sfera sessuale), il giornalista garantisce il diritto all'informazione su fatti di interesse pubblico, nel rispetto dell’essenzialità dell’informazione, evitando riferimenti a congiunti o ad altri soggetti non interessati ai fatti. Il giornalista, quindi, è tenuto a informare sui , limitando le cronache agli stretti protagonisti dei  fatti medesimi.


Essenzialità dell’informazione -  La sfera privata non è protetta quando la divulgazione di notizie di rilevante interesse pubblico o sociale  sia indispensabile in presenza di un avvenimento originale o particolare, nonché della qualificazione dei protagonisti. La sfera privata delle persone note o che esercitano funzioni pubbliche dovrà essere rispettata se le notizie o i dati non hanno alcun rilievo sul loro ruolo o sulla loro vita pubblica. Il pettegolezzo, insomma, è proibito. Questa “regola”, è prevedibile, darà luogo a decine di interpretazioni anche contrastanti. Appare, però, opportuno spiegarsi con un esempio. Continuano ad apparire sulle testate giornalistiche, ed in taluni casi su quelle televisive, nel corpo di articoli che descrivono eventi e fatti di cronaca, notizie che nulla hanno a che vedere con la descrizione dell’evento stesso e nulla aggiungono alla comprensione dell’ambiente in cui l’evento è maturato. Spesso tali notizie toccano aspetti della vita del soggetto protagonista dell’evento ai quali la legge sulla privacy assicura una particolare tutela. L’episodio più emblematico riguarda una notizia sul ritrovamento del corpo di un imprenditore di Torino. La notizia era stata arricchita da informazioni relative, oltre che all’iscrizione dell’imprenditore a un circolo sportivo, anche all’iscrizione dello stesso a un partito politico, dato quest’ultimo definito "sensibile" dalla legge 675. Tali ultimi particolari erano del tutto irrilevanti ai fini della notizia. Il concetto dell’essenzialità della notizia implica, quindi, la non pubblicazione di informazioni "estranee" o "marginali" rispetto all’evento al centro dell’articolo di cronaca.


Tutela del minore - In linea con il Cpp e con le norme sul processo minorile è vietato pubblicare i nomi ( e le immagini) dei minori coinvolti in fatti di cronaca e fornire particolari in grado di condurre alla loro identificazione. La tutela della personalità del minore si estende, tenuto conto della qualità della notizia e delle sue componenti, ai fatti che non siano specificamente reati. Il diritto del minore alla riservatezza (articolo 16 della Convenzione internazionale del fanciullo recepita nel nostro ordinamento con la legge n. 176/1991) deve essere sempre considerato come primario rispetto al diritto di critica e di cronaca. Su questa linea è anche la giurisprudenza (caso Cruz): ichiesto di un provvedimento urgente ex art. 700 Cpc a tutela della privacy e dell'immagine di un minore, il giudice, in sede di accertamento del fumus boni iuris e del periculum in mora, deve considerare pozione la protezione della personalità minorile, rispetto all'esercizio del diritto all'informazione, allorché quest'ultimo abbia a svolgersi con la pubblicazione diffusa e la divulgazione incontrollata dell'immagine del minore, balzato, non per sua volontà, alla notorietà della cronaca nazionale a seguito di vicende giudiziarie di carattere familiare (adottivo) a lui facenti capo (il minore, appena treenne e proveniente dal c.d.Terzo mondo asiatico, era stato tallonato, anche a scuola, con assiduità da fotografi e reporters collegati a mass-media di larghissima diffusione)> (Pret. Torino-Chieri, 19 dicembre 1989, Dir. Famiglia , 1990, 572).


Qualora, tuttavia, per motivi di rilevante interesse pubblico e fermo restando i limiti di legge, il giornalista decida di diffondere notizie o immagini riguardanti minori, dovrà farsi carico della responsabilità di valutare se la pubblicazione sia davvero nell'interesse oggettivo del minore, secondo i principi e i limiti stabiliti dalla “Carta di Treviso”. Secondo la Carta, la pubblicazione nell'interesse del minore presuppone, comunque, l'assenso dei genitori, ed è limitata . .


Tutela della dignità della persona -  E’ vietato fornire notizie o pubblicare immagini o fotografie di soggetti coinvolti in fatti di cronaca lesive della dignità della persona; soffermarsi su dettagli di violenza. Le eccezioni sono giustificate con la rilevanza sociale della notizia o dell’immagine. L’articolo 15 della legge sulla stampa n. 47/1948 vieta di descrivere e  illustrare gli avvenimenti (anche soltanto immaginari) con particolari  .


Il giornalista non riprende né produce immagini e foto di persone in stato di detenzione senza il consenso dell'interessato. Le eccezioni sono collegate a rilevanti motivi di interesse pubblico o a comprovati fini di giustizia e di polizia (si pensi alla ricerca di evasi o di autori di crimini a sfondo sessuale, che possono ancora colpire). Le persone non possono essere presentate con ferri o manette ai polsi, salvo che ciò sia necessario per segnalare abusi. La legge n. 492/92  vieta, (salvo nei casi di pericolosità del soggetto o di pericolo di fuga o di circostanze che rendano difficile la traduzione), l'uso delle manette ai polsi. L’Ufficio del Garante ha anche condannato foto segnaletiche degli arrestati. La raccolta di tali particolari informazioni personali - afferma il Garante - è finalizzata unicamente ad esigenze di sicurezza pubblica e di giustizia. La loro comunicazione ai mezzi di informazione fuori di tali finalità, non è più permessa dopo l'entrata in vigore della legge 675/96, che esplicitamente qualifica come "dato personale" qualsiasi informazione che consenta di identificare un soggetto, quindi anche le fotografie>. Il diritto all’immagine “pur non essendo specificamente indicato dalla Costituzione deve ricondursi a quei diritti fondamentali dell’uomo, in quanto esso protegge un aspetto di quella intimità (privacy) che è ormai reputata un valore primario della persona” (Pret. Napoli, 19.5.1989).


Tutela del diritto alla non discriminazione - Il giornalista è tenuto a rispettare il diritto della persona alla non discriminazione per razza, religione, opinioni politiche, sesso, condizioni personali, fisiche o mentali. L’uguaglianza giuridica sancita dall’articolo 3 della Costituzione opera anche sul terreno del diritto di cronaca.


Tutela della dignità delle persone malate -  Il giornalista, nel far riferimento allo stato di salute di una determinata persona, identificata o identificabile, ne rispetta la dignità, il diritto alla riservatezza e al decoro personale, specie nei casi di malati gravi o terminali, e si astiene dal pubblicare dati analitici di interesse strettamente clinico. La pubblicazione è ammessa, nell'ambito del perseguimento dell'essenzialità dell’informazione e sempre nel rispetto della dignità della persona, se questa riveste una posizione di particolare rilevanza sociale o pubblica. Le foto di Pio XII morente o della principessa Diana agonizzante sono impubblicabili perché feriscono la e perché anche ai fini della descrizione degli avvenimenti. Quelle foto sono anche impubblicabili in quanto presentano (divieto posto dall’articolo 15 della legge sulla stampa n. 47/1948).


Tutela della sfera sessuale personale - Non possono essere descritte le abitudini sessuali riferite ad una determinata persona, identificata o identificabile. La pubblicazione è ammessa, nell'ambito del perseguimento dell'essenzialità dell’informazione e nel rispetto della dignità della persona, se questa riveste una posizione di particolare rilevanza sociale o pubblica. In sostanza è “nudo” chi occupa posti di responsabilità politica, oppure nell’amministrazione statale, oppure  nella società civile.


Tutela del diritto di cronaca nei procedimenti penali -  Al trattamento dei dati relativi a procedimenti penali non si applica il limite previsto dall'art. 24  della legge n. 675/96. I giornalisti possono raccontare quello che risulta scritto nel Casellario giudiziale a carico di ogni persona:  sentenze di condanna, ordini di carcerazione, misure di sicurezza, provvedimenti definitivi che riguardano l’applicazione delle misure di prevenzione della sorveglianza speciale, dichiarazione di abitualità o professionalità nel reato o di tendenza a delinquere. Il diritto di cronaca vince in maniera ampia.


Per quanto riguarda il campo sessuale o quello delle malattie, il Codice tutela in maniera rigida le persone comuni, ma non i personaggi pubblici, ubbidendo a questa massima giurisprudenziale: “Chi ha scelto la notorietà come dimensione esistenziale del proprio agire, si presume abbia rinunciato a quella parte del proprio diritto alla riservatezza direttamente correlata alla sua dimensione pubblica” (Tribunale di Roma, 13 febbraio 1992, in Dir. Famiglia, 1994, I, 170, n. Dogliotti, Weiss). È indubbio che, per quanto concerne la tutela dell’identità, la riduzione totale è inammissibile anche per i personaggi pubblici. Chi ha deciso di mettersi in politica ha, comunque, una sfera di salvaguardia molto più limitata rispetto all’uomo della strada. Le nuove regole sembrano ispirate dal concetto americano di “etica pubblica”, riservando “un’attenuata riservatezza per i personaggi politici e i pubblici funzionari sui quali il cittadino ha sempre diritto di essere informato”. In dottrina si ritiene, infatti, che l’esercizio del  <diritto di cronaca può essere tanto più penetrante quanto più elevata sia la posizione pubblica della persona nelle istituzioni, nel mondo politico, in quello economico o scientifico, nella collettività, per il riflesso che le sue condotte anche private possono assumere sulla sua dimensione pubblica> (M. Polvani, La diffamazione a mezzo stampa, Cedam, Padova 1995, 108).


Se, da una parte, “l’uomo pubblico” non può sottrarsi ad una verifica (anche lesiva della reputazione) cronachistica e/o critica del suo operato, dall’altra, l’esigenza di un maggiore conoscenza della persona nota <non può identificarsi nella morbosa curiosità che parte del pubblico ha per le vicende piccanti o  scandalose, svoltesi nella intimità della casa della persona assurta a notorietà> (Cass. 27.5.1975,  n. 2129, in Foro it., 1976, I, 2895).


Per quanto concerne la pubblicazione di notizie attinenti la condotta di un magistrato, é stato osservato che <anche la conoscenza di comportamenti tenuti in privato (...) può rivestire il carattere della utilità sociale qualora i comportamenti stessi siano idonei a valere come indice di valutazione rispetto all’esercizio della funzione esplicata dal soggetto medesimo> (Cass., 23.4.1986, Emiliani, in Giust. pen., 1987, II, 699).


A distanza di quasi 30 mesi dall’entrata in vigore (8 maggio 1997) della legge sulla privacy, grazie al lavoro dell’Ufficio del Garante, l’Italia è cambiata in meglio sul fronte delle tutela dei diritti dei cittadini alla riservatezza. Ed è destinata a subire mutamenti profondi nel campo dell’informazione. A patto che i giornalisti si rendano conto di questa semplice verità: il diritto all’informazione non è un diritto esclusivo dei giornalisti stessi ma è  un diritto soprattutto dei cittadini. Che vanno rispettati come persone. E’ vero quello che ripete da decenni Indro Montanelli: . L’affermazione dei principi del Codice dipenderà anche dalla capacità dei Consigli dell’Ordine di sanzionare chi sgarra. Ma questo è un altro discorso, che sconfina nella riforma degli  Ordini e in particolare di quello dei giornalisti.


 


Divieto di stampare le foto degli arrestati.  Basta con la pubblicazione di fotografie di persone arrestate (in manette e senza manette). Lo ha deciso il 16 giugno la Commissione Giustizia del Senato, riunita  in sede referente, approvando, con un  voto chiaramente trasversale e con la maggioranza spaccata, un emendamento di Luigi Follieri (Ppi) nell’ambito del provvedimento sul giudice unico monocratico (atto Senato 3897). L’emendamento, che modifica l’articolo 114 Cpp, ha avuto 11 voti a favore e 9 contrari. In pratica se questo emendamento dovesse essere approvato definitivamente dalla Camera,  tg,  quotidiani e periodici non potranno più corredare i loro servizi con fotografie e riprese televisive di persone colpite da misure restrittive della libertà personale, divieto che rimarrà in vigore fino alla liberazione delle persone arrestate. Hanno protestato gli editori (Fieg) e i giornalisti sia attraverso il sindacato (Fnsi) e sia attraverso l’Ordine.  ''L'approvazione di una norma che vieta la pubblicazione di ogni immagine di persone colpite da misure di restrizione della libertà personale rappresenta - dice la Fieg - un gravissimo attacco al diritto di cronaca''. ''E' paradossale - continua la Fieg - che i soggetti colpiti da provvedimenti di restrizione della libertà personale godano di una tutela maggiore di tutti gli altri soggetti: Se la norma approvata diventasse legge, la foto della stessa persona potrebbe essere pubblicata fino a quando la persona non è arrestata, mentre dal momento in cui la persona è arrestata e per tutto il periodo in cui la restrizione continua, i giornali potrebbero solo citarne il nome, ma non pubblicarne l'immagine. Ancora una volta il conflitto tra la tutela dei singoli ed il diritto di tutti ad informare ed essere informati verrebbe risolto in modo assolutamente sbilanciato, restringendo in misura abnorme un diritto garantito dalla Costituzione''.


''Un grave attentato alla libertà di cronaca''. Così  l'Ordine nazionale dei giornalisti definisce l’emendamento Follieri, mentre la Fnsi (Federazione nazionale della Stampa italiana) denuncia il ''gravissimo tentativo di limitare la libertà di stampa negando la pubblicazione delle immagini relative a persone colpite da misure di restrizione della libertà personale''.   ''La voglia di mettere le manette all'informazione - è detto in una nota - è arrivata fino al punto di negare la possibilità di pubblicare perfino immagini antecedenti all'arresto e dunque in nulla lesive della dignità personale. In questo caso non è in discussione la giustizia spettacolo, contro la quale anche i giornalisti italiani si sono dati norme di severa autoregolamentazione. Provvedimenti come quello approvato dalla commissione Giustizia del Senato hanno solo il sapore di un attacco indiscriminato all'informazione''.  ''I giornalisti italiani - conclude la nota - invitano i presidenti del Senato e della Camera e le forze politiche ad adoperarsi immediatamente per la cancellazione di questa pericolosa norma''.


Esiste già il divieto di pubblicare foto di persone in ceppi - L’articolo 8 (Tutela della dignità delle persone) del Codice di deontologia sulla privacy, norma di rango secondario, impegna in maniera tassativa “il giornalisti  a non pubblicare immagini o fotografie a di soggetti coinvolti in fatti di cronaca lesive della dignità della persona e a non soffermarsi su dettagli di violenza, a meno che ravvisi la rilevanza sociale della notizia o dell'immagine. Salvo rilevanti motivi di interesse pubblico o comprovati fini di giustizia e di polizia, il giornalista - dice ancora l’articolo 8 - non riprende né produce immagini e foto di persone in stato di detenzione senza il consenso dell'interessato.  Le persone non possono essere presentate con ferri o manette ai polsi, salvo che ciò sia necessario per segnalare abusi”. La legge n. 492/92  vieta, (salvo nei casi di pericolosità del soggetto o di pericolo di fuga o di circostanze “di ambiente” che rendano difficile la traduzione), l'uso delle manette ai polsi. L’Ufficio del Garante della privacy ha  censurato il 2 luglio 1997 foto segnaletiche degli arrestati. La raccolta di tali particolari informazioni personali - afferma il Garante - è finalizzata unicamente ad esigenze di sicurezza pubblica e di giustizia. La loro comunicazione ai mezzi di informazione fuori di tali finalità, non è più permessa dopo l'entrata in vigore della legge n. 675/96, che esplicitamente qualifica come "dato personale" qualsiasi informazione che consenta di identificare un soggetto, quindi anche le fotografie>.


La legge n. 492/92 è figlia delle proteste collegate alla traduzione in catene del giornalista Enzo Carra (coinvolto negli arresti di Tangentopoli) nel Palazzo di Giustizia di Milano. L’articolo 2 (comma 4) dispone, inoltre, che “sono adottate le opportune cautele per proteggere i soggetti tradotti dalla curiosità del pubblico e da ogni specie di pubblicità, nonché per evitare ad essi inutili disagi”. Anche nel giugno 1983 si erano levate proteste per l’esposizione” del giornalista Enzo Tortora in manette nel cortile di un caserma dei carabinieri di Milano.


Codice Civile, legge sul diritto d’autore, legge sulla privacy e tutela dell’immagine - La legge sulla privacy  non annulla un’altra legge centrale dell’ordinamento giuridico, la n. 633 del 1941 sul diritto d’autore. L’articolo 97 di questa legge afferma: “Non occorre il consenso della persona ritratta quando la riproduzione dell’immagine è giustificata dalla notorietà o dall’ufficio pubblico coperto, da necessità di giustizia o di polizia, da scopi scientifici, didattici o culturali, o quando la riproduzione è collegata a fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico”. Sul risvolto di tale norma si suole articolare l’ampiezza del diritto di cronaca: si può pubblicare tutto ciò che è pubblico, svoltosi in pubblico o che riguardi personaggi pubblici. Nel concetto di pubblicazione lecita è compresa anche la fotografia dei personaggi pubblici o protagonisti di fatti pubblici o di interesse pubblico.


La disciplina del diritto all’immagine è ricavabile dall’articolo 10 del Codice civile  e dagli articoli 96 e 97 della  legge 22 aprile 1941 n. 633 sul diritto d’autore. L’articolo 10 Cc fissa l’illiceità dell’esposizione o della pubblicazione dell’immagine di una persona fuori dei casi consentiti dalle leggi o comunque con pregiudizio al decoro o alla reputazione della persona stessa. Gli articoli 96 e 97 della legge sul diritto d’autore precisano, come già riferito, che il ritratto di una persona non può essere esposto, riprodotto o messo in commercio senza il consenso di questa, salvo che la riproduzione sia giustificata dalla notorietà o dall’ufficio pubblico coperto, da necessità di giustizia o di polizia, da scopi scientifici, didattici o culturali, o quando la riproduzione sia collegata a fatti di interesse pubblico o svoltisi in pubblico. Il  diritto all’immagine “pur non essendo specificamente indicato dalla Costituzione, deve ricondursi a quei diritti fondamentali dell’uomo, in quanto esso protegge un aspetto di quella intimità (privacy) che è ormai reputata un valore primario della persona” (Pret. Napoli, 19 maggio 1989). Il diritto all’immagine, che rientra nei diritti della personalità,  ha per oggetto ciò che è stato catalogato come “il segno distintivo essenziale, volto a rappresentare le sembianze, l’aspetto fisico del soggetto nonché l’espressione, il modo di essere della personalità nel suo complesso” (Pret. Roma 15 novembre 1986). Il concetto di immagine viene visto dai giudici in strettissima connessione con il diritto della “identità personale”:  “Il diritto all’identità personale protegge il diritto di ciascuno a non vedersi all’esterno alterato, travisato, offuscato, contrastato con il proprio patrimonio intellettuale, politico, sociale, religioso, ideologico, professionale ecc., quale si era estrinsecata o appariva in base a circostanze concrete ed univoche, destinato ad estrinsercarsi nell’ambiente sociale” (Cass. 22 giugno 1985 n. 3759). La disciplina dettata dal Codice civile e dalle legge sul diritto d’autore configura l’immagine come un diritto assoluto che importa il divieto a carico dei terzi di esporre o pubblicare il ritratto altrui, a meno che non ricorrano le scriminanti del consenso dell’interessato, della notorietà della persona effigiata e, infine, dei fatti di interesse pubblico o svoltisi in  pubblico.


Le pronunce dell’Ufficio del Garante della privacy - L’Ufficio del Garante della privacy ha iniziato ad operare il 9 maggio 1997 e subito, il 2 luglio, come ricordato, si  è occupato del problema della pubblicazione di foto segnaletiche di persone tratte in arresto. Il professor Ugo De Siervo, componente dell’Ufficio del Garante, è tornato il 9 settembre successivo sull’argomento: "Anche negli ultimi giorni, telegiornali e quotidiani hanno più volte pubblicato o trasmesso foto segnaletiche di persone che erano state fermate o arrestate. Foto che sono state evidentemente fornite ai giornalisti da componenti di diversi corpi di polizia, in palese contrasto con un'esplicita presa di posizione del Garante per la protezione dei dati personali, che il 2 luglio scorso ha invitato le autorità preposte ai corpi di polizia a prendere atto che “la raccolta di tali particolari informazioni personali, è finalizzata unicamente ad esigenze di sicurezza pubblica e di giustizia. La loro comunicazione ai mezzi di informazione fuori di tali finalità, non è più permessa dopo l'entrata in vigore della legge n. 675/1996, che esplicitamente qualifica come "dato personale" qualsiasi informazione che consenta di identificare un soggetto, quindi anche le fotografie”. A questo proposito, occorre allora ribadire che la trasmissione di foto segnaletiche ai mezzi di informazione, senza il consenso degli interessati, è ammissibile solo per comprovabili necessità di indagine di polizia o di giustizia. Ciò era già scritto nell'articolo 97 della vecchia legge del 1941 sul diritto di autore (norma spesso non rispettata), ma adesso è subentrata anche la legge n. 675 del 1996; questa legge tutela che anche le riproduzioni fotografiche delle persone debbano avvenire “nel rispetto dei diritti, delle libertà fondamentali, nonché della dignità delle persone fisiche, con particolare riferimento alla riservatezza e all'identità personale”. Sembra evidente che non costituisce legittimo esercizio del diritto di cronaca la riproduzione, contro la volontà dell'interessato, di fotografie fatte forzosamente da organi di polizia per fini di documentazione e di indagine e diffuse senza che sussistano specifiche esigenze di interesse pubblico. Nel ricorrente dibattito sui limiti etici e giuridici, del diritto di cronaca, occorrerebbe farsi carico anche della necessità di non arrecare danni, spesso irreparabili, a persone semplicemente indagate od imputate, riproducendo, senza il loro consenso, loro fotografie destinate a fini del tutto particolari".


Il diritto all’oblio riguarda anche le immagini - Il giornalismo è attualità. Sotto questo profilo non si possono pubblicare notizie e immagini di una persona condannata 30 anni fa e che si è reinserito nella società dopo aver espiato la pena. Si va affermando negli ultimi anni il diritto all’oblio come diritto della persona. Citiamo una interessante massima giurisprudenziale al riguardo: “La ripubblicazione, dopo circa 30 anni dall’accaduto, di un grave fatto di cronaca nera, con fotografia del reco confesso, a fini di mera promozione commerciale, costituisce diffamazione a mezzo stampa trattandosi di notizia pubblica di pubblico interesse e per ciò inidonea ad integrare gli estremi del legittimo esercizio del diritto di informazione e di cronaca”  (Tribunale di Roma, 15 maggio 1995). Questa sentenza nasce dalla pubblicazione, nell’ambito di un gioco promozionale a premi, della prima pagina dell’edizione del del 6 dicembre 1961, ove, accanto alla notizia facente parte del gioco, appariva anche la fotografia del ricorrente con il titolo . Il ricorrente, che ha pagato il debito con la giustizia, ha  - questo il senso della sentenza - diritto all’oblio.


L’emendamento Follieri in effetti  va al di là della legge n. 492/1992 e del Codice di deontologia sulla privacy: Vieta la pubblicazione di qualsiasi foto della persona arrestata,  scattata anche anni prima dell’arresto. E si pone pertanto in  netto e chiaro contrasto con l’articolo 97 della legge sul diritto d’autore, ponendo un limite ingiustificato al diritto di cronaca.


                                    


Delitto Marta Russo e cronaca giudiziaria. Il 1° giugno 1999 la Corte d’Assise di Roma  ha tirato il sipario sul primo atto del processo per l’assassinio di Marta Russo avvenuto il 9 maggio 1997 in un vialetto dell’Università “La Sapienza” di Roma, condannando Giovanni Scattone (accusato di aver premuto il grilletto di una pistola calibro 22) a sette anni di reclusione per omicidio colposo e Salvatore Ferraro a quattro anni per favoreggiamento personale. Scattone e Ferraro sono colpevoli, ma non di omicidio volontario come aveva chiesto la pubblica accusa. Restano, comunque, ombre, dubbi e perplessità. Appare almeno assurdo e sconcertante che dentro una Università italiana qualcuno abbia puntato una pistola contro una studentessa e che abbia sparato per gioco, senza un movente. Opinione pubblica divisa, come è accaduto in passato in altre vicende di sangue e di misteri, sulle responsabilità degli imputati. Il mondo politico si è interrogato sull’opportunità di ammettere la tv nell’aula di giustizia dove si è celebrato il processo. Polemiche anche sul processo “parallelo” sulla tv pubblica, fatto dopo la lettura della sentenza. Il ministro di Giustizia, Oliviero Diliberto, ha tuonato: “Bisogna riportare  la giustizia nelle aule, non in televisione. E’ intollerabile che si sia rifatto il processo sul piccolo schermo”. Ma il pensiero dei giudici al riguardo è di diverso avviso: “Non è lesiva del diritto alla riservatezza una trasmissione televisiva che si propone di dibattere su un grave fatto di cronaca nera, qualora in ordine allo stesso sussista l'interesse pubblico alla più approfondita conoscenza da parte della collettività; la ricostruzione degli eventi sia fedele e rigorosa; la forma non sia eccedente rispetto allo scopo di riesaminare in modo critico e sereno i fatti accertati dall'autorità giudiziaria”  (Pret. Roma, 23 novembre 1992, Baldini c. Rai-Tv, Dir. Inf., 1993, 689).


Frattanto Giovanni  Valentini ha ricostruito il delitto in una controinchiesta di taglio giornalistico, avvincente (promette) come un “legal thriller” (“Il mistero delle Sapienza”), edito da  Baldini&Castoldi (182 pagine, £ 24mila).


Ondeggiante l’atteggiamento della stampa dopo il delitto. In un primo tempo Ferraro e Scattone sono stati indicati come “colpevoli e basta”, autori di un “delitto perfetto” studiato nelle aule della  Sapienza. I giornali pencolano tra la tesi dell’omicidio colposo e quella dell’omicidio volontario. “Sbatti il mostro in prima pagina” non è solo un film di 25 anni fa, ma è un atteggiamento mentale che si ripete quando giornali, radio e  tv  trattano  un fatto di sangue e sesso oppure di sangue e misteri (come l’omicidio della Sapienza). Il fondamento dell’accusa riposa sulla gestione, da parte dei due presunti killer, di alcuni seminari di logica giuridica, improntati alla precostituzione delle modalità esecutive del  “delitto perfetto”: in difetto di uno degli elementi indizianti (arma, movente, presenza), questa la loro tesi, non può esservi condanna.  In sostanza, secondo l’accusa, gli imputati avrebbero voluto freddamente uccidere “in una sorta di delirio superomistico d’ispirazione nicciana”. I giornalisti  generalmente, quando hanno fretta, ingoiano tutto ciò che inquirenti compiacenti passano e soffiano. Proviamo a leggere  i titoli apparsi sulle prime pagine dopo l’arresto dei due assistenti universitari: “Marta, tre colpevoli senza movente” (il terzo uomo è il bibliotecario Francesco Liparota, ndr); “E’ sicuro, hanno sparato per uccidere”; “E’ stato un docente a uccidere Marta”; “Uccisa Marta sono andati a festeggiare”; “L’usciere confessa: così fu uccisa Marta”. “I giornali, si sa, sono posseduti dal demone dell’urgenza” commenta Antonio Padellaro (“L’Espresso”, 25 febbraio 1999). Nel comportamento dei giornali e dei giornalisti non  c’è traccia degli ammonimenti dei giudici: “L'interesse  pubblico  alla  conoscenza  immediata di fatti di grande rilievo  sociale  quali  la  perpetrazione di gravi reati deve essere conciliato  con  il  principio  costituzionale  di  non colpevolezza; pertanto  ogni  notizia  idonea  ad  indurre  l'opinione  pubblica ad attribuire,  prima  della  condanna,  un  reato  ad una persona deve, per  essere  lecitamente  pubblicata,  rispondere  ai requisiti oltre all'utilità  sociale  dell'informazione,  della  veridicità  e  della forma  civile  dell'esposizione  dei  fatti e della loro valutazione, cioè  non  esorbitante  rispetto allo scopo informativo da conseguire ed improntata a serena obiettività” (Trib. Roma, 6 aprile 1988, Cosci, Dir. Inf., 1988, 837). Anche gli inviti alla prudenza sono disattesi: “Non si può ritenere cronaca rispettosa della verità dei  fatti quella di chi, nel riferire notizie la cui fonte si rappresentata da dichiarazioni o provvedimenti di organi dello Stato (nella specie autorità giudiziaria) non tenga conto dei limiti processuali delle accuse di un organo inquirente, in spregio al disposto dell’art. 27, II comma, Cost., presentando come certa e definitiva una situazione che è suscettibile in una fase successiva di modifiche o addirittura di ribaltamenti” (Trib. Genova, 24 ottobre 1986, Boiso, Dir. inf., 1987, 239).


I giornali non hanno sviluppato controinchieste sulle piste alternative, in particolare sulla pista politica centrata sulla figura di Iolanda Ricci, la studentessa che, al momento dello sparo, passeggiava con Marta Russo. Iolanda Ricci è figlia di un funzionario dell’amministrazione penitenziaria dello Stato. E’ spuntata addirittura una pista mafiosa ed è stata affacciata l’ipotesi dello scambio di persona con una sosia figlia di un imprenditore siciliano come vittima designata. La verità “ufficiale” evidentemente ha fatto premio almeno fino alla esplosione delle conclusioni dei periti, che hanno smontato la costruzione accusatoria dei Pm.


Bianca Stancanelli racconta su “Panorama” (10 luglio 1997) gli incredibili strafalcioni di quotidiani anche prestigiosi. C’è chi (“Corriere della Sera”) descrive i due “dottori” pasteggiare, dopo il delitto, a champagne in pizzeria e  come personaggi “noti per le continue avances a studentesse”. Quotidiani e tv si scatenano all’indomani dell’arresto: Ferraro e  Scattone sono “arroganti, strafottenti e sorridenti”. “Il Manifesto” registra con distacco una battuta tra  investigatori e Ferraro. L’uno dice: “La sua carriera è finita”. L’altro risponde: “Si sbaglia: è appena cominciata”. “La Repubblica” è certa che “Scattone e Ferraro avevano già sparato dalla finestra della stanza n. 6”. “Il Tempo”, invece, segnala la “comune origine calabrese” di Ferraro e Scattone. Il cerchio si stringe: la vocazione a delinquere è un dato genetico. Viene acquisito anche un racconto scritto nel 1994 da  Salvatore Ferraro e destinato a un concorso per giovani autori. Nel racconto, Ferraro si sofferma a lungo sul mondo universitario, parlando anche di una “stupida matricola”. “Domani l’uccido”  dice a un certo punto il protagonista della storia. La situazione diventa tragica, quando tra le carte di Scattone vengono trovate cartoline firmate “Marta”, ma sono del 1989. Titola “Il Messaggero”: “Biglietti firmati con il nome della vittima”.  Di Marta ce n’è una sola? Anche questa “pista”, alimentata dalla pattumiera della cronaca, perde rapidamente consistenza.


L’11 febbraio 1999, i giornali assolvono Scattone e Ferraro. Il giorno prima era  naufragato il teorema accusatorio. I periti hanno smontato la costruzione del Pm, stabilendo che sono sei le finestre da cui il killer può aver sparato e due sono più probabili di quella dell’Aula 6 di Filosofia del diritto indicata dagli inquirenti. “La  Repubblica” titola. “Marta, crolla l’accusa”; “Corriere della Sera”: “Marta, il giorno nero dell’accusa”; “Manifesto”: “Un processo da buttare”. La Stampa: “Marta Russo, vacilla l’accusa. Non è certo che il killer sparò dall’aula 6. “Il Giornale” è sicuro: “L’omicida della studentessa non ha fatto fuoco dall’aula 6”. I giornali, quindi, hanno trasformato  Ferraro e Scattone prima in due sicuri assassini e poi in due sicuri innocenti. E’ possibile cavarsela, allargando le braccia e dicendo: “E’ la stampa, bellezza”?


Le regole della cronaca giudiziaria sono state costruite, soprattutto negli ultimi 25 anni, dai giudici. La più recente delle “lezioni” della Cassazione, in tema di cronaca giudiziaria, risale a pochi mesi fa. Questi i fatti in maniera succinta.  Nel periodo fra ottobre 1992 e giugno 1993  tre quotidiani romani hanno pubblicato notizie su perquisizioni eseguite presso lo studio e l’abitazione di un avvocato nell’ambito di un’inchiesta avviata dalla magistratura  sui rapporti illeciti fra logge massoniche e associazioni mafiose. Il legale ha querelato articolisti e direttori responsabili delle pubblicazioni. Il Tribunale di Roma ha condannato per diffamazione gli autori degli articoli e per omesso controllo i direttori dei giornali. La Corte d’Appello di Roma ha confermato la condanna osservando che l’indagine svolta nei confronti dell’avvocato  non aveva conseguito alcun risultato, in quanto non era stata provata l’esistenza di alcun suo legame con ambienti criminali né lo svolgimento di attività illecite da parte della loggia massonica cui egli apparteneva. Escludendo la veridicità delle notizie pubblicate, la Corte d’Appello ha negato ai giornalisti l’esimente del diritto di cronaca.


La Suprema Corte (Cass. pen., sez. V, sent. n. 2842 del 2 marzo 1999, pres. Marvulli, rel. Amato) ha accolto il ricorso dei giornalisti affermando che la Corte d’Appello di Roma, al fine di stabilire se gli stessi avessero esercitato correttamente il diritto di cronaca, non avrebbe dovuto far riferimento all’esito delle indagini, bensì all’esattezza o meno delle informazioni pubblicate sui provvedimenti adottati dagli inquirenti.


Nell’ambito della cronaca giudiziaria - ha affermato la Corte - la verità della notizia mutuata  da un provvedimento giudiziario sussiste ogni qualvolta essa sia fedele al contenuto del provvedimento stesso, senza alterazioni o travisamenti; pertanto per il riconoscimento  dell’esimente del diritto di cronaca è sufficiente che l’articolo pubblicato corrisponda al contenuto di atti dell’autorità giudiziaria, senza che sia richiesto al giornalista di dimostrare la fondatezza delle decisioni e dei provvedimenti da essa adottati. Deve pertanto escludersi - ha precisato la Corte - che il cronista possa fondare la propria attività su mere voci e illazioni raccolte, anticipare il contenuto di provvedimenti del giudice o del pubblico ministero ed attribuire ad essi una valenza maggiore di quella reale.


Nel caso in esame - ha rilevato la Corte - l’indagine penale tentava di svelare i legami occulti tra logge deviate della massoneria ed ambienti affaristico-criminali, non alieni talvolta dal coltivare progetti di eversione dell’ordine costituzionale. Il giudice di merito avrebbe dovuto accertare se l’accostamento, operato dai giornalisti, dell’avvocato a tali ambienti fosse il coerente portato dell’indagine ovvero costituisse un’illazione, un’esorbitanza, un’avventata od anche arbitraria elaborazione, nel quale caso sarebbe spettato al giornalista dimostrare la corrispondenza tra quanto narrato e la realtà storica.


Una sentenza in particolare deve far riflettere i giornalisti impegnati nei Palazzi di Giustizia. Ne riportiamo la massima  giurisprudenziale di indubbia efficacia e di stringente attualità: “L’esercizio del diritto di informazione garantito nel nostro ordinamento deve, ove leda l’altrui reputazione, sopportare i limiti seguenti: a) l’interesse che i fatti narrati rivestano per l’opinione pubblica, secondo il principio della pertinenza; b) la correttezza dell’esposizione di tali fatti in modo che siano evitate gratuite aggressioni all’altrui reputazione, secondo il principio della continenza; c) la corrispondenza rigorosa tra  i fatti accaduti e i fatti narrati, secondo il principio della verità: quest’ultimo comporta l’obbligo del giornalista (come quello dello storico) dell’accertamento della verità della notizia e il controllo dell’attendibilità della fonte (Cass. pen., 5 maggio 1997, n. 2113 (ud. 29 gennaio 1997), in Rivista penale n. 10/1997, pag. 973)”. Il giornalista deve, quindi, lavorare con i metodi tipici dello storico, consultando i documenti, scavando nel passato dei protagonisti del fatto di cronaca, mettendo a confronto carte e testimonianze orali raccolte nel corso delle udienze processuali. La Cassazione delinea l’attività del giornalista, visto  come mediatore intellettuale tra i fatti e la pubblica opinione, come un ricercatore rigoroso e attento. Un processo, ed un processo come quello sul delitto Marta Russo, offre ai cronisti l’opportunità di lavorare con le tecniche degli storici. Carte e testimoni sono abbondanti.


La cronaca giudiziaria è quella che maggiormente  mette in gioco alcuni valori fondamentali della nostra Costituzione:


·      da una parte il diritto costituzionale dei cittadini all’informazione “corretta e completa”  (articoli  21 della Costituzione; articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo; sentenza n. 112/1993 della Corte Costituzionale);


·      dall’altra il diritto costituzionale dei cittadini alla tutela dei principi fondamentali dell’identità personale (articolo 2 C.) e  della non colpevolezza (articolo 27 C.).


L’esercizio del diritto di cronaca - il quale costituisce una particolare espressione della libertà di manifestazione del pensiero anch’essa sancita dall’articolo 21 della Costituzione - pone ai giornalisti  il “dovere”  di rispettare la persona , protagonista dei fatti giudiziari, e la  verità sostanziale dei fatti (articolo 2 l. n. 69/1963):


“Oltre all'obbligo del rispetto della verità sostanziale dei fatti con l'osservanza dei doveri di lealtà e di buona fede, il giornalista, nel suo comportamento oltre ad essere, deve anche apparire conforme a tale regola, perché su di essa si fonda il rapporto di fiducia tra i lettori e la stampa. (App. Milano, 18 luglio 1996; Riviste: Foro Padano, 1996, I, 330, n. Brovelli;  Foro It., 1997, I, 938)”.


Durante l’inchiesta e il processo del delitto della Sapienza, le norme sul rispetto della persona e della verità sostanziale dei fatti sono state abbondantemente violate dai giornali e dai giornalisti. Direttori e cronisti non risulta che siano incorsi in guai giudiziari e disciplinari. Dimenticato anche un monito del Tribunale di Roma (Trib. Roma, 5 novembre 1991, Remondino, Dir. inf., 1992, 478): “Nella inchiesta di fatti intorno a cui sia ancora in corso un procedimento penale, il giornalista deve riportare i fatti in chiave di assoluta problematicità senza enunciare una verità certa ed assoluta, ma esponendo tutti gli elementi certi (sulla base degli accertamenti e dei riscontri del giornalista) che vengono a connotare la complessità della realtà”.


L’esercizio della cronaca giudiziaria incontra i medesimi (e noti) limiti degli altri tipi di cronaca: verità della notizia, pubblico interesse alla conoscenza dei fatti narrati,  continenza. Non esistono per il giornalista fonti privilegiate. Il controllo delle fonti esige attenzione massima. Passiamo in rassegna alcune massime giurisprudenziali:


 


·      Premesso che il diritto di cronaca è esercitato legittimamente quando risulta contenuto entro i rigorosi limiti della verità oggettiva, della pertinenza e della continenza formale dei fatti narrati, e posto che non è dunque sufficiente fare riferimento soltanto all'attendibilità della fonte quale espressione di una valutazione soggettiva e probabilistica, ne consegue che non esistono fonti informative privilegiate (e, tanto meno normativamente predeterminate), tali cioè, da svincolare il cronista dall'onere: a) di esaminare, controllare e verificare i fatti, oggetto della sua narrazione, in funzione dell'assolvimento, da parte sua, dell'obbligo inderogabile di rispettare la verità sostanziale degli stessi; b) di dare la prova della cura da lui posta negli accertamenti esplicati per vincere ogni dubbio ed incertezza prospettabili in ordine a quella verità (nella specie: si è escluso che la Rai, alla quale il giornalista aveva attinto la notizia, fosse fonte di informazione così attendibile da esonerarlo dall'onere di controllare, all'origine  la verità della notizia pubblicata). (Cass. pen., 30 giugno 1984;  Riviste: Foro It. , 1984, II, 531, n. Fiandaca; Riv. Pen., 1984, 767; Giust. Civ. , 1984, I, 2941).


·      L'esercizio legittimo del diritto di cronaca non può essere disgiunto, anche sotto il profilo putativo, dall'uso legittimo delle fonti informative, per realizzare il quale il cronista deve quindi: a) esaminare, controllare e verificare i fatti, oggetto della narrazione, in funzione dell'assolvimento da parte sua dell'obbligo inderogabile di rispettare la verità sostanziale degli stessi; b) dare prova della cura da lui posta negli accertamenti esplicati per vincere ogni dubbio ed incertezza prospettabili in ordine a quella verità. (Trib. Roma, 18 luglio 1991; Riviste: Dir. informazione e Informatica, 1992, 83).


Nei giorni successivi all’arresto di Ferraro e Scattone, i giornali hanno raccolto notizie inverosimili, autentica spazzatura per fabbricare i “mostri”. Sul limite della verità, sul limite della continenza e sul limite dell’interesse pubblico, l’avvocato Sabrina Peron ha condotto una ricerca (“Tabloid” n. 5/1999) che merita di essere riportata sia pure in sintesi e che dovrebbe far riflettere i cronisti.


Limite della verità. E’ inteso in senso restrittivo poiché il sacrificio della presunzione di innocenza non deve spingersi oltre quanto strettamente necessario ai fini informativi. Ciò comporta che il giornalista non deve narrare il fatto in modo da generare un convincimento su di una colpevolezza non ancora accertata poi rilevatasi inesistente. In questo contesto si è ritenuta diffamatoria la pubblicazione  di una formula di proscioglimento inesatta perché meno favorevole e tale da far ritenere che l’indagine giudiziaria abbia consentito di accertare l’oggettiva perpetrazione dell’illecito da parte dell’imputato (ad esempio, è stato reputato diffamatorio e lesivo dell’altrui reputazione divulgare la notizia di un’inesistente proscioglimento per amnistia invece che per insussistenza del reato. Del pari si è ritenuto diffamatorio affermare che un soggetto è stato condannato alla pena della reclusione senza la sospensione condizionale della pena quando, invece, era stata pronunciata una condanna, condizionalmente sospesa,  alla sola pena dell’ammenda: in questo caso da un lato, si è ritenuto che la maggior gravità della pena contiene un maggior giudizio di disvalore della condotta rispetto a quello contenuto nella pena realmente inflitta; dall’altro si è ritenuto che la (pretesa) mancata concessione della sospensione condizionale in realtà contenga una prognosi sfavorevole sulla futura condotta e sulla persona del condannato).


Nel procedere a verificare il rispetto del limite della verità, i nostri tribunali, in genere, effettuano un valutazione sulla base di ciò che risulta al momento in cui la notizia viene diffusa e non già secondo quanto viene successivamente accertato, con la conseguenza che l’eventuale discrepanza tra i fatti narrati e  quelli realmente accaduti non esclude che possa essere invocato l’esercizio del diritto di cronaca.


Con riguardo, invece al problema delle fonti, si richiede che il cronista di giudiziaria, attinga le  sue informazioni dai dibattimenti penali, dalle decisioni pubbliche, oppure organi della polizia giudiziaria o altre fonti certe. In questo campo è stato anche riconosciuta particolare autorevolezza ad alcune fonti quali gli atti giudiziari e i rapporti di polizia esimendo in tali casi il giornalista dall’obbligo di accertare la verità dei fatti.


Per contro, il cronista giudiziario non è esente da responsabilità qualora riporti notizie di fatti non vere apprese da altro giornale o da agenzie stampa o dalla Rai, senza prima averne verificato la fondatezza: non sono considerate fonti attendibili i funzionari di polizia che vengano meno al loro dovere di riservatezza. Mentre sono considerate lecite le inesattezze relative alle semplici modalità del fatto che è stato imputato senza che ne modifichino la struttura.


Si tenga inoltre presente che al giornalista non è consentito omettere aspetti idonei a scagionare il soggetto passivo né arricchire il fatto con particolari non veri; inoltre incorre in condanna il giornalista che fa uso di termini giuridici impropri e tali a qualificare il fatto in modo più grave. In questo caso, però, l’uso di termini giuridici non deve essere valutato in senso restrittivo essendo evidente che colui il quale deve fornire notizie e  commenti al pubblico deve tenere presente che non si rivolge solo a specialisti, ma al contrario deve sforzarsi di rendere comprensibile a chiunque l’informazione che divulga (in questa ipotesi la diligenza del cronista viene misurata in base alla competenza specifica degli operatori del settore specializzato della cronaca giudiziaria).


Nel caso in cui la cronaca consista nel resoconto di un processo non ancora conclusosi, essa  deve basarsi sulla lettura degli atti processuali ed al giornalista è fatto obbligo di chiarire le opposte tesi dell’accusa e della difesa, senza tacere aspetti salienti di queste ultime allo scopo di inculcare nel lettore la convinzione di una inevitabile pronunzia di condanna. Si tenga altresì presente che se una storia processuale viene ricostruita a distanza di tempo, vi è l’obbligo di accertare più accuratamente la verità dei fatti, con la conseguenza che l’errore sul fatto fondamentale della notizia non scrimina se questo poteva essere facilmente accertato in relazione alle possibilità del giornalista su quel caso particolare.


Limite della continenza. Deve innanzitutto rispettare il principio di presunzione di innocenza del soggetto al centro della cronaca: ciò significa che ogni notizia idonea di attribuire  prima della condanna un reato a una persona - per poter essere legittimamente pubblicata - non solo deve essere vera ma altresì deve avere un contenuto e una forma tali da rendere avvertiti i lettori che la colpevolezza del soggetto incolpato non può considerarsi ancora come un fatto certo. Conseguentemente, devono essere evitati tutte quei particolari non ancora sicuramente accertati e tutte quelle espressioni non strettamente indispensabili. In altre parole, nel narrare fatti per i quali è in corso un accertamento giudiziario, il cronista deve astenersi dall’enunciare verità certe e deve rappresentare i fatti medesimi in chiave di problematicità - eventualmente comunicando ai destinatari della notizia il tipo di percezioni da lui realizzate -  con la conseguenza anche il pubblico deve essere  avvertito che la colpevolezza dell’indagato o dell’imputato non è ancora stata acquisita come un fatto certo. Sempre nell’ambito della continenza, è vietato l’uso di tutte quelle espressioni che gettino discredito sulla figura morale e professionale del protagonista della vicenda. Mentre, nel caso in cui si pubblichi la notizia di una denuncia,  va evidenziato che si tratta solo di una denuncia e che i fatti non sono ancora stati oggetto di verifica da parte dell’autorità giudiziaria.


Limite dell’interesse pubblico.  In linea di principio sussiste  un generale interesse dalla collettività alla conoscenza  della perpetrazione dei reati e delle relative vicende giudiziarie - soprattutto se si tratta di fatti di grande rilievo sociale -  non vi è però una presunzione assoluta di un pubblico interesse per ogni vicenda processuale, con la conseguenza che questo deve essere accertato caso per caso.


In genere si ritiene che non può essere apriori esclusa la legittimità della divulgazione di accadimenti  relativi a soggetti diversi dall’imputato purché si tratti di fatti oggetto dell’indagine o comunque direttamente collegabili a questi e la loro narrazione sia funzionale all’esercizio del diritto di cronaca (si tenga, presente che l’aggredire la reputazione di persone che non hanno acquisito la condizione di imputati impone un sindacato particolarmente pregante sull’esistenza del requisito del pubblico interesse alla divulgazione dei relativi fatti). Lo stesso dicasi per il caso in cui siano divulgate delle vicende che, pur essendo relative all’imputato, sono diverse da quelle oggetto dell’accertamento giudiziario: in questa ipotesi l’attività di cronaca è legittima solo se tali fatti siano strettamente collegati con quelli oggetto del procedimento penale, così da consentire una migliore comprensione o ricostruzione da parte del pubblico.


 


I confini della cronaca giudiziaria nelle sentenze dei giudici.


In tema di cronaca giudiziaria, la verità della notizia mutuata da un provvedimento giudiziario sussiste, ai fini della scriminante di cui all'art. 51  Cp, ogni qualvolta essa sia fedele al contenuto del provvedimento stesso, senza alterazioni o travisamenti. Il limite della verità deve essere restrittivamente inteso, dovendosi verificare la rigorosa corrispondenza tra quanto narrato e quanto realmente accaduto, perché il sacrificio della presunzione di innocenza non può esorbitare da ciò che sia necessario ai fini informativi. (Fattispecie in cui è stato ritenuto diffamatorio affermare, contrariamente al vero, che l'imputato era stato arrestato) (Cass. pen., Sez. V, sent. n. 8036 del 07-07-1998; parti: Pendinelli).


 


La cronaca giudiziaria è lecita quando venga esercitata correttamente, limitandosi a diffondere la notizia di un provvedimento giudiziario in sé, specie ove adottato nei confronti di persona investita di pubbliche funzione, ovvero a riferire o commentare l'attività investigativa o giurisdizionale; non lo è invece quando le informazioni desumibili da un provvedimento giudiziario vengano utilizzate per ricostruzioni o ipotesi giornalistiche tendenti ad affiancare, o a sostituire, gli organi investigativi nella ricostruzione di vicende penalmente rilevanti, ed autonomamente offensive. In tal caso il giornalista deve assumersi direttamente l'onere di verificare le notizie e di dimostrarne la pubblica rilevanza, senza poter esibire il provvedimento giudiziario quale sua unica fonte di informazione e di legittimazione. (Fattispecie di conferma della sentenza di condanna in relazione ad un articolo intitolato "Tradito dalle donne il boss delle tangenti", in quanto oggetto della notizia non fu tanto il provvedimento giudiziario quanto i fatti che lo avevano giustificato, reinterpretati e riferiti nel contesto di un'autonoma e indimostrata ricostruzione giornalistica) (Cass. pen., Sez. V, sent. n. 8031 del 07-07-1998; parti:  Scalfari).


 


Il giornalista nell’esercizio del diritto di cronaca deve pubblicare la notizia di un arresto e dei motivi che lo  hanno determinato, anche se successivamente tali motivi risulteranno infondati: l’interesse pubblico alla conoscenza dei fatti di grande rilievo sociale, quali la perpetrazione di reati e l’attività di polizia giudiziaria è preminente rispetto al principio della presunzione di innocenza. Ogni notizia idonea ad indurre l’opinione pubblica ad attribuire, prima della condanna, un reato ad un persona in quanto relativa a fatti che la espongono ad un giudizio penale (denunce, querele, rapporti, arresti, ecc.) deve essere vera, ed avere un contenuto ad una forma tali da rendere avvertito il pubblico, quanto più è possibile in relazione alle circostanze del caso concreto, che la colpevolezza della persona accusata non può considerarsi ancora acquisita come un fatto certo e, quindi, evitare tutti quei particolari non ancora sicuramente accertati e tutte quelle espressioni, non strettamente indispensabili che tale certezza possono creare nel pubblico (Cass. pen., 7 marzo 1975, Vola, Giust. civ., 1975, I, 972).


 


Un decreto penale opposto non costituisce fonte di prova ai fini dell'applicazione della esimente dell'esercizio del diritto di cronaca, poiché non può ritenersi attendibile una notizia che è ancora oggetto di indagine giudiziaria (Cass. pen., 9 luglio 1979, Vecchiato, Cass. Pen. Mass., 1981, 191).


 


Il pieno diritto alla difesa della propria onorabilità, come previsto dagli art. 2 e 27 Cost., spetta a ogni cittadino e quindi anche a colui che, pur sottoposto a procedimento penale, non deve peraltro essere danneggiato dalla pubblicazione di notizie, né dalla formulazione di giudizi preventivi, in senso negativo, precedenti l'accertamento giudiziario definitivo; da detto principio deriva che in materia di cronaca giudiziaria è idonea a ledere l'interesse protetto dall'art. 595 c. p. la pubblicazione di notizia relativa a un rinvio a giudizio, non ancora formulato, trattandosi di notizia non vera in quel momento e sicuramente lesiva dell'onorabilità della parte offesa (App. Roma, 20 gennaio 1989, Scalfari, Giust. Pen., 1991, II, 519, n. Mantovani).


 


L'obbligo   di  rispetto  della  verità  storica  (nella  specie:  in un'opera   cinematografica   rievocante   una   vicenda   di  cronaca giudiziaria)  non  può  tradursi  nel divieto di ogni diversa lettura della vicenda rappresentata, la quale pur conforme alla ricostruzione dei fatti quali accertata da un giudicato penale, risulti discostarsi dalla  rappresentazione  che  di quella vicenda fu data all'epoca dei fatti (Trib. Roma, 24 febbraio 1994; parti in causa: Maresca c. Rai-Tv; riviste: Dir. Informazione e Informatica, 1994, 731).


 


Non  vengono  travalicati  i  limiti  che sovraintendono al legittimo esercizio  del  diritto  di  cronaca  giornalistica  ogniqualvolta le notizie  riportate  corrispondono - quanto meno all'epoca in cui sono diffuse   -   ad  una  verità  ragionevolmente  presunta.  La  verità putativa,  prevista  come ulteriore presupposto della legittimità del diritto  di cronaca,  opera  in tutti i casi in cui la ricostruzione della vicenda narrata si discosti parzialmente dalle risultanze delle indagini  investigative  senza  tuttavia mutare la sostanza dei fatti emersi.  Deve  comunque escludersi sussista un nesso di causalità tra


i  danni lamentati dal presunto diffamato - indubbiamente conseguenti al  fatto  di  essere stato imputato, arrestato e rinviato a giudizio per un reato infamante e di aver visto la propria vicenda giudiziaria legittimamente  riportata  da  numerose testate giornalistiche - e la circostanza  che  la  stampa ed altri mezzi di informazione invece di parlare  del  rinvenimento  di  documentazione compromettente abbiano riferito del rinvenimento di denaro contante e Bot (Cass. civ., sez. III, 16 settembre 1996, n. 8284;  parti in causa: Vittoria c. Soc. Esedra ed.; riviste: Resp. Civ. e Prev., 1997, 453, n. Gennari).


 


La  ricostruzione  televisiva di un fatto di cronaca giudiziaria dopo circa  trent'anni  costituisce  esercizio  legittimo della libertà di manifestazione  del  pensiero  e  di  critica  idoneo a prevalere sul diritto  soggettivo  alla  riservatezza, perché sussiste un interesse sociale  al  riesame  di  una vicenda di particolare rilievo storico, sociale e culturale (Trib. Roma, 8 novembre 1996;  parti in causa: Sanfratello c. Rai-Tv; riviste: Dir. Informazione e Informatica, 1997, 323)


 


Costituisce  esercizio  legittimo della libertà di manifestazione del pensiero  la trasmissione televisiva dopo oltre vent'anni di un fatto di  cronaca  giudiziaria,  in  virtù  dell'esistenza  di un interesse sociale  alla  diffusione  di  una  vicenda che abbia particolarmente interessato  l'opinione  pubblica  e  purché sia rispettato il limite della verità e continenza (Trib. Roma, 20 novembre 1996; parti in causa Vulcano  c. Rai-Tv e altro; riviste: Dir. Informazione e Informatica, 1997, 330: Giust. Civ., 1997, I, 1979, n. Crippa).


 


In tema di diffamazione a mezzo stampa, quando il comportamento di una persona, essendo contrassegnato da ambiguità, sia suscettibile di più interpretazioni, tutte connotate in negativo sotto il profilo etico-sociale e giuridico, è scriminato dall'esercizio del diritto di cronaca e di critica il giornalista che, operando la ricostruzione di una determinata vicenda sulla scorta dei dati in suo possesso e di quelli contenuti in un provvedimento giudiziario, riconduce il comportamento ad una causale considerata dalla interessata più infamante di quella, ugualmente riprovevole e penalmente illecita, prospettata nello stesso provvedimento giudiziario. (Fattispecie relativa ad un articolo di stampa, in cui un brigadiere dei carabinieri era stato definito "in mano alla piovra campana", per aver discreditato dei testi che collaboravano con l'autorità giudiziaria inquirente in un omicidio di camorra e per avere consegnato un memoriale contenente rivelazioni non solo al giudice istruttore, ma anche ai difensori degli imputati. La suprema Corte ha ritenuto che correttamente la corte d'appello aveva affermato l'esistenza della scriminante, benché nell'ordinanza di rinvio a giudizio la condotta del querelante fosse attribuita non a collusione o a collateralità con le cosche camorristiche, come implicitamente significato dal giornalista, ma all'intento di screditare per ritorsione i propri superiori, che lo avevano denunciato per concussione) (Cass. pen., sez. V, 16 febbraio 1995, n. 4000, Melati, Cass. Pen., 1996, 2386)


 


Costituisce esercizio del diritto di cronaca e di critica la pubblicazione di un libro contenente notizie e informazioni, diffuse negli ambienti interessati, su un imprenditore avente una posizione pubblica di grandissimo rilievo in campo economico e sociale, acquisite con una seria ricerca (su articoli di giornali, relazioni e atti di una commissione parlamentare di inchiesta, rapporti di polizia giudiziaria, atti societari depositati presso uffici pubblici, sentenze e altri atti pubblici), esposte in termini formalmente e sostanzialmente corretti (nella specie, è stato negato carattere diffamatorio a gran parte delle notizie, informazioni e valutazioni contenute nel libro "Berlusconi - Inchiesta sul signor Tv" di Giovanni Ruggeri e Mario Domenico Saulle detto Mario Guarino) (Trib. Roma, 2 maggio 1995, Berlusconi c. Ruggeri e altro, Foro It., 1996, I, 657).


 


La valenza diffamatoria di una espressione ha carattere relativo, essendo l'onore e la reputazione stessi valori relativi, influenzabili dall'appartenenza del soggetto passivo ad un determinato gruppo sociale, culturale o professionale. Un attentato alla sfera della reputazione soggettiva, effettuato con uno scritto giornalistico, per essere scriminato dalla ricorrenza del diritto di cronaca o critica deve presentare i caratteri dell'interesse sociale alla conoscenza della notizia, della verità dei fatti e della continenza formale in sede espositiva, intesa alla stregua di correttezza del linguaggio. Travalica i limiti della continenza formale, con la conseguente inapplicabilità della scriminante in oggetto, l'attribuzione, in un articolo giornalistico, della patente di pavidità alla persona di un magistrato impegnato in processi di lotta alla mafia, tramite l'accostamento alla figura manzoniana di Don Abbondio, avendo un significato offensivo, lesivo della considerazione che un giudice deve avere nell'ambiente professionale e nel corpo sociale, che va oltre il diritto di critica, particolarmente esercitabile nell'ambito giudiziario con la manifestazione di fisiologico dissenso rispetto a determinazioni discrezionali dei magistrati, senza degenerare nel mero insulto di cui possa cogliersi solo l'aspetto dispregiativo. E' peraltro configurabile l'applicabilità delle attenuanti dei motivi di particolare valore sociale o morale nel caso in cui l'espressione anzidetta sia stata dettata da ribellione morale di fronte alle disfunzioni giudiziarie ed alla volontà di fornire un contributo alla lotta alla criminalità organizzata attraverso la sensibilizzazione dell'opinione pubblica e degli stessi organi giudiziari competenti  (Trib. Milano, 17 dicembre 1995, Cavallaro, Riv. Pen., 1996, 350).


 


In tema di diffamazione a mezzo stampa non è invocabile il diritto di cronaca quando la notizia è stata data attraverso uno scritto anonimo, come tale insuscettibile di controlli circa l'attendibilità della fonte e la veridicità della notizia stessa, né tale notizia può ritenersi controllata per il solo fatto che sia stata eventualmente aperta un'inchiesta giudiziaria sui fatti pubblicati  (Cass. pen., sez. V, 5 marzo 1992, Mastroianni, Giur. It., 1992, II, 618).


 


Nella cronaca giudiziaria il giornalista deve rendere omaggio alla oggettività delle notizie più che al rigore giuridico delle proprie opinioni. Si ha una inesattezza giuridica di opinione e non una falsità di confezione di una notizia quando si dà per certa la meccanica apertura di un procedimento penale per calunnia a carico del soggetto (nel caso di specie si trattava di un avvocato) la cui tesi accusatoria è già stata sconfessata dai giudici competenti  essendo l’azione penale del reato di calunnia meramente eventuale in quanto rimessa alla valutazione tecnica del Pm che tale azione esercita.


Costituisce reato di diffamazione il riportare la notizia di un rinvio a giudizio quando l’atto introduttivo (denuncia, querela ecc.) non sia stato ancora inoltrato, in quanto fa nascere nel lettore il convincimento erroneo della presenza di una esito processuale scontato e già in itinere (Trib. Roma,  9 luglio 1991, Vitalone, Dir. inf. 1992, 463).


 


Il giornalista pur investito dell’altissimo compito di informazione deve sempre attenersi, fino a che non intervenga una sentenza di condanna, al principio costituzionale di presunzione di non colpevolezza dell’imputato e non può tacciare quindi lo stesso di una colpevolezza non ancora accertata, tanto meno se la notizia di colpevolezza provenga da altra fonte informativa - giornali agenzie RAI - nn accuratamente controllata, altrimenti le fonti propalatrici delle notizie - attribuendosi reciprocamente credito - finirebbero per rinvenire in se stesse attendibilità (Cass pen., 17 aprile 1991, Bocconetti, Riv. pen., 1991, 912).


 


Deve considerarsi illecito sia sotto il profilo civile che quello penale (reato di diffamazione a mezzo stampa) il comportamento del giornalista che divulghi notizie attinenti alla commissione di reati ed alla attribuzione di essi ad una persona, raccogliendo le voci negli ambienti giudiziari senza un più approfondito controllo delle fonti d'informazione, senza attendere l'effettivo e reale svolgimento dell'iter processuale, e riferendo per di più dei fatti specifici che non hanno trovato alcuna rispondenza neppure in sede istruttoria, con la conseguenza che il diritto di cronaca non appare rettamente esercitato neppure sotto il profilo della “putatività” (Trib. Roma, 5 febbraio 1991, Vitalone c. Soc. Rcs editoriale quotidiani, Dir. Inf., 1992, 459).


 


Nella cronaca giudiziaria relativa a fatti oggetto di un processo penale anche se non ancora concluso, e a  maggior ragione nel resoconto del processo stesso, il giornalista adempie l’obbligo di controllo delle fonti quando fonda la notizia sulla lettura degli atti processuali, fonte più attendibile e certa nel momento della redazione dell’articolo (Trib. Milano 11 gennaio 1991, Postiglione, Dir. inf., 1991, 606).


 


L’errore del giornalista non è scriminante quando tocca la verità dei fatti fondamentali della notizia, nel caso di una ricostruzione della storia processuale a distanza dei fatti medesimi, la cui falsità poteva essere facilmente accertata: l’obbligo di puntuale ricerca e riscontro delle fonti è tanto più possibile quando si tratti di ricostruzione a distanza di un fatto e non di resoconto immediato dello stesso (Trib. Roma, 10 marzo 1989, Scottoni, Foro It., 1990, II, 137).


 


Non costituisce diffamazione col mezzo della stampa riferire, nel corso di più telegiornali della Rai, di un'inchiesta giudiziaria circa una associazione mafiosa attribuendo ad una delle persone coinvolte imputazioni più gravi di quelle per le quali è effettivamente inquisita, ove il giornalista abbia desunto le informazioni da fonti normalmente attendibili (nella specie, le agenzie di stampa Ansa e Italia), poiché, senza pretendere nel vaglio della notizia un astratto rigorismo, il diritto di cronaca deve ritenersi in simili ipotesi correttamente esercitato (Pret. Roma, 24 febbraio 1989, Longhi, Foro It., 1989, II, 488).


 


Obbligo inderogabile del giornalista è il rispetto della verità sostanziale dei fatti, non rilevando le inesattezze che incidono su semplici modalità del narrato, senza modificarne la struttura o (se si tratta di cronaca giudiziaria) se consistono nella errata indicazione del titolo del reato (consumato anziché tentato) (Trib. Messina, 13 dicembre 1988, Pollichieni, Riv. it. dir. proc. pen., 1990, 1210).


 


Qualora uno sceneggiato fondi la ricostruzione di un fatto di cronaca sulla fedele osservanza delle risultanze e degli atti di un procedimento giudiziario conclusosi definitivamente con il passaggio in giudicato della sentenza, non può ravvisarsi pregiudizio all'onore dell'interessato; in tal caso, tuttavia, le esigenze artistico-rappresentative devono essere raccordate al dato storico, senza che aggiunte o soppressioni operate dal regista, possano alterare, anche in minima parte, la figura psicologica dell'interessato e l'equilibrio della trama (Pret. Roma, 7 novembre 1986, Maresca c. Rai-Tv, Giur. It., 1989, I, 2, 428).


 


Il limite della verità della notizia è travalicato dal giornalista non soltanto qualora la narrazione dei fatti venga arricchita di particolari e descrizioni contrarie al vero ma anche nella ipotesi in cui siano tenui sotto silenzio aspetti che, ove venissero conosciuti, sarebbero idonei a mutare il significato di ciò che è stato narrato (nel caso di specie il giornalista nel riferire un fatto di cronaca giudiziaria aveva taciuto avvenimenti idonei a scagionare colui il quale veniva indicato come omicida).


Non può essere esonerato da responsabilità il giornalista che usa un termine giuridico improprio non solo in relazione alla sostanziale differenza tra i due istituti (archiviazione e proscioglimento con formula piena) ma soprattutto in relazione alla competenza professionale media da riconoscere al giornalista che affronti temi specifici come la cronaca giudiziaria nel corso della quale la verità del narrato non può andare disgiunta dalla utilizzazione della terminologia più appropriata soprattutto quando a termini diversi corrispondano concetti e conclusioni diverse (Cass. pen., 26 giugno 1987, Scialoja, Riv. pen., 1988, 865).


 


Non costituisce esercizio del diritto di cronaca giudiziaria riferire la deposizione, in un procedimento civile, di un testimone lesiva dell'altrui reputazione e di cui non sia stata provata la verità (Trib. Roma, 26 novembre 1985, Ravelli, Dir. Inf.,  1986, 894).


Non costituisce diffamazione col mezzo delle stampa aggravata dall’attribuzione di un fatto determinato, riferire durante una cronaca giornalistica radiofonica, dell’affiliazione di due soggetti ad una loggia massonica organizzata e controllata dal capo della P2 Licio Gelli, ove il fatto dia vero, e definire un soggetto se la circostanza sia sostanzialmente vera secondo il senso comune, anche quando giuridicamente non ne ricorrono gli estremi. L’uso dei termini da parte del giornalista non deve essere valutato in senso restrittivo o addirittura tecnico. E’ evidente che colui il quale deve fornire notizie e commenti al pubblico deve tenere ben presente che non si rivolge solo a specialisti o a raffinati cultori della lingua italiana ma, al contrario, deve sforzarsi di rendere comprensibile a  chiunque l’informazione che divulga (Pret. Firenze, 2 maggio 1985, Di Giovanni, Foro It., 1985, II, 399)


 


I soggetti sospettati come colpevoli di un reato non possono dolersi che si dia notizia di un fatto già accaduto nei loro confronti - e cioè che essi sono sospettati di appartenere ad un’associazione mafiosa, o comunque di avere commesso dei reati - ma possono legittimamente invocare la tutela penale qualora il giornale, anticipando la (eventuale) conclusione dell’inchiesta, li abbia presentati quali sicuri responsabili del reato per il quale invece sono in corso soltanto indagini. Il giudizio di colpevolezza non può essere anticipato dall’organo di stampa, perché si tratterebbe, né più né meno, della pubblicazione di una notizia notoriamente falsa, in quanto la valutazione della responsabilità degli inquisiti non è ancora stata effettuata dagli organi competenti (Trib. Genova, 15 aprile 1985, Corrado, Giust. pen., 1986, II, 722)


 


Costituisce diffamazione col mezzo della stampa riferire inesattamente su giornale quotidiano, della condanna penale riportata nel primo grado del giudizio da amministratore pubblico, definendolo nella cronaca giudiziaria come (Trib. Roma, 14 aprile 1984, Scalfari, Foro It., 1985, II, 124).


 


Costituisce esercizio del diritto di critica e di cronaca giornalistica, e pertanto esula dall’ipotesi di diffamazione col mezzo stampa, aggravata dall’attribuzione di fatto determinato, definire il soggetto e , ricavando tali qualifiche dal resoconto di fatti veri, documentalmente provati e accertati con sentenza penale passata in giudicato (Trib. Roma, 25 febbraio 1984, Agnese, Foro It., 1985, II, 124).


 


Il diritto di cronaca giornalistica, sia questa giudiziaria o di altra natura, rientra nella più vasta categoria dei diritti pubblici soggettivi, relativi alla libertà di pensiero e di stampa riconosciuti dall'art. 21 Cost.; e consiste nel potere-dovere conferito al giornalista di portare a conoscenza dell'opinione pubblica fatti, notizie e vicende interessanti la vita associata (Cass. pen., 12 gennaio 1982, Lo Greco, Giust. Pen., 1982, II, 656).


 


In materia di cronaca giudiziaria per stabilire se il relativo diritto sia stato esercitato con rispetto del limite della verità oggettiva non deve aversi riguardo a quelle inesattezze che incidono su semplici modalità del fatto narrato senza modificarne la struttura. Non integra gli estremi del reato di diffamazione la pubblicazione di un articolo in cui il giornalista, nel divulgare la notizia dell’arresto di una persona, usa espressioni e toni che consentono al lettore di intendere che i fatti che hanno determinato l’arresto non sono stati ancora definitivamente accertati. L'indagine del giudice di merito volta a stabilire se nei casi concreti il giornalista abbia rispettato il limite della continenza e della verità deve essere particolarmente frequente in tema di cronaca giudiziaria, poiché il sacrificio del diritto alla presunzione di innocenza non deve spingersi al di là di quanto è strettamente necessario ai fini informativi (Cass. pen., 18 dicembre 1980, Faustini, Giust. Pen., 1982, II, 139).


 


In tema di diffamazione a mezzo stampa non è invocabile il diritto di cronaca quando la notizia è data attraverso uno scritto anonimo che, essendo come tale insuscettibile di controlli circa l'attendibilità della fonte e la veridicità della notizia stessa, non può ritenersi controllato per il solo fatto che sia stata eventualmente aperta un'inchiesta giudiziaria sui fatti pubblicati (Cass. pen., Sez. V, sent. n. 5545 del 12-05-1992; parti: Mastroianni).


 


In tema di diffamazione a mezzo stampa, l'integrità morale della personalità di un magistrato, come di ogni altro "homo publicus", va tutelata nella sua intangibile sfera di onorabilità. E' pur vero infatti che la critica e la cronaca possono essere tanto più larghe e penetranti quanto più alta è la posizione pubblica della persona, e che rientra nell'interesse della collettività nazionale la corretta e puntuale esplicazione dell'attività giudiziaria, ma è altrettanto incontestabile che nei confronti di un giudice sono del pari operanti i limiti del potere-dovere conferito al giornalista di ragguagliare il lettore sulle più notevoli ed importanti emergenze della vita individuale ed associata. Tali limiti vanno individuati nella verità della notizia pubblicata, nel pubblico interesse alla conoscenza dei fatti, nella correttezza del linguaggio (Cass. pen., Sez. V, sent. n. 3473 del 16-04-1984; parti:  Franchini).


 


Il giornalista (come l’avvocato) parte nel procedimento penale. Negli ultimi tempi si discute molto di “diritto all’informazione e riservatezza delle indagini” oppure di “doveri della Giustizia in rapporto alle libertà dell’informazione”. I magistrati come i giornalisti sono responsabili dell'informazione che esce dai Palazzi di Giustizia. Anche per i giudici il giornalismo deve essere inteso modernamente come servizio pubblico reso ai cittadini. I giudici, per la loro parte, devono  concorrere con i giornalisti ad assicurare ai cittadini una informazione corretta, completa, improntata alla verità, soprattutto sui temi di utilità sociale e di rilievo pubblico. Non è possibile che si vada avanti in questo equivoco: alcuni giudici condannano i giornalisti quando diffondono “notizie incomplete, quindi false, quindi diffamatorie”; altri magistrati negano le notizie  e  così agendo mettono i giornalisti in una stretta tra il dovere di riferire e l’obbligo di essere corretti. Anche i giornalisti devono essere corretti e apparire corretti così come i magistrati e i giudici devono essere e  devono apparire  indipendenti. E’ questa l’etica di due professioni. La libertà dell'informazione è libertà di accesso alle fonti, è libertà di raccontare i fatti senza bisogno di far ricorso alla fantasia e ai ....condizionali. Fra fatti accaduti e fatti narrati deve esserci un nesso credibile. La sfera della responsabilità, quindi, è doppia: appartiene al giornalista, che scrive nel rispetto dell'etica professionale, e appartiene al giudice, custode delle notizie. La deontologia impone il rispetto della persona e della verità sostanziale dei fatti in un quadro di lealtà e buona fede al fine di rafforzare la fiducia dei lettori verso la stampa. Ma la sfera della responsabilità riguarda anche i giudici, i quali sono chiamati a rispettare il diritto dei cittadini a ricevere scritte in maniera corretta, completa, obiettiva.


Merita un cenno la sentenza del Gip milanese Andrea Manfredi (Ordine Tabloid, n. 7/1994, pag 12) che ha assolto con la formula più ampia due giornalisti imputati del reato di diffamazione per aver pubblicato su “Panorama” del 4 ottobre 1992 i verbali d’interrogatorio d’un imputato di Tangentopoli. Scrive il Gip: “...Ciò sta a significare che una volta venuto meno l’obbligo del segreto secondo le previsioni dell’articolo 329 Cpp non vi è limite alcuno alla pubblicazione e diffusione del contenuto dell’atto del procedimento, così consacrandosi il diritto di cronaca su di esso, nel segno di un apprezzamento della prevalenza dell’interesse collettivo alla conoscenza delle vicende processuali e del controllo sociale della loro gestione, essenziale in un assetto ordinamentale ispirato a principi democratici... In definitiva, se l’articolista riporta il contenuto di atti del procedimento non più  coperti da segreto, e ciò fa legittimamente non travisandoli, non aggiungendovi commenti volti alla denigrazione incivile, con l’uso di espressioni gratuite ed offensive, mantenendosi nell’ambito della obiettività, come è da ritenere sia avvenuto nel caso in questione, la condotta appare pienamente scriminata dall’esercizio del diritto di cronaca (giudiziaria), specie se esso attiene a vicende di sicuro interesse generale”. La sentenza del Gip milanese riprende sostanzialmente la sentenza 16 giugno 1981 della Cassazione penale (Foro It., 1982, II, 313; Giur. It., 1982, II, 346) che dice: “Il diritto di cronaca può essere esercitato anche quando ne derivi una lesione dell’altrui reputazione, purché la notizia pubblicata sia vera o almeno seriamente accertata, esista un pubblico interesse alla conoscenza dei fatti medesimi e la esposizione della notizia sia obiettiva, nel senso che non trasmodi in una incivile denigrazione che si risolva nell’offesa dell’altrui onore”.


Il legislatore ignora le “aperture” della Consulta sul tema fondamentale del diritto dei cittadini all’ìinformazione. Lo dimostra un episodio. La Camera aveva deciso di inasprire le pene per i giornalisti che pubblicano atti segreti, modificando l’articolo 684 del Codice Penale con l'introduzione di una sanzione pecuniaria da 30 a 50 milioni per i trasgressori, ferma restando l'ipotesi dell'arresto fino a 30 giorni. Le polemiche furono suscitate in particolare dalla pesantezza dell'ammenda, che all'unanimità la commissione Giustizia del Senato il 2 giugno ha deciso di cancellare. E' stato infatti ripristinato il testo attualmente vigente con l'articolo 684 che prevede un esborso più contenuto: da 100 a 500 mila lire.


I giornalisti non vogliono e non devono fare superinformazione (ma controinformazione) e non devono e non vogliono dare notizie di "padre ignoto". Contro questi rischi si alza ammonitrice la voce di Walter Tobagi, del Tobagi dell’ultimo dibattito al Circolo della Stampa di Milano. Era il 27 maggio 1980. Un discorso ancora oggi attualissimo. Non dobbiamo confondere controinformazione e superinformazione, consapevoli anche che l'apparente controinformazione potrebbe essere “un servizio prestato a una superinformazione di cui sfuggono completamente fini e modalità”. Se cade in questo errore, diceva Tobagi, “il giornalista deve chiedersi se fa un servizio giornalistico o se fa un altro servizio, che nel caso specifico è assai meno nobile”. Il lettore non  può essere destinatario di notizie di “padre ignoto”. Al lettore si deve anche dire la fonte che ha diffuso l’informazione “perché se non si fa questo i giornali rischiano di diventare degli strumenti che servono per combattere battaglie per conto terzi”.


Tobagi suggeriva una via d’uscita alla crisi dei rapporti giudici-giornalisti: dibattimenti rapidi in modo tale che i giudici non siano costretti a nascondere le notizie e i giornalisti non siano costretti a scrivere articoli sulla base di pochi dati. Era il maggio 1980. Otto anni dopo è entrato in vigore il nuovo rito processuale penale. Le cose non sono migliorate. I processi sono sempre lenti. Dai Palazzi di Giustizia continuano a uscire molte notizie di “padre ignoto”. Le cronache del delitto Marta Russo, come abbiamo visto, ne sono una prova.


Giornalisti e giudici devono parlarsi di più. Molti anni fa Adolfo Beria di Argentine, già procuratore generale di Milano, propose la nascita di “Comitati di giustizia e informazione”, un foro dove possono vincere il dialogo e le proposte pratiche. Recentemente Giuliano Pisapia e Antonino Caruso, parlamentari di forze politiche opposte, hanno proposte di creare uffici stampa nei Palazzi di giustizia. Resta un nodo da sciogliere: come assicurare ai cittadini una informazione completa, pulita, la più veritiera possibile. Questo tipo di informazione, secondo la Consulta, è un dovere costituzionale, cioè è un diritto dei cittadini.


I Pm non possono trincerarsi dietro i divieti quando i divieti a pubblicare non esistono più. È loro dovere, credo, dare a tutti i cronisti notizie complete o mettere i cronisti in condizione di rintracciare le parti processuali perché vicende di interesse pubblico siano ricostruite imparzialmente. La sfida è la correttezza delle cronache: un dovere, ripeto, da assolvere sia dai giudici, sia dai giornalisti. La sfida riguarda anche il Parlamento, che  dovrebbe essere sollecitato ad apportare modifiche sostanziali  ad alcuni articoli del Cpp (128, 366, 416, 419, 430,  433, 548). Le udienze davanti al Gip e al Gup dovranno essere pubbliche: le Camere non possono glissare su tale esigenza di trasparenza.  I giornalisti, intermediari intellettuali tra i fatti e il pubblico, devono essere messi giuridicamente in condizione di poter estrarre copia delle richieste del Pm di rinvio a giudizio, dei provvedimenti del Gip, dei  decreti che dispongono il giudizio, delle memorie e delle richieste delle parti, degli atti cui hanno diritto di assistere i difensori, del fascicolo del Pm, del fascicolo per il dibattimento,  delle sentenze. I giornalisti, che lavorano per garantire ai cittadini il diritto di essere informati, rappresentano una parte nel processo penale e come tali  devono godere dei diritti assicurati dall’ordinamento processuale al difensore. Il giornalista, quindi, come l’avvocato. Vanno rotti i rapporti equivoci tra giornalisti e Pm e anche quelli tra giornalisti e avvocati. In sostanza chiediamo di essere responsabilizzati al massimo livello. Se i giornalisti dovessero vedersi riconosciuti i diritti dei difensori, allora non avrebbero più attenuanti  qualora le cronache dovessero risultare incomplete,  quindi false e diffamatorie. Non rivendichiamo il diritto di avere tutte le “carte”, che fotocopiano gli avvocati, per diffamare i cittadini al riparo di possibili querele e azioni risarcitorie.  Chiediamo le “carte”  per poter raccontare i fatti e pubblicare le immagini dei protagonisti delle vicende quotidiane  nel rispetto delle regole deontologiche e del Codice di deontologia sulla privacy. Vogliamo sfuggire alla morsa della  mezza notizia=notizia falsa = notizia diffamatoria. Le “carte” saranno sempre utilizzate in maniera rigorosa e responsabile. Negli Stati Uniti il Congresso, in virtù del primo emendamento, non può fare leggi sul tema della libertà di stampa. I giornalisti, però, non sono liberi di scrivere ciò  che credono e vogliono. Il primo emendamento ha solo un limite: che le notizie riportate corrispondano alla verità. Se un’impresa o un privato ritengono che la diffusione di una notizia li abbia danneggiati, devono provare in tribunale - e con il più elevato onere della prova - che il giornalista abbia mentito e che la stessa notizia falsa sia stata diffusa con «l’intento malizioso di cagionare un danno».


 


Quattro buone ragioni per difendere la legge professionale dei giornalisti. La parola Ordine significa riconoscimento giuridico di una professione. L’Ordine, inoltre, è  la deontologia. Nel caso specifico le “regole” fissate dal legislatore sono il perno, come afferma il nostro contratto di lavoro, dell’autonomia dei giornalisti. I Consigli degli Ordini sono per legge i giudici disciplinari. Fanno la loro parte, certamente con alti e bassi. Gli enti e gli apparati statali camminano sulle gambe delle donne e degli uomini che se ne occupano. Probabilmente sono da mettere sott’accusa donne e uomini per le loro insufficienze e incapacità. In Italia è di moda, al contrario, ribaltare le situazioni e  sparare solo sugli enti e sugli apparati...che non funzionano!


Sottolineo l’importanza strategica per una società democratica del nuovo diritto fondamentale dei cittadini all’informazione (“corretta e completa”), costruito dalla Corte costituzionale sulla base dell’articolo 21 della Costituzione e dell’articolo 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Questo nuovo diritto fondamentale presuppone la presenza e l’attività di giornalisti vincolati a una deontologia specifica e a un giudice disciplinare nonché a un esame di Stato, che ne accerti la preparazione come prevede l’articolo 33 della Costituzione.


I consiglieri dell’Ordine della Lombardia condividono quella parte del decreto legislativo sul riordino dei ministeri che affida l’accesso alle professioni - e quindi anche della professione giornalistica - all’Università. E’ augurabile  che le scuole di giornalismo, oggi riconosciute, siano collocate nel nuovo assetto organizzativo degli Atenei italiani, potendo costituire il ciclo conclusivo biennale del corso di laurea in  Scienze della comunicazione. La nostra scuola di giornalismo (l’Ifg “Carlo De Martino”) in 20 anni ha formato 500 giornalisti. Nell’Ifg la deontologia è anche materia di insegnamento.


Le considerazioni e i fatti raccontati consentono di risalire alle ragioni che hanno spinto il Parlamento nel 1963 a tutelare la professione giornalistica.  L’eventuale abrogazione della legge n. 69/1963 sull’ordinamento della professione giornalistica comporterà questi  rischi:


1) quella dei giornalisti non sarà più una professione intellettuale riconosciuta e tutelata dalla legge.


2) risulterà abolita l’etica professionale fissata oggi nell’articolo 2 della legge professionale ("E' diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà di informazione e di critica, limitata dall'osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui ed è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale di fatti, osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede. Devono essere rettificate le notizie che risultino inesatte, e riparati gli eventuali errori. Giornalisti e editori sono tenuti a rispettare il segreto professionale sulla fonte delle notizie, quando ciò sia richiesto dal carattere fiduciario di esse, e a promuovere lo spirito di collaborazione tra colleghi, la cooperazione fra giornalisti e editori, e la fiducia tra la stampa e i lettori"). Senza etica, regnerà, nel mondo dell’informazione, la legge della giungla!!!


3) senza la legge n. 69/1963,  cadrà per giornalisti (ed editori) la norma che impone il rispetto del “segreto professionale sulla fonte delle notizie”. Nessuno in futuro darà una notizia ai giornalisti privati dello scudo del  segreto professionale.


4) senza legge professionale, direttori e redattori saranno degli impiegati di redazione vincolati soltanto da  due articoli (2104 e 2105) del Codice civile che riguardano gli obblighi di diligenza e di  fedeltà. Gli accordi tra editore e direttore responsabile (su linea politica, organizzazione e sviluppo della testata) non devono, dice oggi l’articolo 6 del Cnlg,  “risultare in contrasto con le norme sull’ordinamento della professione giornalistica”. In sostanza l’editore oggi sa che ha di fronte  giornalisti  professionisti vincolati per legge al rispetto di determinate regole etiche e, quindi, non può impartire disposizioni al direttore in rotta di collisione con quelle regole. In futuro, se le norme sull’ordinamento della professione giornalistica dovessero nel frattempo essere cancellate, l’imprenditore (o chi per lui) potrà scavalcare l’impiegato-direttore e  impartire direttamente disposizioni agli impiegati-redattori sui contenuti del giornale. Senza legge professionale, direttori e redattori saranno degli impiegati di redazione vincolati soltanto da due articoli (2104 e 2105) del Codice civile che riguardano gli obblighi di diligenza e  fedeltà. Questi due articoli, senza la barriera della legge professionale, conferiscono all’editore un potere totale che prima non aveva. Dice l’articolo 2104 Cc: “Diligenza del prestatore di lavoro. Il prestatore di lavoro deve  inoltre osservare le disposizioni per l’esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dall’imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende”. Dice l’articolo 2105“Obbligo di fedeltà. Il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l'imprenditore, né divulgare notizie attinenti all'organizzazione e ai metodi di produzione dell'impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio”.


Il direttore responsabile, non più giornalista professionista, diventerà, comunque, un dirigente dell’azienda editoriale alle dipendenze operative dell’amministratore delegato e del suo braccio destro (il direttore editoriale). Oggi il giornalista, se crede e se vuole, può dire molti no; domani, privato dello scudo della legge professionale, dovrà dire molti sì a meno che non voglia correre il rischio del licenziamento per non essere fedele e diligente verso il suo editore.


Senza la deontologia calata nella legge professionale, e quindi vincolante per tutti (editori compresi),  il direttore non potrebbe più garantire l’autonomia della sua  redazione e  i redattori dovrebbero solo piegare la testa di fronte agli interessi dell’editore. La professione non ci sarebbe più. Sarebbe un ritorno al passato e quindi al mestiere.


Sono convinto che la distruzione degli Ordini e dei Collegi costituisca una minaccia per l’autonomia dei professionisti italiani. Governo e Parlamento devono preoccuparsi di riformare le leggi sugli   ordini e i collegi e di tutelare i saperi dei professionisti stessi, saperi che sono una ricchezza senza confini e una inesauribile fonte di progresso per la Nazione. Lo stesso Massimo D’Alema oggi parla dei professionisti come “classe dirigente diffusa del Paese”, precisando che “essi storicamente hanno assolto al ruolo di organizzare il sapere e le competenze”.  Gli ordini e i collegi possono sopravvivere (come persone giuridiche di diritto privato) occupandosi esclusivamente di deontologia e formazione. Il  Dlgs n.  303/1999 dà garanzie di sopravvivenza degli ordini e dei collegi e lo stesso Governo è di quest’avviso. Vedremo come saranno riorganizzati.


Facciamo in modo che in Italia la stampa diventi guardiana vera dei poteri per essere noi più liberi e meno condizionati dai poteri forti. Questa prospettiva ha anche bisogno di giornalisti e non di impiegati di redazione. Se avesse vinto il referendum di Pannella la situazione dell’informazione sarebbe diventata drammatica. Gli amministratori dei giornali  sarebbero diventati i reali padroni del giornale e il punto di riferimento giornalistico dei redattori non più professionisti, vincolati all’etica per legge e  autonomi per legge in quanto oggi la professione è tutelata giuridicamente e anche dalle sentenze nitide della Corte costituzionale. Cancellare la professione giornalistica dall'ordinamento vuol dire solo avviarsi verso una concezione del giornale non più opera collettiva dell'ingegno ma prodotto senza regole dove ad esempio sarebbe informazione anche il messaggio pubblicitario. Il messaggio pubblicitario, per capirci, non è solo quello relativo alla auto Fiat o ai pelati.


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Testo pubblicato in “Tabloid” (n. 11/1999) e in http://www.odg.mi.it/node/31121


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