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Da “GUIDA AL DIRITTO” n. 47 del 9 dicembre 2006.

La legge 281/2006 punisce chi pubblica intercettazioni abusive.
Azioni civili: giornali esposti per decenni.////
Il commento di Franco Abruzzo



Il senso della legge 281/2006, che ha convertito il dl 27 settembre 2006 n. 259 sulla normativa in tema di intercettazioni telefoniche, si può sintetizzare così: l’ascolto illecito è fuori dalla Costituzione, ma la distruzione delle registrazioni abusive è una prerogativa affidata soltanto al Gip, mentre il Pm mantiene un ruolo rilevante nella fase iniziale del procedimento che porta alla distruzione delle registrazioni illegittime.


Cosa cambia. La vecchia stesura del rinnovato articolo 240 Cpp (Documenti  anonimi ed atti relativi ad intercettazioni illegali) parlava di  “autorità giudiziaria” (i ruoli di Pm e Gip non erano chiari).  Oggi, invece, il Pm  “dispone l'immediata secretazione e la custodia  in  luogo protetto dei documenti, dei supporti e degli atti concernenti  dati  e  contenuti  di  conversazioni  o  comunicazioni, relativi  a  traffico telefonico e telematico, illegalmente formati o acquisiti.   Allo  stesso  modo  provvede  per  i  documenti  formati attraverso  la  raccolta illegale di informazioni. Di essi è vietato effettuare   copia  in  qualunque  forma  e  in  qualunque  fase  del procedimento ed il loro contenuto non può essere utilizzato. Il Pm, acquisiti i documenti, i supporti e gli atti, entro quarantotto ore, chiede al giudice per le indagini preliminari di disporne la distruzione”. Il  Gip a sua volta “ entro le successive quarantotto  ore  fissa  l'udienza  da tenersi entro dieci giorni, ai sensi  dell'articolo 127 Cpp,  dando avviso a tutte le parti interessate, che  potranno  nominare  un  difensore  di fiducia, almeno tre giorni prima della data dell'udienza”.


Sentite  le  parti  comparse,  il  Gip “legge  il  provvedimento  in udienza e, nel caso ritenga  sussistenti  i  presupposti, dispone la distruzione dei documenti, dei supporti e degli atti e vi  dà esecuzione subito dopo alla presenza del pubblico ministero e dei difensori delle parti.  Delle  operazioni di distruzione  è redatto apposito verbale, nel  quale  si  dà atto dell'avvenuta intercettazione o detenzione o acquisizione illecita dei documenti, dei supporti e degli atti concernenti  dati  e  contenuti  di  conversazioni  o  comunicazioni, relativi  a  traffico telefonico e telematico, illegalmente formati o acquisiti  nonché  delle modalità e dei mezzi usati oltre che dei soggetti  interessati,  senza  alcun  riferimento  al contenuto degli stessi documenti, supporti e atti”. La procedura è estremamente garantista e per quanto riguarda i tempi di azione (48 ore per il Pm e  48 ore per il Gip)  è evidente il raddoppio  delle 24 ore previste nell’articolo 21 (IV comma) della Costituzione.  E'  sempre  consentita  la  lettura  dei  verbali relativi all'acquisizione  ed alle operazioni di distruzione degli atti.


Questa legge ha sullo sfondo l’articolo 15 della Costituizione secondo il quale “la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili. La loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell'Autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge”. Ne consegue che le intercettazioni illegali non rientrano nel diritto di cronaca e non possono trovare cittadinanza nelle pagine dei giornali. Diverso è il discorso sulle intercettazioni disposte dall’autorità giudiziarie: quelle  (una volta depositate in cancelleria) si possono pubblicare, ma salvaguardando la dignità delle persone coinvolte.


Della stesura originaria dell’articolo 240 rimane in  piedi soltanto il primo comma: “I documenti che contengono dichiarazioni anonime non possono  essere  acquisiti  né  in  alcun modo utilizzati, salvo che costituiscano corpo del reato o provengano comunque dall'imputato”. Sotto il profilo strettamente giudiziario, le intercettazioni illecite non possono offrire ai Pm “spunti di indagine”, perché sono state raccolte senza “un atto motivato dell’Autorità giudiziaria” (la Cassazione sul punto è univoca).


Sanzioni penali. L’articolo 3 della legge punisce chiunque  consapevolmente  detiene  gli  atti, i supporti o i documenti   di  cui  sia  stata  disposta  la  distruzione  con la pena della reclusione da sei mesi a quattro  anni (in precedenza sei anni). Si  applica la pena della reclusione da uno a cinque anni (in precedenza 7 anni) se il fatto  è commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio. Le pene, quindi, sono state addolcite (nel massimo).


Editori, articolisti e direttori di giornali. L’articolo 4  si rifà ai contenuti dell’articolo 11 (Responsabilità civile) della legge 47/1948 sulla stampa (“Per i reati commessi col mezzo della stampa sono civilmente responsabili, in solido con gli autori del reato e fra di loro, il proprietario della pubblicazione e l'editore”) e a quelli dell’articolo  12 (Riparazione pecuniaria) della stessa legge (“Nel caso di diffamazione commessa col mezzo della stampa, la persona offesa può chiedere, oltre il risarcimento dei danni ai sensi dell'art. 185 del Codice penale, una somma a titolo di riparazione. La somma è determinata in relazione alla gravità dell'offesa ed alla diffusione dello stampato”). L’assonanza è perfetta. Chi  è diffamato in sostanza incassa due somme, una  sotto il profilo dei danni e una  a titolo  riparatorio. Lo stesso schema è stato riprodotto nella legge 281/2006, che punisce chi pubblica  intercettazioni abusive.


L’articolo 4 afferma che “a titolo di riparazione può essere richiesta all'autore della pubblicazione   degli   atti  o  dei  documenti documenti (concernenti  dati  e  contenuti  di  conversazioni  o  comunicazioni, relativi  a  traffico telefonico e telematico, illegalmente formati o acquisiti, ndr) , al  direttore responsabile  e  all'editore, in solido fra loro, una somma di denaro determinata   in  ragione  di  cinquanta  centesimi  per  ogni  copia stampata,  ovvero da 50.000 a 1.000.000 di euro secondo l'entità del bacino   di   utenza   ove  la  diffusione  sia  avvenuta  con  mezzo radiofonico,  televisivo  o telematico. In ogni caso, l'entità della riparazione non può essere inferiore a 10.000 euro (in precedenza 20.000 euro).  L'azione può  essere proposta da parte di coloro a cui i detti atti o documenti fanno riferimento. L'azione si prescrive nel termine di  cinque  anni (un anno nel testo originario)  dalla  data della pubblicazione. Agli effetti della prova  della corrispondenza degli atti o dei documenti pubblicati con quelli  (distrutti) fa fede il verbale. Si applicano,  in  quanto  compatibili,  le norme di cui al capo III del titolo I del libro IV del codice di procedura civile.  L'azione è esercitata senza pregiudizio di quanto il Garante per  la  protezione  dei  dati personali possa disporre ove accerti o inibisca  l'illecita  diffusione  di  dati  o  di  documenti, anche a seguito dell'esercizio di diritti da parte dell'interessato.  Qualora  sia  promossa per i medesimi fatti anche l'azione per il risarcimento del danno, il giudice tiene conto, in  sede  di  determinazione e liquidazione dello stesso, della somma già corrisposta (a titolo di riparazione, ndr)”.


Il testo originario affermava che  l’azione  riparatoria “va proposta nel termine di un anno dalla data della divulgazione, salvo che il soggetto interessato non dimostri di averne avuto conoscenza successivamente”. Il testo della legge, invece, recupera i termini (5 anni) dell’articolo 2947 del Codice civile. Con la sentenza n. 5259/1984, la Corte di Cassazione ha stabilito che ogni cittadino può tutelare il proprio onore e la propria dignità in sede civile senza avviare l’azione penale. Ogni cittadino può agire in sede penale entro tre mesi dalla pubblicazione della notizia diffamatoria (art. 124 Cp). Il Parlamento non ha provveduto, dopo la sentenza, a coordinare il tempo per l’azione civile con quello previsto per l’azione penale. Così è rimasto in vigore l’articolo 2947 del Cc, in base al quale «il diritto al risarcimento del danno derivante da fatto illecito si prescrive in 5 anni dal giorno in cui il fatto si è verificato...In ogni caso, se il fatto è considerato dalla legge come reato e  per il reato è stabilita una prescrizione più lunga, questa si applica anche all’azione civile». Questa norma espone giornalisti ed aziende al rischio di vedersi citare in giudizio, anche a distanza di 7-10 anni, per fatti remoti e sui quali il giornalista non ha conservato alcuna documentazione. I tempi dell’azione civilistica, secondo Fnsi e Ordine, dovrebbero essere  contenuti in  180 giorni dalla diffusione della notizia ritenuta  illecita o diffamatoria.


L’azione del Garante della privacy non è stata ampliata: il potere di infliggere sanzioni pecuniarie resta solidamente nelle mani dei tribunali.


Le sanzioni previste dall’articolo 4 sono pesanti e sono correlate alla lesione di diritti primari costituzionalmente protetti. Il rispetto della dignità della persona (art. 2 della Costituzione e art. 2 della legge 69/1963 sull’ordinamento della professione di giornalista) è il limite costituzionale interno  all’esercizio del diritto di  cronaca e di critica.  Il riconoscimento del diritto-dovere di cronaca non può comportare il sacrificio del principio del rispetto della reputazione e della dignità della persona umana.  I giornalisti ora sono avvertiti. Le intercettazioni illegali sono fuorilegge.


Una contraddizione decisiva ai fini processuali.  Il secondo comma dell’articolo 4 afferma che  “agli effetti della prova  della corrispondenza degli atti o dei documenti pubblicati con quelli  di  cui  al comma 2 dell'articolo 240 del codice di procedura penale fa fede il verbale di cui al comma 6 dello stesso articolo”.  Secondo il  sesto comma dell’articolo 240 del Cpp, “delle  operazioni di distruzione è redatto apposito verbale, nel  quale  si  dà atto dell'avvenuta intercettazione o detenzione o acquisizione illecita dei documenti, dei supporti e degli atti di cui al  comma 2  nonché  delle modalità e dei mezzi usati oltre che dei soggetti  interessati,  senza  alcun  riferimento  al contenuto degli stessi documenti, supporti e atti”.  Domanda: se nel verbale  non c’è “alcun  riferimento  al contenuto degli stessi documenti, supporti e atti (distrutti)” come può stabilire il giudice che  un giornale  pubblica le “carte” distrutte  se il verbale non può concretamente “far fede”?


 


 





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