Il giornalista che indaga autonomamente su un personaggio pubblico e, poi, pubblica la propria inchiesta sa di poter correre un rischio. Se ciò che ha scritto non è veritiero, è lesivo della rispettabilità dell'uomo pubblico, può essere chiamato in giudizio e condannato a pagare i danni al danneggiato. Se, invece, il giornalista pubblica i verbali dell'indagine di una Procura sa di non correre rischi. Anche se ciò che ha divulgato non fosse veritiero, ledesse la rispettabilità dell'uomo pubblico, nessuno ne risponderebbe. Non il giornalista che ha fatto il proprio mestiere al riparo di un documento pubblico; non il magistrato. Eppure, i due casi fanno tutta la differenza fra un Paese di civiltà del diritto dove impera la «presunzione di innocenza“ e un Paese nel quale vige (ancora) la consuetudine del linciaggio popolare sulla base della «presunzione di colpevolezza».
Diciamola, allora, tutta. La protesta promossa dalla Federazione nazionale della stampa contro la «legge bavaglio» peraltro pessima sotto molti aspetti non è stata, dunque, una manifestazione per la libertà di informazione, bensì per l'impunità dei giornalisti anche -ancorché per interposta magistratura- nel caso di pubblicazione di notizie lesive della reputazione altrui. Una manifestazione corporativa? Piuttosto, di fatto, la copertura all'irresponsabilità civile della magistratura, malgrado un referendum popolare contrario. Ma, allora, obbietteranno molti colleghi, come informiamo i lettori delle (eventuali) malefatte del potere? Qui, penetriamo nella «zona grigia» fra il diritto-dovere dei media di informare, il diritto dei lettori a essere informati, la cultura e l'etica professionali dei giornalisti.
Se diritto-dovere dell'informazione è di informare i lettori sui comportamenti del potere, non si dovrebbe fare distinzione fra poteri. Perché solo i comportamenti del potere politico, e non anche del potere giudiziario, economico, sociale? Fare le pulci al potere politico è il compito primario dell'informazione perché così consente al cittadino-elettore di individuare i suoi diritti e i suoi interessi e di votare con cognizione di causa. Ma, per il fatto di non trarre la propria legittimità dal voto del popolo, forse che gli altri poteri sono esentati dal controllo dei media e, di conseguenza, dal giudizio di un'opinione pubblica bene informata? E a questo punto che l'etica professionale dei giornalisti dovrebbe recitare un ruolo di supplenza civile e liberale. Primo: evitando di fare da megafono solo a qualcuna delle parti in causa, compresa la magistratura; precisando che le accuse riferite sono (ancora) ipotesi tutte da provare e non il frutto di un lavoro giornalistico autonomo; indagando autonomamente come si sia pervenuti alla formulazione delle accuse e verificandone natura e attendibilità. Secondo: riferendo contemporaneamente, e con rilievo, le ragioni dell'accusato, interpellandone gli avvocati difensori e pubblicandone le controdeduzioni. Terzo: facendo capo, infine, per il giudizio di merito, al dibattimento in sede processuale. Solo così si potrebbe parlare di libertà dell'informazione. Che deve essere cosa ben diversa dall'uso delle cronache giudiziarie per fini di lotta politica, economica, sociale.
postellino@corriere.it
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Leggi in http://www.francoabruzzo.it/document.asp?DID=5319
Sentenza n. 59/1995 della Corte
costituzionale: “Gli atti del fascicolo
per il dibattimento (comprese
le registrazioni telefoniche) possono
essere pubblicati anteriormente alla
pronuncia della sentenza di primo grado”.
Vince pienamente il diritto di cronaca.
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