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Stampa

INPGI/Polemiche e chiarimenti.
Privacy, pubblicità
delle sentenze
e ignoranza giuridica
di chi lancia accuse
senza fondamento. Lezione di Abruzzo sui fondamentali del giornalismo.
Duello Cescutti/Chiodini.

“Quarto potere” (componente sindacale della Fnsi di cui è leader Edmondo Rho) ha diffuso via web e ha pubblicato sul suo sito una lettera del giornalista professionista Ezio Chiodini, capo ufficio stampa della Banca popolare di Milano e revisore dei conti dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia. Nella lettera si legge:


“Il presidente dell'Ordine dei giornalisti della Lombardia, Franco Abruzzo, ha inviato a centinaia (forse migliaia) di colleghi (possiede una mailing list notevole) un'ennesima e-mail con la quale commenta una sentenza a mio favore e contraria all'Inpgi per quanto riguarda la materia inerente il cumulo. La sentenza è pubblica e quindi ha il diritto di pubblicarla e di commentarla.


Franco Abruzzo non ha invece il diritto di fare il nome della persona coinvolta (seppur vincente nella causa) e neppure di pubblicare gli elementi che possano identificarla se non con il consenso della persona stessa. Ebbene, io questo consenso non l'ho dato. E lui che cosa ha fatto? Dalla sentenza ha tolto alcuni riferimenti alla mia persona ma ha titolato l'allegato (la sentenza stessa) con il mio nome.


Come giudicare questo atteggiamento?. Dico solo che fa parte di un quadro di atteggiamenti che non condivido, neppure quando riguardano la gestione dell'Odg della Lombardia e della Scuola di giornalismo. E aggiungo che non voglio essere lo strumento di una battaglia elettorale (a maggio ci saranno le elezioni dell'Odg) che dovrebbe avere come protagonisti ben altre persone. Dico solo che quanto fatto è scorretto e viola la privacy e di ciò un presidente dell'Ordine dovrebbe ben essere consapevole e garante. Ma tant'è. E mi dispiace che senza il mio consenso si mettano in piazza questioni mie personali. Chiedo pertanto al sito di Quarto Potere di pubblicare questo mio intervento e di darne ampia pubblicizzazione. Grazie”,


-------------

Risposta di Franco Abruzzo

Potrei liquidare la risposta in poche battute: le sentenze penali e civili sono pubbliche e, quindi, sono pubblicabili soprattutto quando, come nel caso Chiodini, attengono a vicende di interesse generale (tale è la battaglia sulla libertà di cumulo da me condotta da diversi anni a questa parte). E’ anche evidente che ci sono sentenze che vanno riassunte senza pubblicare i nomi dei protagonisti: è proibito pubblicare i nomi dei minori e delle persone violentate, delle parti nei procedimenti in materia di “delicati” rapporti di famiglia o di stato delle persone. In sostanza la privacy abbraccia gli argomenti sul sesso, sulla salute e sui soggetti deboli. L’anonimato per gli imputati è, invece, limitato alle riviste di informatica giuridica anche online. I giornalisti ubbidiscono alle regole del loro Codice deontologico e non devono chiedere permessi per scrivere in quanto “la stampa è libera e non è soggetta ad autorizzazioni” (art. 21, II comma, della Costituzione). Da economisti del valore di Ezio Chiodini ed Edmondo Rho (direttore del sito e “terrore delle banche” come ama dire di sé) non si possono pretendere raffinate conoscenze giuridiche anche se diffuse costantemente dall’Ordine di Milano, dal suo portale e dal suo periodico “Tabloid”.


L’occasione, però, mi consente di fare il punto sulla questione sollevata (incautamente e con toni diffamatori) da Chiodini e avallata (altrettanto incautamente) da Rho.


La Corte di Cassazione e anche i Tribunali e le Corti d’Appello possono rilasciare copie integrali delle sentenze ai giornalisti senza oscurare il nome degli imputati. Lo aveva chiarito la relazione 5 luglio 2005 dell'Ufficio del Massimario della stessa Corte intervenendo a seguito di precise richieste da parte dell'Ordine dei Giornalisti della Lombardia. La questione era nata a seguito dell’istanza di un imputato per reati sessuali che, appellandosi all’articolo 52 del Dlgs n. 196 del 2003, aveva sollecitato che il proprio nome pubblicato sulla sentenza fosse sbianchettato. Per tale motivo, la copia della sentenza n. 22724/05 della Terza Sezione Penale era stata stampata cancellando il nome e le generalità dell'imputato e con un timbro posto in alto a sinistra che richiamava la norma di legge che consente l'anonimizzazione. La Suprema Corte ha infatti spiegato che chiunque può richiedere una copia delle sentenze perché in quanto atti pubblici pronunciati "in nome del Popolo Italiano'' e che deve, però, oscurare i dati personali se vuole pubblicarle su una rivista specializzata di informatica giuridica; tuttavia, tale obbligo non vale per la cronaca giudiziaria in senso stretto, che deve assicurare il diritto all'informazione pur nel pieno rispetto dei diritti degli imputati. Nella relazione si affermava infatti che "le sentenze e gli altri provvedimenti giurisdizionali possono essere diffusi, anche attraverso il sito istituzionale nella rete Internet, nel loro testo integrale, completo - oltre che dei dati riferiti a particolari condizioni o status, anche di natura sensibile - delle generalità delle parti e dei soggetti coinvolti nella vicenda giudiziaria" e che "chi esercita l'attività giornalistica o altra attività comunque riconducibile alla libera manifestazione del pensiero [...] possa trattare dati personali anche prescindendo dal consenso dell'interessato e, con riferimento ai dati sensibili e giudiziari, senza una preventiva autorizzazione di legge o del Garante". Il Codice della privacy nell’attività giornalistica (del 3 agosto 1998) proibisce la pubblicazione dei dati identificativi di un minore o di una persona, che abbia subito violenza sessuale.


Il “Testo unico della privacy” 196/2003 (come la legge 675/1996) dà piena libertà ai giornalisti di trattare i dati giudiziari (secondo le regole deontologiche). I giudici delle violazioni sono soltanto i Consigli dell’Ordine dei Giornalisti. Secondo l’articolo 137 del Dlgs n. 196/2003, ai trattamenti (effettuati nell'esercizio della professione di giornalista e per l'esclusivo perseguimento delle relative finalità) non si applicano le disposizioni del Testo unico 196/2003 sulla privacy relative: a) all'autorizzazione del Garante prevista dall'articolo 26; b) alle garanzie previste dall'articolo 27 per i dati giudiziari; c) al trasferimento dei dati all'estero, contenute nel Titolo VII della Parte I. In sostanza l’articolo 137, non prevedendo il disco verde del Garante o di soggetti privati, rispetta l’articolo 21 (II comma) della Costituzione che vuole la stampa non soggetta ad autorizzazioni. I giornalisti dovranno, comunque, trattare i dati (=notizie) con correttezza, secondo i vincoli posti dal Codice della privacy del 1998, dagli articoli 2 e 48 della legge n. 69/1963 (sull’ordinamento della professione giornalistica) e dalla Carta dei doveri del 1993.


La legge sulla privacy non annulla un’altra legge centrale dell’ordinamento giuridico, la n. 633 del 1941 sul diritto d’autore. L’articolo 96 (in linea con l’articolo 10 Cc) protegge l’immagine della persona, che deve dare il consenso alla pubblicazione della sua foto. Senza il consenso, la pubblicazione della foto diventa un illecito civile. L’articolo 97 fissa le eccezioni: “Non occorre il consenso della persona ritratta quando la riproduzione dell’immagine è giustificata dalla notorietà o dall’ufficio pubblico coperto, da necessità di giustizia o di polizia, da scopi scientifici, didattici o culturali, o quando la riproduzione è collegata a fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico”. Sul risvolto di tale norma si suole articolare l’ampiezza del diritto di cronaca: si può pubblicare tutto ciò che è collegato a fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico.


Si legge ancora nella relazione dell’Ufficio del Massimario:


“Il Codice prevede uno statuto particolare per l’attività giornalistica, che rifugge dalla previsione di regole rigide e minuziose e che affida in prima battuta il bilanciamento tra i diritti e le libertà allo stesso giornalista il quale, in base ad una propria valutazione (che può essere sindacata), acquisisce, seleziona e pubblica i dati utili ad informare la collettività su fatti di rilevanza generale e d’interesse pubblico, esprimendosi nella cornice della normativa vigente e nel rispetto del proprio codice di deontologia. Esso stabilisce che chi esercita l’attività giornalistica o altra attività comunque riconducibile alla libera manifestazione del pensiero (inclusa l’espressione artistica e letteraria, come ora precisato dall’art. 136 del Codice) possa trattare dati personali anche prescindendo dal consenso dell’interessato e, con riferimento ai dati sensibili e giudiziari, senza una preventiva autorizzazione di legge o del Garante.


In caso di diffusione o di comunicazione di dati, il giornalista è peraltro tenuto comunque a rispettare alcune condizioni (art. 137, comma 3): i limiti del diritto di cronaca e, in particolare, quello dell’essenzialità dell’informazione riguardo a fatti di interesse pubblico, e i principi previsti dal codice deontologico relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica.


In ordine ai dati giudiziari, il codice deontologico (art. 12), a sua volta, rinvia al principio di essenzialità dell’informazione (art. 5), in modo da evitare riferimenti a congiunti o ad altri soggetti non interessati ai fatti.


La non diretta operatività all’attività giornalistica degli effetti dell’anonimizzazione disposta ai sensi dell’art. 52, commi e 2, del Codice – ma, più limitatamente, l’affidamento all’autonomia e alla responsabilità del giornalista, nel rispetto della legge e del Codice deontologico, dei risultati di quella ponderazione e di quel bilanciamento – sembra ricavarsi dal parere del Garante 6 maggio 2004 su Privacy e giornalismo. Alcuni chiarimenti in risposta a quesiti dell’Ordine dei giornalisti. Il Garante ha evidenziato la necessità che l’esigenza di assicurare la trasparenza dell’attività giudiziaria e il controllo della collettività sul modo in cui viene amministrata la giustizia debba comunque bilanciarsi con alcune garanzie fondamentali riconosciute all’indagato e all’imputato: la presunzione di non colpevolezza fino a condanna definitiva, il diritto di difesa e il diritto ad un giusto processo. In particolare, la diffusione dei nomi di persone condannate e, in generale, dei destinatari di provvedimenti giurisdizionali, ad avviso del Garante, deve inquadrarsi nell’ambito delle disposizioni processuali vigenti, di regola improntate ad un regime di tendenziale pubblicità. Di guisa che sono ritenuti pubblicabili, ad esempio, l’identità, l’età, la professione, il capo di imputazione e la condanna irrogata ad una persona maggiorenne ove risulti la verità dei fatti, la forma civile dell’esposizione e la rilevanza pubblica (anche solo in un contesto locale) della notizia. Secondo il Garante, nella diffusione dei dati dei condannati devono essere presi in considerazione il tipo di soggetti coinvolti (ad esempio, persone con handicap o disturbi psichici, o ancora, ragazzi molto giovani), il tipo di reato accertato e la particolare tenuità dello stesso, l’eventualità che si tratti di condanne scontate da diversi anni o assistite da particolari benefici (es. quello della non menzione nel casellario), in ragione dell’esigenza di promuovere il reinserimento sociale del condannato. Le medesime ragioni di tutela dei dati personali, ad avviso del Garante, dovrebbero altresì prevalere nei casi in cui la vittima ha manifestato la volontà che i propri dati non siano resi pubblici (fermo restando il fatto che il giornalista può procedere alla pubblicazione dei diversi dati anche in assenza del consenso da parte degli interessati). Tale principio troverebbe, tra l’altro, fondamento nella possibilità, per ogni soggetto interessato, di opporsi anche in anticipo per motivi legittimi alla pubblicazione (art. 7, comma 4, lettera a, del Codice). Secondo il Garante, il giornalista, nell’effettuare le valutazioni a lui rimesse, “non potrà non tenere conto del bilanciamento di interessi effettuato in un altro fronte e cioè che le sentenze pubblicate per finalità di informatica giuridica (non giornaliste, quindi) dallo stesso ufficio giudiziario, oppure da riviste giuridiche anche on-line, potranno in alcuni casi più delicati non recare il nome di taluna delle parti o di terzi (minore, delicati rapporti di famiglia, ecc.: art. 52 del Codice)”.

Nota

Chiodini dice che altre persone, non Abruzzo, dovrebbero candidarsi in occasione delle elezioni di maggio. Una frase grave e ingiuriosa contro il presidente dell’Ordine, che ha agito in maniera ineccepibile. Ho dimostrato che Chiodini ha scritto delle sciocchezze giuridiche senza capo né coda. Nelle regole deontologiche (art. 2 della legge 69/1963) è previsto il ravvedimento del giornalista con il ricorso alla rettifica (“Devono essere rettificate le notizie che risultino inesatte, e riparati gli eventuali errori”). Mi posso aspettare tanto da Chiodini e da Rho? Entrambi hanno l’occasione di dimostrare che sono persone oneste e corrette. Rho ha l’obbligo di togliere subito dal suo sito lo scritto diffamatorio di Chiodini. Rho è colpevole sotto un altro profilo: mi conosce bene e sa che non sono avventato quando parlo di questioni giuridiche. Avrebbe dovuto informarsi prima: questa è la correttezza del buon giornalista. Rho ha preferito pubblicare soltanto il libello di Chiodini. Aspetto il chiarimento. Altrimenti la parola passerà ai giudici. Fto Franco Abruzzo.


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INPGI


Gabriele Cescutti scrive a Ezio Chiodini:


“Caro collega, sbagli e hai torto alla grande”



dal nostro corrispondente F.M. de B.


Roma, 14 marzo 2007. Ezio Chiodini protesta per la pubblicazione del suo nome in una lettera di Gabriele Cescutti dedicata alla sconfitta dell’Inpgi patita alla Corte d’Appello Milano in una causa sulla libertà di cumulo (“Chiodini batte Inpgi 3 a 0”). Scrive Cescutti: “Egregio collega, trovo davvero sorprendente che chi, a pieno diritto, ha deciso di intentare causa all’Inpgi, si dolga se l’esito per lui positivo viene pubblicizzato, inserendo nella cronaca il nome e il cognome del vincitore. E ciò non tanto perché, indubitabilmente, le sentenze della magistratura sono pubbliche, quanto perchè il Testo unico sulla privacy (D.Lgs. 196/2003) prevede il consenso scritto dell’interessato soltanto per la diffusione dei dati sensibili. E sono


tali, come recita il comma (d) dell’articolo 4 della stessa norma i dati personali idonei a rivelare l’origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l’adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, nonchè i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale. Escludo che il tuo caso possa rientrare nella casistica appena illustrata. Ritengo quindi del tutto fuori luogo, da parte tua, fare l’offeso, tirando in ballo la discrezione, la privacy o la buona educazione. Ti preciso inoltre, che non ho l’abitudine di imporre all’Inpgi ricorsi in Cassazione temerari. Valuto invece, con la dovuta attenzione i pareri resi dal nostro Ufficio Legale. I cui componenti, per le ragioni che ho ampiamente illustrato nella circolare dell’8 marzo scorso, ritengono esistano più che ampie possibilità di riformare la sentenza della Corte d’Appello di Milano. In conclusione, essendo del tutto infondate le tue lamentele, avevo giudicato che fosse più che legittimo non dare corso alla richiesta di diffusione delle tua lettera. Ma ci ho ripensato. Con tutta probabilità , infatti, mi troverei a dover rispondere a una tua nuova lettera, questa volta con l’accusa di intenti censori. Meglio chiudere qui. Di conseguenza provvederò all’invio così come hai chiesto. Naturalmente facendo seguire alle tue lagnanze la mia risposta. Cordialità . Gabriele Cescutti”.







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